Sergio Zavoli, La notte della Repubblica (Mondadori, 1992), 17 aprile 2012
PIAZZA DELLA LOGGIA, UN ECCIDIO MIRATO IL MISTERO DEL TRENO ITALICUS «QUESTI SONO I BURATTINI, CHI È IL BURATTINAIO?»
Brescia, 28 maggio 1974, piazza della Loggia. E in corso una manifestazione sindacale di protesta contro gli attentati e le provocazioni dei gruppi neofascisti, che si ripetono da mesi. Comincia a piovere, la folla si dirada. Molti si riparano sotto i portici. Sta parlando Franco Castrezzati, sindacalista. Sono le 10 e 12 minuti.
Amici e compagni, lavoratori, studenti, siamo in piazza perché in questi ultimi tempi una serie di attentati di marca fascista ha posto la nostra città all’attenzione preoccupata di tutte le forze antifasciste. Sono così venuti alla luce uomini di primo piano che hanno rapporti con gli attentatori di piazza Fontana e del direttissimo Torino-Roma, vengono pure alla luce bombe, armi, tritolo, esplosivi di ogni genere. Ci troviamo dunque di fronte a trame intessute segretamente da chi ha mezzi e obiettivi precisi. A Milano... [Esplosioni e grida]
State fermi... state calmi, state calmi! State all’interno della piazza! Il servizio d’ordine faccia cordone attorno alla piazza; state all’interno della piazza! Invitiamo tutti a portarsi sotto il palco! Venite sotto il palco! State calmi! Lasciate posto alla Croce Bianca, lasciate il passo! Lasciate il passaggio alle macchine! Lasciate il passaggio alle macchine! Tutti in piazza della Vittoria! Tutti in piazza della Vittoria!
Una bomba è scoppiata sotto l’arcata della Torre dell’Orologio. Era nascosta in un cestino dei rifiuti: 8 i morti (5 insegnanti, due operai e un pensionato), 94 i feriti.
Intervista a Franco Castrezzati
Franco Castrezzati, dirigente della Cisl. Quel giorno era stato designato a tenere il comizio. Che cosa ricorda di quella mattina? Pioveva, se non sbaglio...
Sì, pioveva parecchio e questo aveva impedito che ci fosse una grossa partecipazione. Per non lasciare le persone in situazione di disagio, avevamo deciso anche di cominciare puntualmente alle dieci...
Lei cominciò a parlare: con quale stato d’animo?
In uno stato d’animo che rifletteva quello stesso della città, una città che subiva da mesi attentati, anche se limitati alle cose. Quel giorno fu la prima volta che l’attentato colpì tragicamente la gente…
Che cosa vide dal palco?
Ricordo di aver visto, prima di tutto, una specie di nube e, subito dopo, l’esplosione: e contemporaneamente ho visto volare striscioni, bandiere, e ho capito, ho capito subito, che c’era stata qualche cosa di molto grave. Dal palco ho visto la piazza ribollire di rabbia, di ansia, di dolore, di paura, certamente di paura, e in quel momento ho capito un ’altra cosa: che dovevo un po’ controllare la situazione.
Lei rimase sul palco, al microfono, e cominciò a dare ordini...
Sì.
Che cosa disse?
Arrivavano le voci più disparate: certo, c’era uno stato di grande tensione emotiva, qualcuno diceva: «Abbiamo sentito che hanno messo bombe anche in altre parti della piazza», per cui io dovevo dire: «State al centro della piazza», e poi: « Venite verso il palco», perché le voci si accavallavano. Si diceva di altre bombe collocate pressappoco nella zona dove era scoppiata la prima, e io, sulla base di queste voci, cercavo di dire alla gente cosa doveva fare fino a quando non dissi: «Spostatevi in piazza della Vittoria», che è una piazza adiacente, dove si pensava che non ci fosse pericolo.
Quando, e perché, si decise a scendere dal palco?
Quando ho visto che ormai erano arrivate le autolettighe, e le macchine avevano portato via i feriti, oltre cento; e poi quando ho visto arrivare, accompagnato da alcuni lavoratori, mio fratello completamente coperto di sangue. Siccome non bastavano le autolettighe, ho preso una macchina dei sindacati, abbiamo fatto fatica anche a caricare. Ero parecchio preoccupato anche perché mio figlio mi aveva detto che l’altro fratello, che si trovava con lui, era sparito e non se ne sapeva niente. Ma il problema più importante era dire alla gente cosa dovesse fare. Per esempio, ricordo che in un primo momento erano arrivati anche alcuni autocarri carichi di carabinieri, e questo poteva sembrare una provocazione: io mi rivolsi all’ufficiale che li comandava, una persona molto intelligente che capì subito la situazione e dette ordine ai carabinieri di risalire sugli autocarri e di andarsene.
Quante persone erano rimaste sul selciato, ferite o morte?
Ecco, era difficile da dirsi, perché i corpi erano completamente dilaniati: si vedeva una gamba da una parte e poi dei busti decapitati, oppure arti mescolati con altri. È per questo che abbiamo avuto difficoltà, in quel momento, a dire quanti erano i morti. Io ho visto questo carnaio dopo aver fatto un altro mezzo comizio in piazza della Vittoria, perché si capiva che i lavoratori non volevano restare soli, non volevano andarsene, sentivano il bisogno di stare insieme.
Quando si decise a tornare a casa, con chi parlò per primo?
Sono tornato a casa che era sera. Ero bagnato fradicio perché non avevo neanche un soprabito, sono stato sempre sotto l’acqua. Mi era venuto un forte mal di testa. Quando sono arrivato a casa ho vomitato l’anima. Ma cercavo di resistere, ecco, perché sapevo che il giorno dopo sarebbe stato molto impegnativo...
E rimasto segnato da quell’episodio?
