Dacia Maraini, Corriere della Sera 16/04/2012, 16 aprile 2012
NEL TEMPIO AMERICANO DI HARVARD L’ITALIA E’ ANCORA UN SOGNO
Boston. Arrivo di sera e mi incanto a guardare le luci sfavillanti di una città ricca e sicura di sé, che si riflettono nelle acque scure del golfo. Eppure dall’ultima volta che ci sono stata, ovvero dall’anno scorso, le strade mi appaiono piu sporche e la gente che se ne sta accovacciata sui marciapiedi a chiedere l’elemosina, tanto più numerosa. Sono vecchi barboni con cani sporchi rannicchiati accanto, sono donne dalla pelle scura, l’aria malata e infelice. Ma ci sono anche dei ragazzi che porgono protervi un cappellaccio, guardandoti passare con aria scocciata e sprezzante. Un giovanotto mi colpisce: se ne sta accoccolato sul marciapiede, in jeans bucati e maglione militare, tiene sul petto un cartello che dice «Coming from Afghanistan. No food. Help!». Ovvero «Vengo dall’Afghanistan. Niente cibo. Aiuto!». Un soldato del glorioso esercito americano che chiede l’elemosina, come è possibile? Ma poi mi spiegano che molti reduci finiscono così, perché una volta rientrati in patria non trovano lavoro, a volte si ammalano — l’uranio impoverito procura leucemia e altre forme tumorali — oppure si mettono a bere perché non riescono a riadattarsi alla vita di tutti i giorni.
Harvard è una isola laboriosa. Una città di ragazzi indaffarati, scamiciati, dal passo veloce, lo sguardo fisso verso il futuro. Tengono sempre qualcosa da bere o da mangiare in mano: un gigantesco hot dog, un bicchiere di polistirolo da mezzo litro pieno di caffè o una spremuta verde di erbe organiche. La parola ORGANIC è diventata una promessa di salute. La trovi dappertutto, incollata alle etichette di qualsiasi cibo chiuso nella plastica o esposto al sole.
Il professore Francesco Erspamer, direttore degli Studi di Italianistica, si trova in America da quasi vent’anni, prima alla New York University, ora a Harvard. «Qui nella nostra università lo studio per eccellenza riguarda gli affari. Come fare soldi sembra sia la principale preoccupazione di una parte significativa dei giovani che frequentano il college. In sostanza, rispetto a dieci o vent’anni fa, una percentuale più alta di chi si laurea a Harvard finisce a Wall Street invece che a fare ricerca scientifica, politica, giornalismo, arte. Per carità, c’è sempre tanta gente che preme per venire ad Harvard per il prestigio che dà. Ma ciò che attira le menti migliori, la nuova élite, sembra essere: imparare in fretta a trattare gli affari e poi trasferirsi nei centri della finanza internazionale». La finanza che sostituisce la produzione, crede sia un processo irreversibile, vista da questa università fra le piu autorevoli del mondo? «Non credo ci sia nulla di irreversibile. Ma nel breve e forse medio termine, ho paura di sì. La produzione sembra essere diventata un processo di seconda mano, almeno negli Stati Uniti». Ed è quello che vuole la maggioranza degli americani secondo lei? «Non direi. In un momento di crisi in cui le industrie chiudono o comunque riducono la manodopera, molti vorrebbero rivalutare il lavoro produttivo. Ma questi sono i difetti della democrazia capitalistica — possiamo ancora chiamarla democrazia, o non si tratta di una nuova forma di assolutismo? —, quello che vuole la gente è diventato irrilevante rispetto alla volontà delle grandi lobby e alla capacità persuasiva del denaro. Si pensi a Mark Zuckerberg, il creatore di Facebook, da lui ideato proprio mentre studiava a Harvard. Zuckerberg era un genio della programmazione informatica ma non è per questo che è il modello di tanti studenti: bensì per il modo in cui ha saputo sfruttare economicamente una delle sue idee, neppure la più originale o complessa, diventando il più giovane miliardario del mondo».
