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 2012  aprile 16 Lunedì calendario

CUNEO, BRIANZA, UDINE. L’ITALIA DEL MOBILE RESISTE

Che il mondo fosse cambiato Antonio Minotti ha iniziato a pensarlo rientrando dalle sue vacanze di Forte dei Marmi. Era il primo settembre 2011. Per tutta l’estate i giornali avevano messo in prima pagina la parola «spread», termine giurassico che non si sentiva più dire dal ‘92. Minotti ricevette subito una chiamata in ufficio. Era la banca.
A 48 anni, marito di una delle figlie dei fondatori, Antonio Minotti gestisce l’amministrazione della Abet di Lissone e forse perché l’azienda produce qualcosa che è ovunque ma non si vede, il suo marchio non è molto noto. La Abet fa poliuretani, il contenuto di tutto ciò con cui il nostro corpo è a contatto ogni giorno. Divani e cuscini, poltrone, materassi, suole e ciabatte, sedie, selle e sedili: ieri erano un semplice derivato soffice del petrolio, oggi sono un bene sempre più carico di ricerca e sviluppo. Fondata a fine anni 50 dal brianzolo Giuseppe Vergani, la Abet è leader mondiale del settore ma non ha mai distribuito un centesimo di dividendo alla famiglia azionista. È un’azienda sana, efficiente, gelosa del suo capitale in denaro e tecnologie.
L’azienda si fa banca
Era questo il motivo della telefonata dalla banca il primo settembre. Cercavano Minotti, ma non c’erano fidi da offrire, né rimborsi da sollecitare. Invece, la banca chiedeva un prestito: è il mondo al contrario o, per dirla con gli antichi greci, i fiumi (di liquidità) che risalgono ai monti. «Mi hanno offerto un interesse al 4,5% — racconta il manager —. Poi hanno chiamato altre banche che promettevano di pagarmi il 4,75, o il 5%».
Minotti non ha neanche dovuto consultarsi in famiglia per sapere cosa rispondere. «Qui i soldi rientrano sempre tutti in fabbrica come investimenti, la finanza non c’interessa».
Suo malgrado però anche un’altra azienda, la Vefer ha dovuto iniziare a occuparsene, altrimenti sarebbe diventato impossibile rifornire i clienti italiani tradizionali. L’impresa industriale, 170 dipendenti, 75 milioni di fatturato, ha disintermediato le banche iniziando di fatto a estendere credito alla clientela pur di continuare a lavorare. Si è fatta banca lei stessa, al punto che ha sviluppato al proprio interno un software per valutare di giorno in giorno la posizione finanziaria dei clienti italiani; intanto però va alle fiera di Canton e a quella di Colonia, in modo da allargare il fatturato estero ben oltre il 50%.
Chiamiamola, se si vuole, capacità d’improvvisare. O di adattarsi. Di certo Darwin c’entra qualcosa se malgrado Ikea, o malgrado l’Asia e la Turchia, l’Italia è ancora seconda al mondo — non ventesima — nell’industria mondiale del mobile. Se resta prima in Europa e prima assoluta per i prodotti di qualità, come si suole ripetere nel settore da quando nel 2007 la Cina ha fatto il sorpasso. Ma ora che a Milano si apre il Salone del Mobile, è tempo di ricercare nei distretti quella molecola vitale del made in Italy e magari provare a capire se tra qualche anno sarà ancora attiva.
Dal ’15-18 al nuovo Nord Africa
I numeri dicono che non è una previsione a colpo sicuro. Malgrado le molte Vefer d’Italia, gli ultimi anni sono stati una traversata del deserto. Anche nel 2011 il cosiddetto «macrosistema legno-arredo» ha segnato un passo indietro nel fatturato (-4,2%), con la caduta dei consumi interni (-7,3%) solo in parte compensata dall’aumento dell’export (+5,8%). Ma per vendere in Medio Oriente, o anche solo in Germania, servono muscoli e organizzazione, mentre la dimensione media d’impresa nel mobile in Italia resta lillipuziana. Non quindici, non dieci: cinque-addetti-virgola-tre. Nel «macrosistema legno-edilizia-arredo» siamo a 4,1. Poi ci sono i settori come l’arredo per ufficio, dove il fatturato oggi è circa del 40% sotto al 2008, anno del crac Lehman origine di tutti i mali.
Colpisce che dal Piemonte a Friuli, ovunque si bussi ai capannoni, compassati imprenditori del Nord parlino della finanza con un linguaggio da indignati di Occupy Wall Street. «La Borsa non è consona al nostro tipo di capitalismo, troppi meccanismi distorsivi e spinte speculative, troppe logiche esasperate di breve respiro» dice Paolo Fantoni nei suoi uffici di Osoppo. Da queste parti nel ‘15-’18 suo nonno Giovanni faceva le gambe di legno per i mutilati di guerra, perché la materia sapeva lavorarla bene. Molti dei suoi undici fratelli presto sarebbero emigrati a Gondar, Etiopia; Giovanni Fantoni invece va al Salone di Milano al tempo del razionalismo anni 30 della rivista «Domus», segue Gio Ponti, lascia disegnare i suoi mobili all’architetto Cesare Scoccimarro, fratello del senatore del Pci Mauro, e la nonna si faceva il segno della croce quando si pronunciava il suo nome in famiglia.