Sì. Avevo già avuto un’esperienza traumatica durante la Resistenza. Ricordo una volta, ero prigioniero, e ci obbligarono ad assistere a una fucilazione... Pensavo fosse stata l’esperienza peggiore della mia vita. Ma sbagliavo. Questo attentato è stata la cosa peggiore. Può darsi che oggi io sia più fragile di quando ero giovane. Non lo so. So che certamente la cosa mi ha segnato.
Le indagini della magistratura prendono il via fra grandi difficoltà; si rivolgono verso gli ambienti del neofascismo bresciano. Dopo quasi tre anni di istruttoria verranno rinviate a giudizio nove persone imputate di strage: tra queste, Ermanno Buzzi e i fratelli Angiolino e Raffaele Papa. Ecco l’iter dei processi.
BRESCIA 1979, sentenza di primo grado: ergastolo a Ermanno Buzzi; 10 anni ad Angiolino Papa; assolti con formula piena gli altri imputati.
BRESCIA 1982, sentenza d’appello: assolti tutti gli imputati per non aver commesso il fatto. Per Buzzi, sentenza di non doversi procedere «per la morte del reo». E stato infatti strangolato nel supercarcere di Novara da Pier Luigi Concutelli e Mario Tuti.
ROMA 1983, la Cassazione annulla il processo d’appello.
VENEZIA 1985, nuovo processo d’appello: Angiolino Papa, Marco De Amici e Fernando Ferrari assolti per insufficienza di prove. Nel 1987 la sentenza sarà definitiva.
Intanto, un’inchiesta bis aveva portato nel gennaio 1987 a un altro processo con tre nuovi imputati: Cesare Ferri, Alessandro Stefanov e Sergio Latini. Il processo si conclude in prima istanza con una assoluzione per insufficienza di prove e, in appello, il 31 marzo 1989, per non aver commesso il fatto. Questa sentenza assolutoria è confermata dalla Cassazione il 13 novembre 1989. Dopo 15 anni e 6 processi, la strage di Broscia è ancora senza colpevoli.
Quella di Piazza della Loggia, da vent’anni a questa parte, è la quarta strage politica. La prima fu quella di piazza Fontana; in essa morì gente comune, clienti della banca; la seconda fu quella di Gioia Tauro, dove venne fatto deragliare il treno Freccia del Sud, diretto a Reggio Calabria; la terza, quella provocata da Bertoli davanti alla questura centrale di Milano: anche lì rimase uccisa gente qualunque, passanti. A Brescia, invece, le vittime non sono casuali: cadono cittadini che protestano in piazza contro la violenza nera.
30 maggio, due giorni dopo la strage di Brescia. Uno dei capi di Ordine nero, Giancarlo Esposti, spara su una pattuglia di carabinieri e guardie forestali che lo hanno scoperto accampato con tre compagni a Pian del Rascino, sulle montagne fra le province dell’Aquila e di Rieti. La pattuglia dei militari risponde al fuoco. Dopo una violenta sparatoria due carabinieri rimangono feriti, tre estremisti si arrendono e vengono arrestati. Esposti resta sul terreno crivellato di proiettili. La ferita mortale è alla testa. Si dirà che sembrava un colpo di grazia dopo un’esecuzione, ma mentre nulla avvalora questo sospetto sarà provato che fu Esposti a sparare per primo.
Testimonianza di due guardie forestali:
All’atto della sparatoria hanno detto che facevano parte delle Brigate rosse, poi subito dopo hanno smentito e infatti hanno proprio affermato: «Noi siamo dei fascisti».
«Ma perché portate tutta questa roba, tutto questo arsenale, tutte queste armi, tutta questa polvere, che cosa ne fate? »
«Dobbiamo uccidere, dobbiamo uccidere... però non voi, non siamo contro le forze di polizia, noi non vogliamo voi. Ci stiamo addestrando alla guerriglia e dobbiamo uccidere. »
Abbiamo chiesto: «Chi vi ha fornito tutto questo materiale?». Ci hanno risposto: «Domandatelo a lui». All’Esposti che era già morto e grondava sangue.
Sotto le tende del campo paramilitare, armi, munizioni e 65 chili di esplosivo. Polizia e carabinieri avevano già scoperto negli ultimi anni altri attendamenti simili a quello di Pian del Rascino, una settantina, alcuni con poligoni di tiro e percorsi di guerra.
I primi campi paramilitari furono organizzati da Avanguardia nazionale e Ordine nuovo. Avevano lo scopo di addestrare gruppi di giovani nelle tecniche della guerriglia e della controguerriglia: tiro con armi da guerra, uso di esplosivi, combattimento corpo a corpo.
Nel convegno dell’Istituto Alberto Pollio che si era tenuto a Roma ali’hotel Parco dei Principi nel maggio del 1965, sul tema «La guerra rivoluzionaria», erano state espresse molte delle convinzioni della destra estremista che non si riconosceva nei partiti politici; neppure nel Movimento sociale italiano, giudicato complico del sistema parlamentare.
La prima di queste convinzioni, d’altronde largamente condivisa in Paesi come la Spagna, la Grecia e il Cile, era che l’avanzata palese e occulta del comunismo si potesse arrestare soltanto con l’intervento dei militari, affiancati da una sorta di volontariato civile. Edgardo Beltrametti aveva detto: «Di fronte al pericolo comunista che minaccia la civiltà occidentale i sistemi democratici sono inadeguati; occorre radicalizzare lo scontro preparando uno strumento che comprenda la creazione di gruppi permanenti di autodifesa i quali non esitino ad accettare la lotta nelle condizioni meno ortodosse».
Un altro relatore, il professor Pio Filipponi Ronconi, aveva descritto uno schieramento di forze rivoluzionarie articolato in gruppi disposti su vari livelli, secondo la loro collocazione nella società e i compiti che dovevano svolgere: «Tali unità andranno addestrate a compiti di controterrore e di rottura nei punti di precario equilibrio, in modo da determinare una diversa costellazione di forze al potere».
