Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 17 Martedì calendario

CHIESA E DIRITTI UMANI. UNA LUNGA DIFFIDENZA - È

un dato acquisito che la Chiesa di oggi presenti il rispetto dei diritti umani come una — tra le più importanti — delle linee guida della presenza cattolica nel mondo. E che faccia risalire questo suo impegno non soltanto all’enciclica Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII, con l’esplicito apprezzamento per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel dicembre 1948, ma addirittura alla presa di posizione di Papa Innocenzo III a favore della Magna Charta Libertatum (1215). Però tra l’apprezzamento pontificio per il documento con cui, otto secoli fa, il re inglese Giovanni Senza Terra definì i limiti al potere monarchico e l’enciclica di papa Roncalli è accaduto qualcosa che rende meno lineare questo lungo tragitto. E che merita di essere approfondito.
Due secoli fa si sono addirittura aperte delle voragini lungo questo itinerario, a seguito della Rivoluzione americana e, soprattutto, di quella francese. All’atto della costituzione degli Stati Uniti sembrò per qualche anno che i problemi avrebbero potuto essere evitati. Nella Dichiarazione di indipendenza americana del 4 luglio 1776 — così come nelle carte costituzionali di tre dei tredici Stati che si federarono per dare vita agli Usa (Virginia, Pennsylvania, Maryland) — figurava un esplicito richiamo ai fondamentali diritti naturali dell’uomo, inalienabili e imprescrittibili. Tra i firmatari di quella Dichiarazione c’era il cattolico Charles Carroll (futuro senatore). Suo cugino, John Carroll — ordinario di Baltimora, primo vescovo americano e, in quanto tale, il più alto rappresentante della Chiesa in quelle terre — espresse pubblica lode nei confronti della Dichiarazione americana, nonché di quel che essa conteneva in materia di diritti dell’uomo, mettendo in risalto il fatto che in essa fosse esplicito il richiamo a Dio, quale padre dei diritti stessi. Daniele Menozzi nel libro Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, che esce il 10 maggio dal Mulino (pp. 280, € 22), nota come Carroll, nei suoi sermoni, dicesse anche qualcosa di più: «Pur non prendendo esplicita posizione sul separatismo del nuovo Stato», il vescovo asseriva che «nella specifica situazione nordamericana, segnata dal pluralismo delle denominazioni cristiane, si può stabilire tra di esse un patto civico allo scopo di garantire la pace sociale». In questo modo tutte le confessioni, riconoscendone l’origine divina, accettavano «gli istituti giuridici necessari a un’ordinata e armoniosa organizzazione del consorzio civile».
La gerarchia cattolica in terra d’America fece dunque suoi — con infinite implicazioni — i diritti sanciti nella Dichiarazione d’indipendenza. Anche se va specificato che, se si fosse opposta, avrebbe messo a repentaglio — per le genti da essa rappresentate, vale a dire una minoranza — i vantaggi di cittadinanza assicurati da quel testo. Ma l’adesione della Chiesa ai principi contenuti nella Dichiarazione non appare, neanche a leggere tra le righe di ciò che fu detto e scritto da parte cattolica, ispirata in alcun modo da «criteri di prudenza».
Il Pontefice Pio VI (il cesenate Giovanni Angelo Braschi) non si pronunciò sulla benedizione data da Carroll alla Dichiarazione d’indipendenza americana e conseguentemente avallò l’approvazione di quel che essa conteneva in materia di diritti umani. Papa Pio VI, all’epoca dei pronunciamenti del vescovo Carroll, era asceso al soglio pontificio da poco più di un anno e già intravedeva problemi ben più urgenti con i quali si sarebbe dovuto cimentare nel decennio che avrebbe preceduto la Rivoluzione francese. Problemi che gli venivano da Paesi cattolici: il Granducato di Toscana, in cui Leopoldo I (appoggiato dal vescovo di Pistoia Scipione Ricci, nipote dell’ultimo generale dei gesuiti) voleva imporre una radicale riforma religiosa; l’Austria di Giuseppe II che, a seguito dell’editto di tolleranza del 1781, si era spinta fin quasi alla rottura con la Chiesa di Roma. Poi fu la volta della Francia. E della Rivoluzione.
