Giampaolo Visetti, Affari e finanza 16/4/2012, 16 aprile 2012
BANCHE AI CINESI LO SPORTELLO NON PIACE PIU
Monta anche in Cina la rabbia popolare contro il potere assoluto delle banche. Anche se una crisi appare lontana, la tendenza suscita allarme. L’ostilità dell’opinione pubblica, più ancora di quella del sistema economico, si profila come la causa possibile della rovina del modello del credito cinese. Il segnale è chiaro: i risparmiatori cominciano a depositare il loro denaro al di fuori dei conti bancari, ricorrendo ad una crescente gamma di nuovi prodotti di gestione patrimoniale. In ascesa appaiono anche gli illegali «depositi grigi» presso privati, che garantiscono interessi maggiori degli istituti ufficiali. A scuotere la popolazione, ma pure il governo, sono i profitti esplosivi delle banche, la loro capacità di condizionare politicamente la distribuzione della ricchezza e di aumentare la disparità tra ricchi e poveri. La scorsa settimana un giornalista cinese è diventato famoso per aver osato chiedere al governatore della banca centrale dove fossero finiti gli impressionanti guadagni delle banche di Stato. La risposta di Zhou Xiaochuan non ha convinto nessuno: «Alcuni gruppi stranieri – ha detto – sembravano aver accumulato patrimoni immensi, invece oggi sono sull’orlo del baratro. I cicli economici stanno diventando imprevedibili e i profitti di oggi servono per reggere le sofferenze di domani». Gli ultimi dati dimostrano però che le banche cinesi continuano a realizzare utili senza precedenti nella storia. «Industrial and Commercial Bank», prima banca del Paese, negli ultimi cinque anni ha registrato una crescita del profitto medio del 35% e nel 2011 ha accumulato un utile netto di 33 miliardi di dollari. Nel 2009, quando la prima crisi finanziaria globale ha toccato il massimo, i profitti del sistema del credito cinese sono cresciuti del 14,6%. Finora il malumore dei risparmiatori è stato arginato dal boom economico interno. La frenata degli ultimi mesi cambia però il quadro, industria e commercio sono in affanno, il credito diventa difficile e i forzieri bancari, da elemento di orgoglio, si trasformano in causa di alta tensione. La critica popolare è rivolta al cuore del sistema, ragione essenziale anche del suo successo: il controllo monopolistico dello Stato, e dunque del partito comunista, sulle banche. Nel 2011 tale guinzaglio governativo ha in realtà salvato il credito interno: l’aumento dei prestiti non performanti, nonostante la crisi, è stato minimo, attorno all’1%. Pechino ha regolato i diritti per raccogliere capitale, coordinato un rientro soft dei crediti problematici, messo a punto un piano per ridurre gli oneri dei rimborsi e supportato gran parte dei debiti, a partire da quelli della amministrazioni locali. Tra mercati nervosi e banche straniere che hanno chiuso il credito, non si può non riconoscere che il sistema cinese, fondato sul controllo di Stato, abbia esibito delle virtù. Quando la diminuzione dei prestiti ha rischiato di far esplodere le tensioni sociali, Pechino ha ordinato alle banche di prestare più soldi e la crisi è rientrata. Il potere politico sul credito serve a coprire le sofferenze immediate, ma non a risolverle. In Cina le perdite restano un mistero e i capitali vengono erogati su larga scala secondo criteri non economici. I mercati cominciano così a chiedersi chi pagherà quando questi nodi verranno al pettine e i rispiarmatori non accettano di essere considerati come i finanziatori indiretti dell’inefficienza di Stato. Le limitazioni ai tassi sui depositi, l’assenza di concorrenza tra banche, l’indirizzo politico dell’economia, aggiungono una tassa occulta che sempre più cinesi non sono più disposti a pagare. Per questo a Pechino suona l’allarme banche: una rivolta appare remota, ma un prelievo finanziario di massa non più.