Ci si domandò perché Esposti, a due giorni dalla strage di piazza della Loggia, fosse accampato a Pian del Rascino con armi, munizioni ed esplosivi. Si parlò a lungo di un misterioso secondo uomo, suo compagno di tenda, sfuggito alla cattura e scomparso. Restò senza spiegazione il fatto che molte delle munizioni sequestrate facessero parte di uno stock assegnato al ministero dell’Interno. Infine, si fece strada un dubbio ancora più inquietante: che vi fosse un progetto, annullato ali’ultimo momento, per attentare addirittura alla vita del presidente della Repubblica, Giovanni Leone. In questo ipotetico piano era in qualche modo coinvolto anche Esposti? Al di là del suo fondamento, subito incerto, di quell’ipotesi non si parlò più.
Tra maggio e giugno del 1974, tre modifiche dell’organigramma dei carabinieri e del ministero dell’Interno si riveleranno di grande importanza nella lotta contro reversione.
Il 22 maggio, viene costituito presso la Brigata carabinieri di Torino un corpo speciale contro l’attivita terroristica agli ordini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Al nuovo reparto sono assegnati, all’inizio, quaranta uomini. Nuclei del corpo speciale verranno presto inseriti nei reparti operativi delle città più importanti.
Il 29 maggio, il ministro dell’Interno Taviani scioglie l’Ufficio affari riservati, un organismo su cui pesano giudizi controversi e persino di legittimità, retto da Umberto Federico D’Amato fin dal 1968.
Il 1° giugno nasce l’Ispettorato antiterrorismo, diretto dal questore Emilio Santillo, con un organico di 300 uomini distribuiti in 13 centri periferici e sottocentri minori. È alle dipendenze dirette del capo della polizia.
Dietro i provvedimenti per contrastare reversione c’è la crescita minacciosa del terrorismo nero, nel quale trovano sfogo le ossessioni anticomuniste e i progetti autoritari dell’estremismo di destra. Il Movimento sociale italiano, in quegli anni, è non di rado sospettato di connivenza con terroristi della destra eversiva, i quali, prima di entrare in Ordine nero, nei Nar o nelle Sam, dopo aver militato nell’Msi l’avevano abbandonato perché lo giudicavano ormai compromesso con il regime parlamentare o ne erano stati espulsi. La scelta da parte di Almirante di una linea che verrà sommariamente chiamata del «doppio petto», teorizzerà il distacco del suo partito dall’area eversiva neofascista.
I giovani estremisti non si appagano dell’esaltazione del ventennio sulla quale non di rado fa leva un’ala del neofascismo confluito nel Movimento sociale. Essi si riconoscono soprattutto nell’insegnamento di Julius Evola, un singolare pensatore di nobile origine siciliana, la cui dottrina costituisce uno dei sistemi più radicalmente antiegualitari, antiliberali, antidemocratici e antipopolari del XX secolo. E una strana mescolanza di idealismo, di filosofie orientali, di tradizionalismo. Lo Stato, per Evola, deve essere retto da una minoranza elitaria, animosa, ispirata a ideali eroici fino al sacrificio estremo. Ecco uno stralcio della sua predicazione:
Gli uomini del nuovo schieramento saranno sì antiborghesi, ma per via di una superiore concezione eroica ed aristocratica dell’esistenza. Saranno antiborghesi che disdegnano la vita comoda; antiborghesi perché seguiranno non coloro che promettono vantaggi materiali, ma coloro che esigono tutto da se stessi; antiborghesi, infine, perché non hanno la preoccupazione della sicurezza, ma amano un’unione essenziale fra vita e morte, su tutti i piani, facendo propria l’inesorabilità dell’idea nuda e dell’azione precisa.
Il modello di organizzazione politica, per Evola, non è il partito, ma l’Ordine. Egli si richiama agli ordini monastici, e guerrieri insieme, del Medioevo: primo fra tutti quello dei Cavalieri Teutonici, conquistatori della Prussia orientale. Incarnazioni moderne dell’Ordine sono, per Evola, la Falange nazionalista e tradizionalista dello spagnolo José Antonio Primo de Rivera, la Legione dell’Arcangelo Michele e le Guardie di Ferro, entrambe fasciste e antisemite, fondate in Romania da Corneliu Codreanu e infine le SS naziste, a cui Evola dedica pagine dense di ammirazione.
L’influenza di Evola sulla destra estrema di questo dopoguerra, e non soltanto su quella italiana, è stata grandissima; ciò non significa che gli si possa attribuire la diretta responsabilità del terrorismo e delle stragi. Nelle idee e ancor più nelle azioni dei discepoli, assai di rado, forse mai, si trova intatto, senza modifiche, sviluppi e persino distorsioni, il pensiero del «maestro». Tuttavia, non va dimenticato che il leader di Ordine nuovo, Clemente Graziani, definisce proprio il libro di Evola, Gli uomini e le rovine, il «vangelo politico della gioventù nazionalrivoluzionaria» ed afferma che il programma di Ordine nuovo è nient’altro che il tentativo di realizzare la dottrina evoliana.
Rosario Minna, magistrato:
Dal 1969 al ’75, il terrorismo di destra compie circa I’85 per cento di tutte le azioni terroristiche in Italia, e proprio in questo periodo il terrorismo di destra cerca di conquistare il potere. E quello l’obiettivo dichiarato.
Pietro Ingrao:
Vorrei fare una precisazione: questo non significa che dietro a ogni fatto, a ogni episodio, e dietro a ogni organizzazione ci fosse lì, direttamente esplicitata, diciamo così, la mano del nemico, per intenderci della reazione. A volte quelli che agivano, forse, non sapevano nemmeno chi comandava e la vera ricerca bisognerebbe indirizzarla in questa direzione.
Ci sono, per intenderci, i burattini che possono essere diversi; la cosa più importante è capire chi sono stati i burattinai.
Nella notte del 4 agosto 1974 il numero delle stragi sale a cinque. Un treno, l’Italicus, in viaggio da Roma a Monaco di Baviera, sta percorrendo una galleria del tratto Firenze-Bologna quando scoppia una bomba. Il bilancio è gravissimo: 12 morti e 105 feriti.