All’inizio, secondo Menozzi, non era scontato che i rapporti tra la Chiesa e la Francia rivoluzionaria evolvessero in modi così tragici. Anche se l’urto tra Chiesa e Rivoluzione fu violento sin dalle prime settimane: la Dichiarazione votata dall’Assemblea nazionale costituente nell’agosto del 1789, che sarebbe stata approvata in ottobre dallo stesso Luigi XVI, pur essendo, per quel che riguarda i diritti dell’uomo, simile a quella americana di 13 anni prima, toglieva di fatto alla Chiesa privilegi di cui essa aveva a lungo goduto. Cosicché, in un Paese a stragrande maggioranza cattolica, scrive Menozzi, sgretolava «il nesso tra appartenenza politica e appartenenza religiosa». Nella Dichiarazione francese, prosegue lo studioso, l’assetto sociale basato sui diritti umani appariva «il frutto di un atto di autodeterminazione di individui che si sottraggono alla sottomissione verso norme fissate per regolamentare la vita associata dal cristianesimo e in particolare dalla loro interpretazione a opera dell’istituzione ecclesiastica, unica detentrice delle leggi iscritte da Dio nella natura». Ma il mondo cattolico non fu unanime nel giudicarla, anzi, proprio sui diritti umani, si ebbe subito una divaricazione all’interno della Chiesa. O, per meglio dire, uno scontro, per giunta uno scontro tra fratelli. L’arcivescovo di Bordeaux, Jerome Champion de Cicé, si schierò dalla parte della Rivoluzione e aderì immediatamente al progetto di dichiarazione, affermando che con quella carta si stava definendo quel «che avrebbe rappresentato un modello per l’Europa intera e la posterità». Talché, a suo avviso, occorreva fornire alle popolazioni uno strumento con cui misurare la conformità delle leggi a quelle «verità prime» le quali «vengono dalla natura che le ha deposte in tutti i cuori e che le ha rese inseparabili dall’essenza e dal carattere dell’uomo». Suo fratello, il vescovo di Auxerre Jean-Baptiste de Cicé, disse invece che era assurdo porre in quei termini la questione dei diritti umani e che «l’esperienza nordamericana non poteva costituire un modello perché in quel giovane Paese le fortune erano distribuite in maniera livellata», cosicché sarebbe stato molto «pericoloso per l’ordine sociale inculcare l’esistenza di diritti a una popolazione incolta e sofferente per le diseguaglianze economiche», prima che si fosse provvisto a diminuire gli squilibri. Provò a individuare una terza via tra le due posizioni un parroco rivoluzionario, Henri-Baptiste Grégoire, che propose di far seguire la Dichiarazione dei diritti da una proclamazione dei rispettivi doveri. Il canonista Armand-Gaston Camus presentò una mozione in tal senso, ma l’Assemblea la respinse per 570 voti contro 433. Quei 433 suffragi configuravano sì una minoranza, ma erano la prova di un ampio spazio di manovra ancora esistente all’interno dell’assemblea rivoluzionaria. L’abate Jean-François-Ange d’Eymar de Walchrétien iniziò allora una battaglia, non isolata, per ottenere che il cattolicesimo fosse proclamato religione di Stato pure in un contesto di «tolleranza» nei confronti degli altri culti. Fu sconfitto. Ma quando, nel luglio del 1790, fu votata la costituzione civile del clero, i cattolici si divisero ancora in «costituzionali» (coloro che ritenevano esserci ancora margini per «trattare») e «refrattari» (che negavano l’esistenza di ulteriori margini per giungere a un compromesso).
Nel frattempo, a Roma, Pio VI, pur esprimendo nell’allocuzione del 29 marzo 1790 la sua perplessità su alcuni passaggi della Rivoluzione, si muoveva ancora con grande circospezione. La condanna divenne esplicita nel «breve» apostolico Quod aliquantum del 10 marzo 1791. Pio VI diceva in quell’occasione che «ritenere tutti gli uomini uguali e liberi» costituiva un atto contrario non solo alla ragione, ma anche alla dottrina cattolica. Secondo il Papa, «l’uguaglianza e la libertà votate da codesta Assemblea mirano a rovesciare la religione cattolica» dal momento che, impedendo al cattolicesimo di assumere la qualifica di religione «dominante», toglievano alla Chiesa il diritto di pretendere che lo Stato costringesse «a professare l’obbedienza cattolica quelli che col sacramento del battesimo da loro ricevuto si sono alla Chiesa medesima di per sé assoggettati».
