Sara Bennewitz, Affari e finanza 16/4/2012, 16 aprile 2012
Mediobanca in Borsa a prezzo di "saldo" – Mediobanca in Borsa vale meno della somma delle sue partecipazioni e la metà del valore di libro, come a dire che per gli investitori l’attività bancaria dell’istituto è inesistente
Mediobanca in Borsa a prezzo di "saldo" – Mediobanca in Borsa vale meno della somma delle sue partecipazioni e la metà del valore di libro, come a dire che per gli investitori l’attività bancaria dell’istituto è inesistente. Il mercato sta mandando un segnale a Piazzetta Cuccia, perché nell’attuale contesto economicopolitico, dove tante cose sono cambiate fuori da quel cancello, forse varrebbe la pena di provare a cambiare qualcosa anche all’interno della maggiore banca d’affari italiana.Il titolo di via Filodrammatici è sui minimi storici, tratta al 40 per cento in meno rispetto ai tempi della morte di Enrico Cuccia. Sono passati 12 anni da allora e prima è stata data la colpa a Vincenzo Maranghi, poi al sistema di governance duale, poi a Cesare Geronzi. E, data la persistente debolezza delle azioni che fa a pugni con i discreti risultati ottenuti, forse è arrivato il momento di cambiare il modello più che le persone che guidano la banca. Del resto, quel tipo di istituzione, come era agli albori la Deutsche Bank a cui si ispirò Cuccia, in Germania è stata soppiantata da anni a favore del modello anglosassone. L’unica modifica della governance di Mediobanca in questa direzione è stata quella di una maggior remunerazione dei soci e del management, i cui compensi sono stati legati ai risultati. Fino all’era Maranghi gli azionisti non incassavano grandi dividendi e i vertici dell’istituto percepivano stipendi da dirigente di bottega. Resta però che Renato Pagliaro, Alberto Nagel, Franceso Saverio Vinci, Massimo Di Carlo, Clemente Rebecchini e Maurizio Cereda sono tutti entrati in Mediobanca da ragazzini, crescendo pian piano di livello fino a ricoprire le maggiori cariche all’interno della banca. Mentre fuori il mondo finanziario veniva tempestato dalla bolla Internet, dalla nascita dell’euro, dai subprime e da tanto altro, Mediobanca e i suoi manager si arroccavano in difesa restando impermeabili agli eventi esterni. Ma anche i vari soci esteri che si sono avvicendati nell’azionariato di Mediobanca, progressivamente (per ragioni diverse) sono usciti dal patto senza dare un grande contributo al rinnovamento dell’istituto. E’ il caso di Allianz, Banco Santander, Sal Oppenheim e Commerzbank. Chi tra gli stranieri è rimasto azionista (vale a dire Vincent Bolloré e Groupama), lo ha fatto verosimilmente più per avere un avamposto su Trieste, che per potersi sedere nel salotto buono. Con la crisi, inoltre, alcuni nodi sono venuti al pettine. Fondiaria Sai in primis: l’unico caso in Piazza Affari di un gruppo che ha quasi tutto il debito concentrato verso un solo istituto. Se poi la Mediobanca di oggi può obiettare che quel miliardo di prestiti subordinati sono un’eredità del passato, è anche vero che il nuovo management ha avuto tanto tempo per risolvere la situazione senza esser riuscito (per vari motivi), ad allentare negli anni il legame con i Ligresti. Ed è stato proprio il rischio dei crediti nei confronti della galassia Fonsai, a innescare il progressivo declino delle quotazioni di Mediobanca. Se quel prestito subordinato dovesse trasformarsi in capitale, sarebbero dolori per tutti i soci della banca, non solo per il gruppo assicurativo dei Ligresti. Il potenziale conflitto di interessi è poi riemerso anche in occasione del rinnovamento della governance di RcsMediagroup. Diego Della Valle (che peraltro è uno degli azionisti di Piazzetta Cuccia, ma non aderisce al patto) ha infatti criticato il ruolo che il presidente Renato Pagliaro ha giocato nel riformare il consiglio Rcs, perché Mediobanca è il primo socio del patto del gruppo editoriale che peraltro la lega insieme a molti dei suoi storici azionisti ma non ha titolo per cambiare la governance, un compito che spetta invece al presidente del sindacato Giampiero Pesenti. Molti