È l’una e venti. Per un caso il treno non deraglia all’interno del tunnel. Sarebbe stata una strage ancora più spaventosa: fiamme e fumo, addensandosi sotto la volta, avrebbero provocato un massacro.
Il macchinista riesce a fermare il convoglio all’aperto, vicino alla stazione di San Benedetto Val di Sambro. Ai funerali, cui partecipa anche il presidente della Repubblica, Leone, prorompono sconforto e rabbia.
Ma il nuovo gravissimo tentativo di minare il rapporto tra società e democrazia ancora una volta fallisce. Il Paese, anzi, si raccoglie intorno alle istituzioni. Partiti e sindacati danno vita a grandi manifestazioni democratiche.
Colpo di scena in Parlamento: durante un acceso dibattito il segretario del Movimento sociale, Giorgio Almirante, annuncia di avere segnalato al capo dell’Ispettorato antiterrorismo, 19 giorni prima della strage, che si stava preparando un attentato contro il treno Palatino, in partenza dalla stazione Tiburtina di Roma.
L’attentato sarebbe stato opera di gruppi extraparlamentari di sinistra. Il deposito di esplosivi dei terroristi si troverebbe in uno scantinato dell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma. A dare queste informazioni è un bidello, Francesco Sgro. Le raccoglie un dirigente del Movimento sociale, l’avvocato Aldo Basile. Il 12 agosto, Sgro afferma di essersi inventato ogni cosa dietro pagamento di un compenso. L’avvocato Basile sarà tratto in arresto con l’accusa di avere indotto Sgro a inventare una pista rossa. Poco dopo sarà completamente prosciolto da ogni addebito. Era del tutto incolpevole.
Inserire una dose calcolata di falso in un messaggio - in questo caso il nome del treno, Palatino, anziché Italicus - per il resto veritiero, è una delle tecniche della disinformazione e in questo caso sembrò usata per montare un depistaggio preventivo nel quale Almirante, suo malgrado, rimase coinvolto. Questo e altro finiranno per alimentare la mitologia di un regista occulto che ispira e devia, coinvolge e scagiona, provoca e nasconde. In realtà, quello di destabilizzare il Paese secondo alcuni, o al contrario di stabilizzarlo secondo altri, è un progetto politico con una logica, un metodo e un obiettivo. La storia di questo progetto, al di là del fatto di perseguire la sovversione, o l’intangibilità del sistema, segna quasi ogni giorno la sua pagina di cronaca, spesso tragica.
Empoli, 24 gennaio 1975: alcuni agenti di polizia suonano alla porta del geometra Mario Tuti.
MARIO TUTI, nato a Empoli, 28 anni, viso di ragazzo tranquillo, impiegato al Comune. E felicemente sposato, ha un figlio, gode della stima dei colleghi. Qualcuno sa di certe sue simpatie per la destra extraparlamentare e della mania di collezionare armi, ma, in generale, non è ritenuto un estremista, ne tanto meno pericoloso.
E tra i fondatori, invece, del Fronte nazionale rivoluzionario di Arezzo e sarà condannato per tre attentati ferroviari.
Nell’agosto 1987, nel penitenziario di Porto Azzurro, Tuti guiderà un tentativo di fuga alla testa di altri quattro detenuti comuni. La fuga non riesce e si trasforma in rivolta. I cinque si barricano con trentasei ostaggi nell’infermeria del carcere e resisteranno per sette giorni prima di arrendersi.
Gli agenti hanno in tasca un ordine di cattura per associazione sovversiva, ma intanto chiedono a Tuti i permessi per le armi che colleziona. Il tono delle guardie è quello di chi sbriga una formalità. L’appuntato Arturo Rocca racconta:
Dice: «Ragazzi, prima di buttarmi all’aria la casa, ve lo dico io dove sono le armi, perché io, voi lo sapete, sono regolare, sono qui, sono là...». Su un pianerottolo che sarà, non so, un paio di metri quadrati, c’era una cassapanca, e sopra questa cassapanca una rastrelliera. A questa rastrelliera c’erano attaccati due fucili automatici non di marca italiana... allora io cominciai a perquisire un armadio, c’era attaccata una giacca sportiva con le toppe di pelle, ho messo la mano in tasca alla giacca, nella tasca destra, e ho trovato due bombe a mano. E allora dico: «Via, carichiamo ogni cosa, su...». «Sì, sì» dice lui. Mi sono messo le due bombe a mano in tasca, perché non le volevo mica lasciare in giro, a questo punto ho sentito un colpo, mi son girato di scatto, ho visto il brigadiere Falco buttato giù... Con questo mitra Tuti ha cominciato a sparare... Ha dato una sventagliata... Io sono cascato con la parte anteriore del corpo dentro un altro stanzino. Mentre cascavo ho sentito la voce di Ceravolo che ha gridato: «Madonna mia! ». Nel soprabito avevo le due bombe a mano. Il Padreterno mi ha salvato perché se un proiettile prendeva la bomba a quest’ora il Rocca stava insieme a... quegli altri miei colleghi...
Restano uccisi il brigadiere Leonardo Falco e l’appuntato Giovanni Ceravolo. Rocca è ferito gravemente. Tuti fugge. Centinaia di agenti e di carabinieri gli danno la caccia. Si nasconde per qualche giorno sulle colline intorno a Lucca, poi cerca di procurarsi documenti falsi e denaro per espatriare: chiede aiuto all’ambasciatore del Cile che glielo rifiuta; si rivolge anche all’ambasciata di Libia. Vorrebbe raggiungere Tripoli per arruolarsi, così dichiara, in una formazione di guerriglieri palestinesi. Tutto ciò che ottiene è un sussidio di 50.000 lire.