Poi ci fu un secondo «breve» del Pontefice (aprile 1791), nel quale Luigi Fiorani e Domenico Rocciolo in Chiesa romana e rivoluzione francese (edito dall’École Française de Rome) hanno individuato il punto di non ritorno nei rapporti tra Roma e Parigi. Tuttavia nel mondo cattolico si muoveva ancora la corrente dei «possibilisti», i quali suggerivano di tenere una porta socchiusa alla Rivoluzione: Nicola Spedalieri, teologo siciliano che aveva pubblicato un De’ diritti dell’uomo, l’ex gesuita Gian Vincenzo Bolgeni (figura a lungo studiata da Renzo De Felice), il cardinale Stefano Borgia ne erano gli alfieri. Il «possibilismo», in quel frangente, non riuscì a imporsi. E però il dibattito che si sviluppò sul libro di Spedalieri (furono dati alle stampe ben venticinque titoli che si occupavano di quel testo) sortì l’effetto di gettare un fascio di luce proprio sui diritti dell’uomo. Il seme era gettato. Furono gli eventi a impedire che germogliasse come avrebbe potuto.
Nel 1789 il clero francese si era schierato in massa dalla parte della Rivoluzione. Ma nonostante ciò, pochi mesi dopo, i rapporti tra Chiesa e Rivoluzione si tesero all’inverosimile. Nel febbraio 1790 la Rivoluzione impose la secolarizzazione degli ordini non caritativi; in luglio la costituzione civile del clero. In settembre pretese dal clero un giuramento di fedeltà alla nuova Costituzione rivoluzionaria. La rottura con la Chiesa di Roma fu a questo punto inevitabile: avvenne — come si è detto — una prima volta nell’aprile del 1791 e fu poi definitiva nel maggio dell’anno successivo. Nell’agosto del 1792, in Francia, gli ecclesiastici che avevano rifiutato il giuramento vennero condannati alla deportazione e in settembre vennero uccisi trecento sacerdoti. Più di trentamila preti furono costretti a fuggire all’estero. In settembre la Francia rivoluzionaria occupò i territori pontifici di Avignone e del Contado Venassino. Nel 1793 fu ufficialmente soppresso il cristianesimo e instaurato il «culto della dea Ragione». In marzo si ribellò la Vandea e all’inizio del 1794 la rivolta fu stroncata nel sangue. Poco dopo fu la fine del Terrore. Ma non ebbero termine i guai di Pio VI.
Nel 1796 Napoleone attaccò lo Stato pontificio e costrinse il Papa all’umiliante armistizio di Bologna. A cui seguì l’ancor più tragico (per la Chiesa) trattato di Tolentino. Nel febbraio 1798 il Direttorio fece occupare Roma: fu deposto il Pontefice, fu abolita la sua sovranità temporale e proclamata la Repubblica. Pio VI riparò a Siena, poi nella certosa di San Casciano; successivamente fu deportato a Torino e infine nella fortezza di Valence, prigione in cui morì il 29 agosto del 1799. In quel momento sembrò che per la Chiesa fosse tutto finito e da più parti si parlò di Pio VI come «ultimo Papa». Il conclave per l’elezione del suo successore si tenne a Venezia, sull’isola di San Giorgio, sotto la protezione dell’imperatore austriaco Francesco II. Durò oltre tre mesi, dal 1° dicembre 1799 al 14 marzo del 1800, quando la maggioranza dei voti cardinalizi confluì su Luigi Barnaba Chiaramonti, che prese il nome di Pio VII. Il nuovo Pontefice, rientrato a Roma, provò a convivere con Napoleone e per un po’ sembrò che ci riuscisse; poi, però, le relazioni tra Francia e Chiesa degenerarono nuovamente e, nel 1808, l’imperatore francese ordinò l’occupazione della città eterna per proclamarne in seguito l’annessione all’impero (1809). Successivamente Pio VII fu deportato a Fontainebleau e costretto a firmare un concordato capestro. Per sua fortuna nell’ottobre del 1813 Napoleone fu sconfitto a Lipsia, cosicché Pio VII poté rientrare a Roma. Poi, dopo la definitiva uscita di scena del Bonaparte (1815), la Chiesa riprese il suo corso. E la memoria della Rivoluzione restò come il ricordo di un incubo.
