Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 18 Mercoledì calendario

Domenico Arillotta, 82 anni. Pensionato, viveva da solo a Pellara (Reggio Calabria) in un appartamento al primo piano dove l’altra notte entrarono dei balordi che per rubargli pochi spiccioli lo immobilizzarono al letto con un cintura e poi, siccome non smetteva di urlare, gli diedero un cazzotto in testa e poi gli pigiarono un cuscino sulla faccia finché non smise di respirare

Domenico Arillotta, 82 anni. Pensionato, viveva da solo a Pellara (Reggio Calabria) in un appartamento al primo piano dove l’altra notte entrarono dei balordi che per rubargli pochi spiccioli lo immobilizzarono al letto con un cintura e poi, siccome non smetteva di urlare, gli diedero un cazzotto in testa e poi gli pigiarono un cuscino sulla faccia finché non smise di respirare. Alle 3 di notte di giovedì 19 aprile a Pellaro (Reggio Calabria). Una donna di 84 anni. Di Bari, costretta sulla sedia a rotelle, viveva con la nipote di 37 anni orfana e disoccupata. L’altra notte la vecchia, sentendosi male, chiamò a gran voce la nipote che, imbestialita per esser stata disturbata durante il sonno, le strappò i capelli, le graffiò a unghiate la faccia, e infine la riempì di calci e pugni finché non smise di respirare. Nottata di mercoledì 16 aprile a Bari. Giuseppe Di Terlizzi, 40 anni. Di Ruvo di Puglia (Bari), sposato con Lucia e padre di due bambini di 9 e 5 anni, «cristiano convinto», solito organizzare pellegrinaggi verso vari santuari (in programma ne aveva uno a Lourdes), l’altra sera, mentre serviva gli ultimi due clienti nella sua bottega da salumiere, si trovò di fronte quattro balordi incappucciati e armati che gli chiesero di consegnargli l’incasso della giornata. Lui provò a reagire e allora quelli gli spararono un colpo di pistola alla testa, sradicarono il registratore di cassa con dentro 300 euro, e scapparono via. Dopo le 21.30 di venerdì 13 aprile in un negozio in via Piave a Ruvo di Puglia (Bari) Forlì, 18 aprile 2012 - IL VISO — con gli occhiali a cavalcioni sul naso —, lievemente piegato verso l’orizzonte, è fisso tra il rintocco del fiume e la spessa vegetazione di quel luogo, ignotamente noto (appartato, ma non distante dal parco urbano, vicino ai percorsi degli appassionati della corsa). Posto umido fino alle midolla, fangoso fino alle ginocchia. Silvia Pedroni, 38 anni, da tempo afflitta da una forte forma di depressione (che curava con un protocollo di psicofarmaci), svanita da casa il giorno di Pasqua, è lì. Con addosso la felpa rossa e i pantaloni neri; gli stessi che aveva quando è sparita, dicendo ai genitori: «Vado a correre». È morta. Forse — quasi sicuramente — suicida. E forse Silvia è lì da giorni (qualcuno ipotizza, dal giorno stesso della sua scomparsa). Sarà l’autopsia — che probabilmente si farà già oggi — a chiarire i tempi del decesso. IL CORPO è Vecchiazzano, a una decina di metri dal letto del fiume Montone (ma non s’è mai buttata in acqua, dicono gli inquirenti), a 300 metri dall’ospedale, a 200 dal ponte di via Del Guado. Al suo fianco, una bottiglia di whisky. Dall’altra parte del corpo — intatto sotto sopra una stuoia di terra mai indagata in questi 12 giorni di ricerche — svetta una scatola di barbiturici. Il muscuglio — questa l’ipotesi più accreditata — le è stato fatale. Psicofarmaci e alcol, ingurgitati in quel luogo oscuro, sdraiata supina sull’erba. Psicofarmaci e alcol, una delle vie più brevi per spingersi sulla sponda della morte. Sul posto — oltre a vigili urbani e pompieri — anche la polizia: gli investigatori escludono segni di violenza che possano far pensare a una morte violenta. Il suicidio è l’ipotesi più praticata. L’HANNO trovata — Silvia — gli uomini del Soccorso alpino della stazione appenninica di Montefalco. La prima telefonata è delle 15.48 di ieri. Un team di quattro persone sta setacciando la riva ovest (lato Vecchiazzano) del fiume. Altri quattro sono dall’altra parte; in un altro punto, altri due volontari perlustrano quell’infossatura di mondo con un cane. È la prima pattuglia a dare l’allerta. Quella nel rivale ovest. «È lei, è Silvia, purtroppo, l’abbiamo immediata«mente riconosciuta» dice Pier Luigi Nobili, uno dei dieci volontari che al primo colpo hanno messo fine a questo calvario. Sì, un calvario: perché famigliari, parenti, amici e forze dell’ordine — con il coordinamento di prefettura e carabinieri della Compagnia di Forlì — cercavano Silvia fin dalle prime ore della sua sparizione. Ogni giorno decine di professionisti in divisa e volontari hanno ispezionato, battuto centinaia di angoli della città. Vie del centro, strade di periferia. Aree deserte, sotto i ponti, in aperta campagna. Quello di ieri — accessibile da via Forlanini, alla minirotonda del ‘Morgagni-Pierantoni’, prima della strada che conduce al pronto soccorso, oltre una sbarra, di fianco a una casa colonica — non era mai stato osservato. Ieri — chiamati dai carabinieri — sono scesi dalla Val Bidente gli uomini del Soccorso alpino, capitanati da Salvatore Valente. Dieci uomini con unità cinofila. Che al primo colpo, dopo appena mezzora di ricerche, hanno rinvenuto il cadavere di Silvia. Supino, a pochi metri dal fiume. «È finita così, stavolta usciamo sconfitti, ma abbiamo fatto tutto il possibile. Nessuno di noi può rimproverarsi nulla. Sono notti intere che non dormo...» ammette un militare. SILVIA ha finito così la sua corsa. Stando ai primi riscontri del medico legale, la donna sarebbe lì da giorni. Forse non proprio dal giorno di Pasqua. Quello della fuga dalla casa dei genitori, in Fratelli Basini. Forse l’unica segnalazione reale è quella del fruttivendolo di viale Risorgimento. Che l’ha descritta con dovizia di particolari senza sapere da giornali, tivù o internet com’era vestita. Segnalazioni arrivata due giorni dopo la scomparsa. Era il 10 aprile. Forse Silvia quella sera stessa ha deciso di farla finita. O forse l’aveva pianificato prima. Prima ancora di scappare, cliccando su internet le voci «alcol e psicofarmaci». Ipotesi che non cambiano il quadro. QUADRO che si chiude quando la bara viene portata via, all’obitorio (dopo che il magistrato ha concesso l’ok), prima che il tramonto cavi per sempre luce, sostanza e speranza a quest’ultimo giorno di ricerche. Il giorno più triste. Iniziato gli ennesimi avvistamenti di Silvia, a Forlì e Bologna. Persone certe, certissime di averla vista, quella ragazza con gli occhiali; ragazza triste, ma col viso graziosamente intagliato in una specie di sorriso. di Maurizio Burnacci