Alla fine riesce a riparare in Francia. Forse crede di essere in salvo, ma la sua fuga è finita. Viene catturato a Saint-Raphaël, vicino a Nizza, dopo una sparatoria con agenti dell’antiterrorismo italiano. Ferito al collo e a un fianco, si arrende.
Il processo per la strage dell’Italicus si apre di lì a poco; come per l’attentato di piazza della Loggia l’andamento processuale sarà faticoso, lungo e inconcludente.
Sentenza della Corte d’assise: Tuti è assolto con tutti gli altri imputati per insufficienza di prove.
Sentenza d’appello: Tuti è condannato all’ergastolo assieme a Luciano Franci, un neofascista di Arezzo che dirigeva con lui la cellula nera toscana e aveva messo a punto il piano di attentati sulla ferrovia Firenze-Bologna del 1975. La Cassazione annulla la sentenza. La Corte d’appello, alla quale il processo è stato rinviato, assolve entrambi per non aver commesso il fatto.
La Cassazione deve pronunciarsi sul ricorso dell’accusa e delle parti civili.
Tuti:
Prendo atto che anche il difensore di parte civile, sembra citando i testi della magistratura, riconosce che la mia pretesa di considerarmi in guerra non è infondata. Per questo ribadisco che sono completamente indifferente alla condanna che mi verrà data. Come ho già detto, praticamente, con la mia qualifica di detenuto politico, la pena che mi verrà data al massimo potrà durare quanto il regime che mi condanna.
Anche la strage del treno Italicus, dunque, dopo tanti anni non ha ancora colpevoli. Così è stato per le stragi che l’hanno preceduta, e così sarà per quelle che seguiranno.
Se l’impegno, il coraggio, la capacità professionale delle forze dell’ordine e della magistratura non ottengono i risultati che si vorrebbero, è anche perché il sistematico occultamento degli indizi e delle prove ha la prontezza e l’efficacia che soltanto un disegno strategico può assicurare. Il silenzio, l’omertà, le protezioni, sommate alle difficoltà obiettive che si incontrano nell’indagare su crimini non rivendicati, e di volta in volta attribuiti a gruppi diversi, finiscono per rappresentare un grave ostacolo alla ricerca della verità.
Soltanto di una strage, quella di Peteano, si conosce il responsabile, ma perché è lui stesso, Vincenzo Vinciguerra, ad ammettere la propria colpa.
Il 19 luglio 1984, dichiarerà al giudice Felice Casson:
Con l’attentato di Peteano, e con tutto quanto ne derivò, ebbi finalmente chiara consapevolezza che esisteva una vera e propria struttura occulta, capace di porsi come direzione strategica degli attentati e non, come in precedenza avevo pensato, una serie di rapporti umani, di affinità politiche. L’amicizia personale e il comune credo ideologico fra alcune persone inserite in apparati statali ed elementi di estrema destra non avrebbero mai potuto produrre livelli di copertura così estesi, e capaci di raggiungere i vertici dei servizi di informazione.
Il 30 gennaio 1990 la Corte di cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo del latitante Carlo Cicuttini, uno degli esecutori della strage di Peteano, e ordinato la ripetizione del processo d’appello per i due ufficiali e il sottufficiale dei carabinieri imputati di falso, calunnia e peculato.
Vincenzo Vinciguerra, che non si era appellato contro la sentenza di primo grado, continuerà a scontare l’ergastolo nel carcere di Solicciano.
«Se il terrore è il fine primario - ha scritto Norberto Bobbio - un atto è tanto più terrorizzante quanto più è circondato da un mistero impenetrabile. » Ma la difficoltà maggiore incontrata dalla magistratura è consistita in una serie di ostacoli frapposti nel corso delle indagini: reperti e documenti importanti distrutti, testimoni attendibili e possibili imputati fatti espatriare, testimoni falsi fatti comparire, continue indicazioni fuorvianti. Per oltre un decennio, dal 1970 al 1981, cioè fino alla scoperta delle liste degli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, e alla conseguente epurazione dei cosiddetti servizi deviati, essi hanno interferito in tutte le indagini sulle stragi, e solo in quelle. Non si hanno notizie, infatti, di depistaggi a danno delle indagini sul terrorismo rosso. Appare dunque evidente un interesse a evitare che gli stragisti venissero assicurati alla giustizia. Ritorna la domanda iniziale: da chi è diretto il disegno che sta dietro alle stragi?
Italo Calvino, con un linguaggio da cui alla fine degli anni Ottanta un famoso rapporto del capo della polizia, Vincenzo Parisi, mutuerà alcune inquietanti parole, e con quella capacità profetica che non di rado appartiene ai grandi artisti anche quando sembrano lontani dalle cose di cui parlano, così scrive dopo la strage dell’Italicus:
Il piano eversivo fascista è certo un pericolo, ma più insidiosa e concreta, perché già in atto, è l’instaurazione di un antistato che conviva stabilmente con la nostra democrazia corrodendo i vertici del potere con il ricatto, con le stragi e con i regolamenti di conti. La mafia convisse con l’Italia liberale e convive con quella democratica; il pericolo oggi è che la trama nera, tramontata l’illusione del golpe per le mutate condizioni internazionali, si stabilizzi come un fenomeno di criminalità politica statica sul tipo della mafia e del gangsterismo.
Il Paese vive questi anni coinvolto in problemi di varia e complessa natura, che condizionano non soltanto lo sviluppo in generale dell’economia, ma anche, negli effetti quotidiani, la vita di ogni singolo. La crisi petrolifera del 1973 seguita alla guerra del Kippur ha un grave riflesso in un’Italia che, rispetto ad altre nazioni europee, si trova in condizioni di forte dipendenza energetica ed è in una fase ancora di ripresa dopo gli avvenimenti del 1969-70.
Il governo decreta una diminuzione dei consumi privati: dal riscaldamento delle case alla circolazione delle automobili, alla chiusura anticipata dei locali pubblici. Appare una parola nuova, presa dall’inglese: austerity.