Prendo al volo un taxi guidato da un nero col telefonino incollato all’orecchio. Gli chiedo di portarmi al Museo Isabella Stewart Gardner di Boston. Venti minuti di viaggio e mi trovo davanti un bellissimo palazzo rinascimentale veneziano, con le finestre alte a ogiva, gli scalini di marmo, le ampie sale affrescate, i piccoli e folti giardini interni. I signori Gardner hanno costruito questo palazzo veneziano ai primi del Novecento e lo hanno riempito di quadri, statue ed arazzi preziosi. Una impresa che esprime un amore ossessivo e commovente per l’Italia. Si cammina per sale immense col naso all’insù ammirando i magnifici quadri di Giotto, Simone Martini, Bellini, Tintoretto, Tiziano, Veronese, Botticelli, Raffaello. Ci sono anche dei Velasquez e dei Dürer ma l’ammirazione puntigliosa e appassionata per l’arte italiana colpisce per la sua costanza. Un amore che deve essere costato parecchio ai coniugi Gardner, ma certo il risultato è sorprendente. E oggi il museo è popolarissimo. Vengono da tutta l’America per visitare la straordinaria collezione privata.
Davanti a me scorrono tanti ritratti di Madonne col bambino. Mi chiedo se la scelta esprima un gusto particolare dei Gardner, oppure si tratti di un caso. È anche vero che non erano permesse molte altre visioni della donna ai tempi d’oro della grande pittura italiana. Eppure, viste così in serie, fanno una strana impressione. Prima di tutto i loro figli non sono neonati che si allattano, ma bimbi di due o tre anni, mentre le madri rimangono giovanissime ed eteree. Hanno un’aria stranamente assente queste mamme, che portano sulle ginocchia — quasi sempre sono sedute — un Gesù massiccio, pesante, capelluto, pensoso. Maria, più che una madre, sembra una sorella maggiore, una ragazzina dalla faccia infantile e gli occhi timidamente rivolti verso il basso. Si direbbe più interessata ad un discorso interiore mai interrotto che al santo bambino. Una sola fra le Madonne di questa vasta collezione esprime felicità materna: il pittore l’ha colta mentre si china sul figlio che, contrariamente alla tradizione, se ne sta seduto per terra e batte le manine paffute rivolgendo un delizioso sorriso alla madre. Un quadro fuori dalle regole e carico di grazia teatrale.
Ci sono moltissimi italiani fra Boston e Harvard. C’è anche un nucleo della Dante Alighieri che ha costruito una sede molto bella con un teatro appena rimodernato. Luisa Marino, abruzzese di passaporto americano, mi racconta le vicende dolorose che hanno trasformato la sua vita. Un fratello, Les Marino, che aveva fatto carriera come imprenditore, molto richiesto e stimato per la serietà del suo lavoro, è morto prematuramente di una emorragia celebrale. Il marito se n’è tornato in Germania. E lei ora vive sola con la nipote, nel ricordo dei fasti lontani. «Mio fratello ha fatto moltissimo per l’Italia da queste parti. Aveva preso dagli imprenditori americani il piacere di investire in cultura», dice commossa la Marino e si capisce che il suo è vero amore. «Ma dagli americani aveva preso anche la passione per una vita sana: si alzava alle cinque per fare ginnastica. Mangiava tutto organico. Era sempre in moto, si teneva asciutto e sano. Ma non è servito purtroppo. L’hanno trovato morto una mattina mentre camminava sul tappeto mobile».
«Si è mai chiesta perché la gente muore tanto di cancro in questo Paese ricco che consuma piu di tutti gli altri Paesi del mondo per la sua salute, che ha gli ospedali più moderni, i medici piu informati?», mi chiede un giovane bostoniano che ama l’Italia. Gli confesso che non lo so. E lui continua battagliero: «Ma perché vogliamo essere i più bravi, i più potenti, i più produttivi. Perché usiamo l’energia come se non dovesse finire mai, perché spargiamo pesticidi nelle nostre campagne come se dovessimo sterminare una volta per tutte ogni insetto che resiste sulla terra, ma con gli insetti avveleniamo le api, gli uccelli, le volpi, i topi. Solo l’uomo resiste. O crede di resistere. Ma intanto stiamo inquinando i fiumi, stiamo uccidendo i mari. Crediamo ciecamente nella tecnologia come se potesse risolvere le gravi questioni che riguardano l’uomo e la sua esistenza, senza renderci conto che intanto ne abbiamo fatto un feticcio e dietro l’adorazione del feticcio c’è il nulla. Siamo convinti che sia importante produrre i meloni piu grandi del mondo, i pomodori più rossi, perfetti e nutrienti dell’universo, li imbottiamo di vitamine e di ormoni, e poi ci stupiamo che le nostre bambine mettono su seni da adulte quando hanno appena nove anni. Dove sta la logica?», dice finendo in una risata disperata. «Guardi che anche noi stiamo facendo gli stessi errori», gli dico per consolarlo, «magari pensando di fare bene, imitando il vostro esempio». Lui mi osserva un momento pensoso ma non sembra ascoltarmi e continua con rabbia: «Mandiamo i nostri ragazzi a morire in guerre lontane e non siamo capaci di prevenire il terrorismo in casa nostra, le pare logico?». Mi sorprende questo americano dalla critica collerica. Mi chiedo se il suo amore per l’Italia non lo abbia portato a imitare il nostro sport nazionale: la critica malevola verso tutto e tutti senza distinzione. Di solito gli americani sono molto restii a criticare il proprio Paese.