Risultato: oggi la Fantoni Spa è passata dalle gambe di legno sul Piave alle centrali idroelettriche sulle stesse acque, per alimentare un’azienda di mille dipendenti. E l’avversione alla Borsa non è rifiuto del progresso, solo un omaggio ai cicli lunghi dell’impresa familiare.
Nel lunedì dopo Pasqua, la Fantoni tiene in funzione un macchinario di cinquanta metri che sforna il suo prodotto di base, un pannello di legno a media densità, con in tutto un solo addetto, seduto in cabina di comando a seguire le fasi del prodotto su venti monitor. L’intensità dell’investimento è tale che la concorrenza a basso costo, per ora almeno, resta lontana. Nell’impianto lungo le montagne, disegnato dall’architetto Gino Valle quasi che debba finire tutto intero al Museum of Modern Art di New York come certi mobili del nonno Giovanni, non c’è una scheggia fuori posto. Paolo Fantoni ci si muove dentro con quel senso di sé che, diceva Primo Levi, è dato dall’essere competenti nel proprio lavoro e quindi provare piacere a svolgerlo. A 54 anni continua a correre fra Tunisia, Egitto, Libano, Golfo Persico. Le primavere arabe sono la sua risposta al grande freddo del mercato italiano.
Nel 2000 la famiglia è anche andata in Svizzera a comprare un brevetto per certi pannelli che assorbono il suono dall’ambiente e lo rendono più morbido: ora la Fantoni ci ha foderato un palazzo di Calatrava a Valencia, molti grattacieli a Manama o a Dubai, persino una cattedrale di Nairobi. Una scelta per il mercato alto, mentre i vicini della Friul Intagli e altri nella zona lavorano per Ikea.
Ma i conti della Fantoni raccontano l’economia mondiale meglio del Dow Jones di New York: cinque milioni di utile nel 2007, 2,4 milioni di perdita nel 2009, poi i contratti di solidarietà in azienda, un po’ di cassa integrazione e la speranza di tornare in utile da quest’anno. È un viaggio a ostacoli che in Italia ha fatto morti e feriti, purtroppo non solo metaforici: Fantoni ricorda la figura di Paolo Mascagni, il suo collega mobiliere di Bologna che meno di un anno fa si è sparato. «Nessuno poteva immaginarlo, ma è una patologia che colpisce soprattutto i piccoli. La sovrapposizione fra famiglia, impresa, banche, vita in fabbrica e in comunità li può schiacciare».
Ripartire dal tannino
È la stessa brezza che ha attraversato la Abet, 500 chilometri più a ovest di Osoppo. Però non oggi, negli anni 50. L’«Azienda braidese estratti tannici» visse allora ciò che molti in Italia vivono in questi anni: lo spiazzamento tecnologico. Dai castagni di quelle valli si estraeva il tannino con cui si faceva la concia delle scarpe dell’esercito, una rendita iniziata ai tempi di Cavour. Poi arrivano gli americani con le suole di gomma e tutto finisce, ma non per Enrico Garbarino che va alla Railite di Boston, Massachusetts, a imparare l’arte dei laminati per rivestire i mobili. Il capitale accumulato con il tannino diventa per lui, anziché una rendita plurigenerazionale, un’azienda che oggi dà lavoro a 810 persone a Bra. Abet esporta pannelli da rivestimento in decine di Paesi, fino all’Australia, e ha difeso il suo margine di utile (sempre minore) senza subire i colpi della crisi.
Anche qui il segreto è l’aver mosso per primi, aver investito i soldi del tannino e aver osato, perché poi la lavorazione in realtà è ancora simile a com’era negli anni 50. Adesso la concorrenza viene della Turchia, ammette il manager Alessandro Peisino, ma la risposta alle sfide è stata da sempre nel design per i laminati fatti da semplice carta e resina: più il gusto dei Giorgetto Giugiaro o degli Ettore Sottsass che gli altri non hanno.
Manager da fuori
A Macherio, a pochi quasi dall’altra parte della Vefer di Lissone, Luciano Caspani concorda sulle strategie. In una generazione lui e il fratello hanno trasformato una rivendita di pannelli di 4 persone in un gruppo di 170 addetti per la produzione di pannello «nobilitato» (dal design). In azienda, la Cleaf, si lavora a costruire uno showroom. Abituato alla concretezza e alla concisione, Caspani evita accuratamente di mostrare agli estranei il suo macchinario costruito ad hoc in un anno e poi montato su cinquanta metri lì accanto. Per Cleaf il fatturato è sempre e solo salito. «Non perdo il sonno per il credit crunch, lo spread o il default» dice Caspani, il suo inglese sempre e rigorosamente pronunciato in brianzolo. Ma lui l’azienda familiare l’ha data subito in mano a un manager esterno: anche nel cuore più tipico del made in Italy, c’è chi pensa che la tradizione si difende cambiandola almeno un po’.
Federico Fubini