La ricomparsa delle biciclette e addirittura dei pattini a rotelle fornisce ai mass media immagini sdrammatizzanti; ma, al di là del folclore, si ha un severo peggioramento della bilancia dei pagamenti e l’aumento dei prezzi fa lievitare l’indice d’inflazione, che diventa il più alto d’Europa.
La produzione industriale torna a calare e crescono fino a 350 milioni in un anno le ore di cassa integrazione. Solo alla fine del 1975 si verificheranno i primi sintomi di ripresa del sistema economico e avrà inizio una costante e progressiva rimonta che collocherà l’Italia al sesto posto fra i Paesi più industrializzati dell’Occidente. Nel frattempo nascono e si sviluppano nuove dinamiche economiche, più elastiche e quindi più resistenti di quelle usuali. A cominciare dal cosiddetto «sommerso», cioè la minuta imprenditoria spontanea e diffusa che promuove e insedia una rete fittissima di iniziative al di fuori dei medi e grandi settori industriali.
In questo quadro complesso, l’Italia si prepara ancora una volta a cambiare e deve farlo fra strettoie di tipo diverso e calcoli di vario segno, nei quali rientrano persino quelli del partito, più o meno occulto, dell’eversione. E in questo clima che allo Stato di diritto, alla democrazia parlamentare, alle istituzioni della Repubblica si chiede di rinsaldare, nella garanzia delle libertà istituzionali, la difesa degli ordinamenti scelti dai cittadini.
Da poco il corpo elettorale è cresciuto, si vota a partire dai diciotto anni: mentre qualche cerchio pretende di chiudersi, la base democratica risponde allargandosi. Ma la società nel suo complesso dovrà presto misurarsi con una minaccia che, nel frattempo, va più o meno oscuramente determinandosi.
Intervista a Vincenzo Vinciguerra
Vincenzo Vinciguerra, catanese, 40 anni. Lei è l’unico reo confesso - questo è il termine tecnico - di una strage. Se nell’84 non avesse preso l’iniziati va di parlare, il colpevole della strage di Peteano del 1972 forse non l’avremmo mai conosciuto e lei, forse, non sarebbe qui a scontare l’ergastolo. In realtà, come va chiamata questa sua presunta confessione?
Ci sono due punti importanti da chiarire: non c’è stata nessuna confessione. C’è stata una assunzione di responsabilità, preannunciata in un interrogatorio ai magistrati di Bologna il 20 giugno 1984, che può e deve essere intesa come rivendicazione, eventualmente, dell’attentato; non atto di contrizione, come fa intendere il termine confessione.
L’altro punto riguarda il termine di strage. Giuridicamente è strage qualsiasi fatto provochi la morte di più di due persone o comunque che ponga in pericolo l’incolumità di diverse persone. Su un piano morale, la strage è quella che colpisce indiscriminatamente obiettivi civili, falcia la popolazione civile, nelle banche, nelle stazioni ferroviarie, sui treni. Un obiettivo militare colpito nell ’ottica di un attacco allo Stato non può essere messo sullo stesso livello dell’attentato di piazza Fontana, di Brescia, dell’Italicus, della stazione di Bologna.
Lei ha chiamato Peteano un atto di guerra contro lo Stato.
Esatto.
E quei carabinieri che non sapevano di essere in guerra?
Ma i carabinieri sapevano di essere in guerra perché lo Stato lo è da anni. Ancora prima del 1972 si parla di conflitto, in Italia. Perché dire che non sapevano?
Perché un conflitto va dichiarato e presuppone due parti disposte a combatterlo...
..e c’erano infatti le due parti!
In uno Stato di diritto, la parte che lei considera avversa non ha mai inteso partecipare a una guerra.
Ma io dico di più. Dico una cosa diametralmente opposta alla sua. Dico che lo Stato ha dichiarato una guerra senza avvertire la popolazione e l’ha fatta, questa guerra; quindi i carabinieri di Peteano, lei ha ragione, non avevano colpe specifiche, su questo punto concordo, e proprio per questo non ho usato il termine rivendicazione, fino ad oggi. Ma dire che non c’è stata una guerra, che non c’era una guerra, già nel 1972, è cosa inesatta.
Guerra contro chi? Contro che cosa?
Da parte mia guerra contro lo Stato, da parte dello Stato guerra contro questa nazione.
Cioè lo Stato che fa la guerra a se stesso?
Lo Stato strumentalizza oppositori, crea una situazione di scontro, destabilizza l’ordine pubblico alfine di stabilizzare l’ordine politico.
Cominciamo dal principio. Lei apparteneva a Ordine nuovo?
Sì, ho iniziato la mia attività nel Movimento sociale italiano, poi sono passato a Ordine nuovo.
Ma voi non volevate un partito, volevate un fronte di guerra?
Noi eravamo impegnati in una attività politica contro un sistema di partiti che non poteva trovare il nostro favore. Io non sono democratico, non ero democratico e rimango antidemocratico perché non credo alla democrazia, non credo che esista un regime democratico.
Qual era stata, prima di Peteano, l’attività del suo gruppo e sua? Quali furono le azioni più importanti?
No, guardi, non è che ci siano state azioni eclatanti. E l’attività di un gruppo politico che si affida al volantinaggio, partecipa alle manifestazioni di piazza, fa opera di proselitismo, un’attività più che normale...
Mette qualche bomba...
Qualche bomba è stata messa a partire dal novembre del 1971. La prima fu alla Democrazia cristiana, in coincidenza dell’ingresso dei blindati dei carabinieri a Reggio Calabria. Come vede, già in quell’attentato non c’è l’ottica del neofascista che vede nell’Arma dei carabinieri o nelle forze di polizia i corpi sani della nazione, che contrappone lo Stato al regime. Infatti il primo attentato fu di protesta contro questo intervento delle forze di polizia a Reggio Calabria e colpì la sede provinciale della Democrazia Cristiana di Udine.
In quali circostanze maturò la decisione di compiere l’azione di Peteano?