Angela Boscolo Berto è una veneziana giovane e bella che insegna ad Harvard da un anno. «Sono stata fortunata: ho fatto la richiesta e sono stata ammessa. So di tanti che non ce la fanno», dice con la dolce cantilena dei veneziani. «Quello che mi piace di questo Paese è la meritocrazia. Sai che se lavori e fai bene, andrai avanti. Se invece ti impigrisci e non combini un granché, perdi tutto. Se vuoi che il tuo lavoro ti sia riconosciuto sia professionalmente che economicamente, devi sgobbare. Alle volte sono anche spietati. E ti spremono come un limone. Ma ti prendono sul serio, anche se sei una donna». I suoi occhi di ragazza moderna che non conosce i sogni proibiti delle Madonne cinquecentesche, si alzano sorridenti e fiduciosi. «Però ho tanta nostalgia dell’Italia», continua. È lei che ha organizzato la mia conferenza con gli studenti di Harvard e da come è andata, capisco la ragione per cui le hanno dato fiducia. Camminando fra le vecchie case di legno in stile coloniale di Boston non posso fare a meno di ripensare alle tante pagine di Henry James che hanno riempito di emozioni le mie giornate giovanili. La visione di una Europa molle e degradata, attraente e pericolosa sirena che adesca gli ingenui americani, esiste ancora? Se penso alle più famose letture americane, fra cui metto la Trilogia di New York di Paul Auster, direi di no. Nessuno ritiene più che l’Europa sia quel luogo affascinante e perverso in cui la bellezza prende la forma della fiacchezza morale, da cui l’America giovane e pura viene sedotta e traviata. Anzi direi che lo scrittore statunitense abbia perso ogni fede nella autenticità spartana del suo Paese e si veda sempre più isolato da una cultura che disprezza, preso da terribili sogni premonitori, infastidito dalla retorica della guerra, e ormai quasi incredulo perfino nella democrazia, per lo meno come viene vissuta e propagandata e nel nome della quale si compiono le piu grandi ingiustizie.
Pensavo che un dialogo pubblico, condotto in una aula magna, fra una anziana scrittrice e una giovane studiosa, tutte e due italiane e piene di domande da farsi, avrebbe interessato veramente pochissimi studenti. E invece la sala si riempie e come sempre mi stupisco per l’attenzione che il pubblico dimostra verso una cultura che noi tendiamo a vedere come vecchia, scontata, in crisi. Cosa ci può essere di interessante in un piccolo Paese litigioso e frammentato, indietro su tutti i fronti? E invece poi scopriamo che l’attenzione verso la nostra lingua e il nostro pensiero resiste e si rinnova. Solo merito di quella grande pittura, di quella grande musica, di quella grande architettura di cui ancora godiamo l’eredità? O c’è dell’altro? Siamo ancora capaci, vivendo in questo strano stivale che affonda le sue radici in un Mediterraneo sporco e inquinato, di farci ascoltare? La risposta sembra positiva e stupisce anche me. La domanda che segue è: non sarebbe il caso di puntare ostinatamente sulle nostre eccellenze anziché metterci in competizione con i jeans a poco prezzo di Pechino? Ricordo ancora la piccola studentessa vietnamita che l’anno scorso all’università di Hanoi mi ha detto: «Voi siete una grande potenza culturale e a noi piace ascoltarvi». Veramente sorprendente! Ma anche istruttivo. Proprio mentre ci accingiamo a tagliare le spese, a chiudere e accorpare tanti Istituti italiani di Cultura in giro per il mondo, perché non fermarci un momento a riflettere che solo investendo su ciò che abbiamo di unico e di migliore possiamo crescere, non certo piangendoci addosso e lasciando cadere a pezzi le nostre ricchezze, come è successo con quella meraviglia di Pompei?
Dacia Maraini