Fu il filosofo Hugues-Félicité-Robert de Lamennais che, dalle colonne di «Avenir», ripropose, negli anni Trenta, le tesi del cattolicesimo liberale, ricevendo pronta condanna dal nuovo papa Gregorio XVI. Lamennais tenne il punto con il libro Parole di un credente ed ebbe un vasto seguito tra i cattolici belgi. La Chiesa, in un certo senso, si adeguò al nuovo. «Era evidente», scrive Menozzi, «che il papato aveva ribadito la condanna per un’organizzazione della società imperniata sul riconoscimento dei diritti dell’uomo; ma, costretto a fare i conti con la concreta realtà politica, continuava a non allinearsi pienamente alla prospettiva di chi chiedeva che sempre e dovunque la Chiesa a quell’assetto civile si opponesse in nome dei diritti di Dio».
Di fatto l’autorità ecclesiastica tollerava regimi che si richiamavano all’eredità dell’Ottantanove. Si trattava di uno spiraglio del quale presto approfittarono alcuni importanti settori del mondo cattolico. Ne costituiscono riprova alcune pagine di grande attenzione alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo contenute nella Filosofia del diritto (1843) di Antonio Rosmini. L’elezione (1846) di Pio IX, Giovanni Maria Mastai Ferretti, sembrò, sulle prime, assicurare «una consonanza romana» a queste posizioni. Nel novembre 1847 il mito di un Pio IX «riformatore, liberale e democratico» — con varie sfumature ampiamente diffuso in tutta Europa — raggiungeva anche gli Stati Uniti: al Broadway Tabernacle di New York fu organizzata, «senza distinzione di confessione religiosa e di partito», una manifestazione in onore di papa Mastai presieduta dal sindaco della città, William Brady. In tale occasione non solo si inneggiò al nuovo Pontefice, «che promuoveva libertà costituzionali, facendosi alfiere della libertà in tutto il vecchio continente», ma si giunse addirittura a definirlo «coraggioso sostenitore dei diritti dell’uomo».
La stagione di Pio VI, Pio VII e Gregorio XVI sembrava ormai lontana, adesso si annunciava un’era liberale. Ma durò poco. La rottura del 1848 tra Carlo Alberto e papa Mastai Ferretti (che si sottrasse dalla guerra all’Austria) nonché la Repubblica romana del 1849 riportarono la Chiesa alle pulsioni di cinquant’anni prima. Nell’enciclica Nostis et nobiscum, pubblicata dall’esilio di Portici nel dicembre 1849, Pio IX, «fornendo una lettura della situazione contemporanea che si richiamava alla genealogia degli errori moderni, denunciava quegli assetti costituzionali che erano scaturiti dai sommovimenti quarantotteschi come antitetici ad una organizzazione della società rispettosa dei diritti prospettati dalla Chiesa per la vita collettiva». E, nell’allocuzione tenuta al concistoro segreto del 18 marzo 1861, all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, il Pontefice definì l’incompatibilità del cattolicesimo «con una civiltà moderna», che presentava come «la causa dei mali che funestavano il presente». Condannò altresì «la proclamazione di diritti antitetici a quelli della Chiesa che ogni regime doveva garantire all’interno del suo ordinamento: l’introduzione della libertà di religione, di stampa, di manifestazione del pensiero e l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, indipendentemente dal culto, nell’accesso ai pubblici impieghi e alle scuole». Insomma, proprio perché essa riproponeva il modello elaborato dalla Rivoluzione francese, il Papa proclamava l’impossibilità di «acconciarsi con l’odierna civiltà per la cui opera mali sì grandi e non mai deplorati abbastanza succedono».