L’attentato di Peteano non matura in un giorno, nasce da una analisi, che inizia sul finire del 1969 e coinvolge l’esperienza mia personale in quella che è la valutazione del mondo neofascista. Dalla nostra azione e dall’analisi si arriva alla conclusione di uno scontro frontale con lo Stato. Peteano è stata un segnale.
Chi fu il teorico di quella azione? Lei, che parte ebbe in quella fase?
Guardi che io ho rivendicato l’ideazione, l’organizzazione, I’esecuzione dell’attentato di Peteano. Io non ho mai avuto un teorico, sono stato contemporaneamente il teorico e il pratico.
Uccidendo dei carabinieri, che cosa contava di ottenere?
Contavo di lanciare un segnale perché venisse meno questa strumentalizzazione che veniva fatta nel mondo neofascista da parte dei suoi dirigenti, i quali non potevano continuare a frequentare gli stati maggiori e i servizi di sicurezza e contemporaneamente proclamare la guerra al sistema e l’eredità della Germania nazionalsocialista.
Perché sceglieste proprio quel luogo?
Un posto nel quale non potevano essere coinvolti i civili. Anche la telefonata venne fatta in quest’ottica, perché quando mi accorsi che questa trappola, questo agguato, perché sempre agguato rimane, non era scattato, lì restava una macchina che chiunque poteva far detonare. Bastava un curioso, bastava anche un bambino; di conseguenza, feci telefonare e la telefonata provocò l’accorrere dei carabinieri e quindi l’attentato ebbe l’esito che si prefiggeva.
Lei si è definito, se non ricordo male, un soldato politico. Che cosa significa?
Significa che ho delle idee...
E da soldato attirare tre vittime inconsapevoli in un tranello mortale?
Ma questa non è la guerra classica. Questa è la guerra che i tecnici degli stati maggiori, compreso quello italiano, chiamano «non ortodossa». La guerra che ha per obiettivo le menti, le coscienze, i cuori e gli animi degli uomini, non i tenitori. La guerra «non ortodossa» non risponde alle regole della guerra classica: e questo degli agguati, degli attentati, non è che un mezzo, uno dei tanti impiegati in questo tipo di guerra anche dai militari in uniforme ai quali, però, nessuno rimprovera l’adozione di certi metodi. Si rimprovera soltanto a coloro che non hanno un’uniforme visibile.
Mi perdoni, non le sembra un eufemismo chiamare guerra impropria l’uccisione di tre ragazzi?
No, non erano tre ragazzi. Erano tre uomini che avevano scelto una loro via, indossavano una divisa, rappresentavano lo Stato. Io non creda neanche che sia logico cercare il piano umano, su queste faccende. Per quei tre ragazzi che lei cita, morti a Peteano, il termine assunzione di responsabilità, che oggi modifico in rivendicazione, l’ho utilizzato proprio perché erano tre carabinieri che non avevano colpe specifiche, se non quella di avere indossato la divisa e di essersi trovati lì quella sera.
Lei allora dichiarò guerra a quello stesso Stato di fronte al quale, poi, per usare il suo stesso linguaggio, non confessa ma si assume delle responsabilità. Parrebbe esserci una incongruenza fra queste due cose e, in ogni caso, non rinuncio a farle queste domande: che cosa è successo nel frattempo? Poiché degli anni sono passati, in cui lei sarà pure cambiato in qualcosa! E cambiato lei o è cambiato lo Stato, sono cambiati gli scenari o le strategie? O è semplicemente un caso di coscienza e non è cambiato assolutamente nulla?
Io non sono stato arrestato. Io mi sono costituito il 12 settembre 1979. Anche questo si è prestato, poi, all’interpretazione di un atto di resa allo Stato e invece così non era. Ebbi modo di riflettere, pensavo già da tempo se dire la verità. E così decisi che era venuto il momento di contribuire al chiarimento, alla ricerca della verità su quella che era la strategia della tensione, la strategia delle stragi e del terrorismo, e mi assunsi la responsabilità di ciò che io avevo fatto. Non, quindi, in un ’ottica di confessione.
Si è detto che lo Stato da lei combattuto avesse dei servitori cosiddetti deviati che conoscevano molte cose di voi, e di lei, prima e dopo Peteano...
Questi servizi, «deviati» fra virgolette, conoscono perfettamente il mondo neofascista. Su Peteano sono stati informati nei mesi seguenti all’attentato; non prima, prima non lo potevano ne immaginare ne prevedere. Quindi, non potevano nemmeno intervenire. Sono stati informati per via confidenziale nei mesi seguenti ali’attentato con indicazioni generiche e poi, nell’ottobre del 1972, hanno avuto in mano elementi concreti per poter provare la mia responsabilità nell’attentato di Peteano. Non lo hanno voluto fare, e non perché io ero un uomo da proteggere da parte di questi servizi, e tanto meno da parte dell’Arma dei carabinieri, ma perché tifarlo contrastava con la strategia politica che stavano portando avanti.
È possibile che quei due servitori di due padroni, per così dire, l’abbiano strumentalizzata?
No. Non vedo come potessero strumentalizzarmi. Si sono limitati a lasciarmi stare, a lasciarmi perdere, hanno continuato nella loro strategia che voleva che la violenza, in quel periodo, fosse esclusivamente di sinistra, e non anche di destra. Non hanno fatto nulla, in concreto, per strumentalizzarmi.
La sua tesi, cioè che vi fossero stati depistaggi e coperture, fu raccolta dalla sentenza di primo grado, e un certo numero di ufficiali venne di conseguenza condannato; ma, in appello, i giudici hanno poi negato che vi fossero depistaggi, coperture, inquinamento delle prove. E quindi hanno assolto quegli imputati. Lei dunque si è autoaccusato, e per questo sconta l’ergastolo, per denunciare fatti che secondo i giudici di appello non si sono verificati. E più difficile accusarsi o accusare, Vinciguerra?
