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 2012  aprile 14 Sabato calendario

"Io, la mia pensione e la slot machine vince sempre lei, non riesco a smettere" - TORINO - Pollice, pollice, pollice, pollice

"Io, la mia pensione e la slot machine vince sempre lei, non riesco a smettere" - TORINO - Pollice, pollice, pollice, pollice. Moneta. Pollice, pollice. Moneta. Il dito del vecchio giocatore trema sul tasto rosso della slot-machine, come scosso da uno spasmo e in fondo è proprio così, questa è una malattia e questo è un uomo che soffre. Il giocatore ipnotizzato resta immobile, solo il suo pollice si agita a scatti regolari, finché con l’indice non stringe un altro euro rotondo e scintillante, lo infila nella fessura, lo ascolta cadere. Poi ricomincia. Antonio P., 68 anni, avrà in tasca mezza pensione: in tutto, 980 euro al mese. «Vengo qui ogni giorno, a parte il sabato e la domenica. Il gioco è divertente però è brutto, io e mia moglie avevamo un alloggetto al mare, poi lei è morta e la casa l’ho venduta, adesso sto in affitto in Borgo Vanchiglia». Dice venduta e non giocata, ma forse è la stessa cosa. «Tolgo dal mensile i soldi delle bollettee dell’affitto, 500 euro, qualcosa per mangiare ma poco, e il resto me lo gioco, insieme ai risparmi di una vita. Facevo l’operaio alla Michelin, si fabbricavano le gomme. Ma a quei tempi giocavo al massimo la schedina, duemila lire il sabato, non come questa merda qui». Insieme a lui, altri due milioni di italiani sono a rischio, ammalati di azzardo senza sapere come guarire. La Montecarlo di barriera si chiama bar "Tropical Paradise", è un casinò dei poveri dietro il cimitero monumentale, esistono angoli più allegri di mondo. I gestori sono cinesi, i clienti di tutto un po’. La batteria delle macchinette mangiasoldi- 400 mila come queste, in tutta Italia - è accostata al muro della saletta fumatori, "massimo sette persone" c’è scritto sul cartello. Dentro la stanza il fumo, oltre i vetri la pioggia, nello schermo illuminatoi geroglifici di una slot che si chiama "Sphinx", Sfinge. «Le macchinette le ho scoperte da cinque o sei anni, prima andavo alla bocciofila ma poi l’hanno chiusa. Si risparmiava, però». Antonio ha appena cambiato una banconota da cento, ha messo le monete nel secchiello di plastica e ora è pietrificato davanti alla Sfinge, mostro a guardia di un tesoro non da difendere ma da depredare. Poi parte la cascata di monete. Si vince quando si allineano tre simboli identici, in orizzontale ma anche in diagonale. Ogni partita un euro, massima vincita possibile cento euro, così sta scritto sulla macchinetta. Pollice, pollice,e la giostra va. Vorticano piramidi, maschere di Tutankhamon, scarabei, Nefertiti. Un euro dura al massimo venti secondi, nei quali il mondo scompare. Una musica elettronica da videogioco, ritmica e stordente, è la colonna sonora del pollice incontrollabile. «Vince sempre lei, ma qualche volta vinco io». Antonio afferra un’altra moneta con le sue mani robuste e macchiate, la sposta dal secchiello alla fessura. Tentiamo un’analisi statistica: ogni venti colpi a vuoto, un tris vincente. Ma in meno di venti minuti il centone è bruciato. L’uomo va a cambiarne un altro, scherza con la barista ma ha una smorfia sforzata sul viso, come di una sofferenza che abita lì da tanto tempo, poi riparte il viaggio nella Valle dei Re. Pollice, pollice, pollice, il tasto rosso sembra una brace incandescente, più si perde e più ci si accanisce, verrà pure il colpo buono che riscatta tutti gli altri, il giorno, l’ora, l’istante allineato ad altri due gemelli. E ogni tanto in effetti succede: quando Antonio vince, tintinnano le monete nel cassetto della slot: gli occhi del vecchio si accendono di voluttà nuova, la più avvelenata, quella che lo forzerà a infilare altre monete in quella fessura che invece è un pozzo. Perdere serve a rincorrere la disperata vittoria, e la disperata vittoria crea l’illusione di riprodurre se stessa, portando quindi alla sconfitta da cui tutto cominciò. «Ho cominciato perché mi sentivo solo, i primi mesi da vedovo sono stati terribili. Gli altri, non tanto meglio». Quelli che guardano si sono stufati. Pagano ed escono nella pioggia. Entra una ragazza con l’aranciata, sosta un momento come sul bordo di un brutto sogno, poi fugge facendo cigolare la porta. Nel bar dei cinesi siamo rimasti in due, anche se nessuno è più solo dell’uomo di fronte alla Sfinge. Antonio non è felice, nemmeno eccitato, solo assente: pare ci si droghi per questo, per essere altrove. Ma ora non esiste quel luogo. Il giocatore ha polverizzato nel frattempo altri cento euro. Estrae dalla tasca due pezzi da venti e li infila nella macchina cambiamonete, "riservata solo ai giocatori": qui non mancano i cartelli, è tutto un tazebao il muro arancione dove si legge "vietato buttare mozziconi a terra", "si ricorda che il gioco è vietato ai minori di anni 18""le slot-machine chiudono alle ore 20". «Gioco fino a stasera, poi mi riposo fino a lunedì. Oggi è andata male: mi rimangono due euro e mezzo per il toast». Glielo scalda la cinese. «Il vino me lo bevo a casa». Sono appena le due del pomeriggio ma nella saletta è già quasi buio, sarà il fumo delle sigarette, sarà la luce funerea di questo giorno pieno di pioggia. Fa anche freddo. Il giocatore indossa un gilet imbottito, però è improbabile che senta brividi o sudori, non adesso, adesso c’è solo il terzo volto di Tutankhamon che proprio non ne vuol sapere di allinearsi agli altri due. Chi ne violò la tomba fu maledetto in eterno. Forse l’incantesimo dura ancora.