In quello stesso 1861 viene pubblicato Les principes de 89 et la doctrine catholique, di Léon Godard, professore di storia ecclesiastica e archeologia cristiana al seminario di Langres, nel quale si suggeriva alla Chiesa una riconciliazione, appunto, con i principi dell’Ottantanove. L’anno successivo, il testo di Godard veniva messo all’Indice. Ma nel 1863 ne veniva pubblicata un’edizione «rivista» che riceveva un’attenzione (rispettosa ancorché critica) da parte della «Civiltà Cattolica». Pio IX, però, nell’allocuzione Maxima quidem (9 giugno 1862) si era pronunciato in maniera definitiva contro i «falsi diritti degli uomini», contrapponendoli al «vero e legittimo diritto», l’unico riconosciuto dalla Chiesa di Roma. E il «Sillabo» avrebbe suggellato questa impostazione.
Dopo la scomparsa di Pio IX (1878), in Francia Henri Louis Charles Maret diede alle stampe nel 1884 un libro, La verité catholique et la paix religieuse, dedicato al nuovo Pontefice, Leone XIII, in cui riprendeva le tesi di Godard. L’enciclica Immortale Dei (1885) condannava ancora una volta il desiderio riconducibile alla Rivoluzione francese di «abbandonare la religione alla coscienza degli individui, dar piena libertà a ognuno di seguire quella che più gli talenta, e anche nessuna, se così gli piace». Ma poi, trascorsi sei anni, una nuova enciclica dello stesso Pontefice, la Rerum novarum (1891), definendo «stretto dovere» dello Stato «prendersi la dovuta cura del benessere degli operai», apriva ai diritti qualche spiraglio. Il Vangelo veniva presentato come il più compiuto codice dei diritti e, scrive Daniele Menozzi, «questa impostazione avviava, sia pure sul circoscritto terreno economico e sociale, una prima possibilità di dialogo del cattolicesimo con la modernità».
Un salto nell’elaborazione cattolica su questi temi è rappresentato dalla nascita a Parigi, nel 1899, del Comité catholique pour la défense du droit, su iniziativa dell’intellettuale Paul Violler, nella battaglia a difesa di Alfred Dreyfus; e dalla pubblicazione de La Déclaration des droits de l’homme et la doctrine catholique dell’ecclesiastico Joseph Brugerette, anch’egli per la campagna a favore del capitano ebreo ingiustamente accusato e, più in generale, contro l’antisemitismo. Un secondo salto è individuabile nel pontificato di Benedetto XV, più precisamente nella lettera del suo segretario di Stato, il cardinale Pietro Gasparri, inviata nell’aprile del 1916 al Comitato esecutivo dell’American Jewish Committee, che aveva pregato il Pontefice di intervenire a favore degli ebrei sottoposti a vessazioni e persecuzioni, soprattutto nei territori dove operavano le truppe russe. La lettera diceva apertamente che il Vaticano non avrebbe mai cessato «di inculcare l’osservanza, tra individui come tra popoli, dei principii del diritto naturale e di riprovare tutto quello che viene a violarli». E uno studio di Raffaella Perin ha sottolineato come nell’originale, prima dell’intervento del Sant’Uffizio, la dizione fosse, anziché «diritto naturale», «diritto comune».
Dai tempi del caso Dreyfus la battaglia per il riconoscimento dei diritti dell’uomo si intreccia con quella per liberare la Chiesa dalle scorie antisemite. Il libro di Hubert Wolf, Il Papa e il diavolo. Il Vaticano e il Terzo Reich (Donzelli), ha portato alla ribalta il lavoro fatto in tal senso dall’Opera sacerdotale degli Amici di Israele, nata nel 1926, che due anni dopo poteva contare tra i suoi aderenti 19 cardinali, 287 tra arcivescovi e vescovi e circa tremila preti. Il Sant’Uffizio impose lo scioglimento dell’associazione e la ritrattazione del consultore, Ildefonso Schuster. Ma Pio XI volle che nel decreto che ordinava di sciogliere l’Opera fosse espressa «sia una condanna dell’antisemitismo come forma di odio e di ingiuste vessazioni verso gli ebrei, sia l’affermazione di una costante carità esercitata dalla Chiesa verso di essi».