Guardi, io le dico questo: il processo in Corte d’assise è durato quattro mesi, quella Corte, per la quale ho il massimo rispetto, per la coerenza e l’onestà con la quale ha agito, ha interrogato 120 testimoni, ha fatto decine di confronti, ha esaminato tutti gli atti, ed è arrivata a delle sue conclusioni. Io non accuso con fatti specifici Mingarelli o Chirico, perché non ho mai avuto rapporti con loro; sono stato interrogato dall’ottobre del 1972 da Chirico per un breve periodo di tempo.
Forse va detto che Mingarelli e Chirico erano due alti ufficiali dei carabinieri...
... sì, due ufficiali dei carabinieri, diciamo i maggiori implicati nel depistaggio. Gli elementi concreti in mano alla magistratura sono emersi dalla deposizione di sottufficiali e ufficiali dei carabinieri, dal ritrovamento di verbali alterati, dalla scomparsa di tre bossoli di pistola, da elementi oggettivi e comunque non attribuibili a delle mie accuse generiche. Si legge nella sentenza d’appello che, è vero, sono spariti tre bossoli, ma può capitare; è vero che i verbali sono alterati, però si può comprendere; è vero che qualche firma è falsificata, ma, insomma, può succedere...
Lei ha sostenuto che i servizi segreti - io mi ostino a chiamarli deviati - conoscevano fin dal 1972 l’identità dell’autore dell’attentato di Peteano, cioè lei. Che prove ha per affermare una cosa del genere?
Io ho raccolto un sacco di elementi. Oltre ad alcuni altri di cui potrà parlare se fossi pentito, e che quindi taccio. Ci fu una decisione collegiale di coprire la verità sulla matrice politica dell’attentato di Peteano perché, si ricordi una cosa, i carabinieri di Peteano li ho uccisi io, ma lo Stato che rappresentavano li ha traditi due volte: una volta nell’ottobre del 1972, e ancora nell’86, al processo in Corte di assise, pur sapendo da allora qual era la verità.
La storia di questo ergastolo, Vinciguerra, comincia con la morte dei tre carabinieri in quel lontano 1972. Secondo la vostra ideologia le stragi dovevano servire a sollevare il popolo, per abbattere questo Stato. Non solo tutto questo non è accaduto, non solo il popolo non si è mosso, ma tutta questa vicenda finisce nella sua solitudine: in questo ergastolo, appunto. Tutto ciò la induce a fare qualche riflessione?
L’attentato di Peteano non poteva provocare alcuna reazione popolare; escludeva il popolo, non lo coinvolgeva.
Ma lei si rende conto che il popolo, di fronte alla morte di quei tre carabinieri, ha detto «No» a lei e a quanti la pensano come lei, se mi consente, e non è accaduto nulla e non c’è stata la sollevazione e lo Stato è rimasto quello che era?
Ma il popolo non poteva dire di no perché non gli ho lanciato alcun messaggio. L’attentato di Peteano era un messaggio interno al mondo al quale appartenevo, non un messaggio diretto al popolo, che non poteva dire nulla, non poteva fare nulla perché al popolo è stata negata la verità, E oggi questa opinione pubblica a che cosa può dire no? Può prendere atto che di fronte a un attentato che è costato la vita a tre carabinieri lo Stato nega la verità; e chi ha compiuto l’attentato, invece, la afferma. L’afferma prendendosi un ergastolo, facendosi un ergastolo, non rifiutandolo. Non chiedo nulla perché non ho nulla da chiedere a questo Stato, ma soltanto da dare quello che gli ho sempre dato: il disprezzo che merita.
Vinciguerra, lei è qui con questi tre morti che non pesano sulla sua coscienza perché l’eccidio fu compiuto per combattere lo Stato, come lei dice; quella guerra in realtà non c’è stata, e lei consuma qui, nella solitudine, l’illusione di averla combattuta. Che senso vuoi dare almeno al suo futuro?
Io ho un futuro che assomiglia molto al passato. Io affermo che questa guerra c’è stata, questo eccidio, come lei lo chiama, non mi pesa sulla coscienza perché è un atto di guerra, rimane un atto di guerra, e quindi non mi può pesare. Il senso che posso dare al mio futuro è quello di continuare sulla strada che ho intrapreso quando avevo tredici anni, sulla quale ho camminato fino ad oggi e sulla quale continuerò a camminare, in un ergastolo non imposto dallo Stato, ma voluto, cercato, e vissuto con la stessa coerenza che ho sempre mantenuto.
Lei è sposato?
No.
Se lo fosse, e avesse dei figli, è proprio certo che consegnerebbe loro questo messaggio?
Se avessi dei figli... non ho moglie e non ho affetti. Anzi, li ho, ma non verranno mai al primo posto. Se fossero venuti al primo posto, non avrei percorso la strada che ho percorso, perché di ciò che faccio mi assumo le conseguenze. Come sono stato capace di uccidere, non ho mai avuto timore di essere ucciso o di finire in quella che voi chiamate la morte civile. E ve l’ho dimostrato ampiamente! Anche se questo non corrisponde esattamente ali’immagine dell’umano. Quindi sono stato indubbiamente inumano; ma lo sono anche nei miei confronti... più nei miei confronti che nei confronti degli altri, e continuerò ad esserlo...
... non fosse altro che per espiare...
No, nessuna espiazione. Ho rivendicato un gesto che, per rispetto a quei morti, avevo chiamato assunzione di responsabilità. Oggi mi avete obbligato ad usare il termine rivendicazione proprio per porre termine a una campagna di disinformazione che mi vuole contrito, pentito, se non altro su un piano morale, in ginocchio di fronte allo Stato-papà. No. Sono in piedi, rivendico l’attentato di Peteano, e continuerò con altri mezzi, con quelli che mi sono consentiti nella situazione nella quale mi trovo, quella guerra che ho iniziato 27 anni fa e che non finirà prima che finisca io. Finirà nello stesso momento.
Lei è consapevole che questa guerra continuerà a farla da solo?
Non è una buona ragione per smetterla.