in Piazzetta Cuccia (e non solo) temono tuttavia che, senza le tante partecipazioni, anche l’attività bancaria potrebbe subire un deperimento. Se l’obiezione può avere un suo fondamento, è anche vero che oggi, nella somma delle parti, il mercato dà zero valore alla divisione merchant. Quindi quel poco o tanto che il gruppo riuscirà a fare senza il supporto delle aziende satelliti, a cominciare da Generali, sarà sempre meglio di niente. Inoltre anche Banca Leonardo ha come soci alcuni degli azionisti (o ex come gli Agnelli) di Mediobanca, ma l’istituto di Gerardo Braggiotti non ha bisogno di essere socio di Fiat o Intalcementi per fare da advisior o allungare la vita del debito dei gruppi che sono nel suo azionariato. Gli analisti ritengono infatti che dividere il gruppo farebbe emergere complessivamente più valore, aumenterebbe contendibilità e trasparenza ed eviterebbe il rischio che si ripetano situazioni incresciose come quella di Fonsai. La parte holding utilizzerebbe i dividendi incassati da Generali per fare nuovi investimenti, o per supportare la crescita di quelli già in essere. La parte merchant e banca di credito utilizzerebbe i proventi che derivano dalle attività per potenziare le nuove iniziative come CheBanca piuttosto che la divisione del credito al consumo. Del resto, gli esperti calcolano che le attività di una delle banche tricolori più solide (il core tier 1 a giugno 2012 è atteso all’11%) che non ha mai chiesto ai suoi azionisti di rafforzare il capitale, valga quasi quanto la sua quota in Generali: 2,3 miliardi (o 2,7 euro per azione) e un terzo di tutto il gruppo. Oltre alla partecipazione in Trieste (che ormai in Borsa è scesa addirittura sotto i valori di carico a 2,25 miliardi), l’istituto possiede pacchetti di aziende quotate (Pirelli, Italmobiliare, Gemina, Rcs) e non (Burgo, Esperia, Santè, TelcoTelecom e Sintonia che controlla Atlantia) che tutte insieme hanno un valore stimato in circa 4,3 miliardi. E così la somma tra la banca e tutti gli asset dà un valore di 6,6 miliardi, il doppio rispetto all’attuale quotazione di mercato. Certo per il fatto di essere un conglomerato Mediobanca merita di pagare uno sconto, ma è anche vero che per il pacchetto di controllo di Generali potrebbe anche ricevere un premio. Con la scissione, probabilmente, si arriverebbe anche a una scrematura dei soci: chi è in Mediobanca per governare su Trieste prenderebbe le distanze dalla merchant, piuttosto che gli industriali, che ritengono che il consiglio di Piazzetta Cuccia resti un’eccellenza e sia il crocevia delle maggiori operazioni italiane, potranno restare al loro posto senza doversi preoccupare del controllo di Generali. I soci bancari poi, come Unicredit, probabilmente sarebbero più interessati alle attività del credito e di advisory. Del resto anni fa Pietro Modiano aveva provato, con scarso successo, a portare avanti lo scorporo degli asset da Piazzetta Cuccia, con l’idea di fare poi una fusione inversa tra le attività di banca d’affari di Piazza Cordusio, dentro quelle di Mediobanca. Gli analisti sono poi convinti che per Trieste tagliare il cordone ombelicale da Mediobanca, potrebbe aiutare il gruppo ad aumentare il suo valore (a tutto beneficio del suo primo azionista), o quanto meno a evitare il coinvolgimento in operazioni come Telco, che non hanno portato del bene né al gruppo, né ai suoi assicurati. A questo proposito, l’attesa riforma di Basilea sui conglomerati finanziari potrebbe fornire il pretesto per dare il via allo scorporo. Resta il fatto che per operare un simile cambiamento ci vorrebbe prima di tutto una coesa volontà dei soci, che vada al di là dei benefici economici che l’operazione potrebbe generare. A questo proposito qualcuno ritiene che un mal di pancia nei confronti della gestione, piuttosto che i timori di una ricapitalizzazione legata a un evento straordinario, come potrebbe essere quello della conversione del debito Fonsai, avrebbero un maggior effetto collante tra gli azionisti di Mediobanca della semplice creazione di valore che si otterrebbe con lo scorporo.