Hubert Wolf ha poi analizzato con attenzione le tre celebri prediche contro il nazismo del vescovo Clemens August von Galen dell’estate 1941, notando come in esse si passasse dalla difesa degli interessi della Chiesa alla difesa dei diritti umani tout court e suggerendo una piena condivisione di questo orientamento da parte di papa Pacelli, Pio XII. E Daniele Menozzi, sulla scia del libro di Wolf e di un altro importante volume di Lucia Ceci, Il Papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia (Laterza), dimostra come quel riconoscimento quasi ufficiale dei diritti universali imprescrittibili e inalienabili, che si sarebbe realizzato con la Pacem in terris di cui si è detto all’inizio, «aveva già preso corpo nel corso dei pontificati di Pio XI e Pio XII». Sì, anche Pio XII, nei cui radiomessaggi dei primi anni Quaranta (in particolare quello prenatalizio del 1942), pur senza cedere alla visione liberaldemocratica dei diritti umani, il Papa parlava con sempre maggior apertura mentale dei diritti stessi.
Jacques Maritain farà compiere ai diritti l’ingresso definitivo in campo cattolico pubblicando dapprima Question de coscience (1937), poi parlandone in modi sempre più espliciti nella lettera al generale de Gaulle del 21 novembre 1941 e nei discorsi radiofonici trasmessi dal suo esilio americano a partire dal 1942. Comunque, al momento di varare la Carta dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite nel 1948 (esaltata da Maritain), fu respinta la mozione del delegato brasiliano Tristao de Athayde che chiedeva fosse inserito nella Carta un esplicito riferimento a Dio, da cui l’uomo aveva ricevuto in dono i diritti. Come reazione a questo diniego, il giudizio di Pio XII sulla Carta dell’Onu era stato negativo. Ed era partita sulla rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», una violenta campagna di padre Antonio Messineo contro Maritain. Ma un altro gesuita, John Courtney Murray, negli Stati Uniti cominciò a battersi a favore della compatibilità tra dottrina cattolica e diritto alla libertà religiosa. Nonostante ciò, il progetto di una carta cattolica dei diritti umani, «inciampando sulle divaricazioni interne al mondo cattolico» (scrive Menozzi), non andò in porto. E per anni fu ancora ostilità tra la Chiesa di Roma e i diritti umani come erano stati definiti dall’Onu. Finché venne la «svolta di Roncalli», la cui complessa gestazione è stata ben illustrata da Alberto Melloni in Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni (Laterza). Complessa gestazione per cui lo storico parla di «debolezza, insufficienza e inadeguatezza» della svolta stessa.
In seguito Paolo VI, scrive Menozzi, riuscì a non smarrire il senso profondo dell’apertura giovannea, anzi le diede spessore e ne è riprova il suo ultimo discorso del gennaio 1978, interamente dedicato ai diritti umani. Così fu anche da parte di Karol Wojtyla. Talché, nel quarantesimo anniversario della Dichiarazione universale del 1948, Giovanni Paolo II si spinse a definire la Carta dell’Onu «una pietra miliare posta sulla strada lunga e difficile del genere umano». Anche se, osserva Menozzi, lo stesso Wojtyla proponeva poi «nettamente» la tesi che «solo in parte» un ordinamento basato sui diritti umani «corrispondeva a quanto la Chiesa richiedeva come indispensabile assetto del consorzio civile». Ma, aggiunge l’autore, sarebbe sbagliato «considerare la posizione di Giovanni Paolo II sui diritti umani nei termini di una mera concessione retorica alla società moderna, compiuta con l’obiettivo reale di collocare il cattolicesimo sul terreno della modernità al fine di cercare di sovvertirne i fondamenti». Semmai sarà l’attuale stagione, quella di Benedetto XVI, che produrrà «un irrigidimento» segnato da «un invasivo ritorno della Chiesa alla legge naturale a danno dei diritti umani». Ritorno dietro il quale si intravedono tutte le «carenze di un ambiguo aggiornamento ecclesiale». Segno che non è mai stata del tutto superata «l’eredità della tradizione intransigente». E che «la pur reale volontà di apertura della Chiesa al mondo moderno e all’uomo contemporaneo non si è compiutamente tradotta in un appoggio agli strumenti che un lungo e tormentato percorso storico aveva prodotto per regolare la convivenza civile». La definitiva riconciliazione tra Chiesa e diritti umani, secondo questo libro, deve ancora venire.
Paolo Mieli