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 2012  aprile 16 Lunedì calendario

IL PAESE PALUDE DEGLI IMPERI

In vista del vertice Nato di Chicago del prossimo mese, l’Afghanistan torna a incendiarsi. Più che nei Corani bruciati, più che nell’ultimo massacro di civili afghani, la causa sta nell’essenza stessa di un Paese e di una regione che si è sempre dimostrata irriducibile alla presenza straniera e capace di fiaccare ogni occupante.
La presenza americana, dopo una decina di anni, ricorda in maniera sinistra il crepuscolo dell’occupazione sovietica, accelerato dai mujahiddin sugli altopiani e le montagne afghane. Ma la storia dell’irriducibilità afghana risale a ben oltre gli anni ’80 e rimanda alla lunga storia di un territorio impervio, difficile, crocevia tra mediterraneo e mondo iranico da un lato, Asia Centrale, India e Asia orientale dall’altro.
Khorasan è il nome antico, fin dalle invasioni arabe e musulmane dal VII secolo, che venne dato all’ampia regione che occupa parte dell’Iran orientale e dell’attuale Afghanistan. Una regione che divenne nel Medioevo il centro culturale, economico e politico del mondo islamico, a metà strada tra le grandi città dell’Asia Centrale come Samarqanda e Bukhara, le capitali dell’Iran e le ricchezze dell’Islam indiano. Città di grande tradizione come Balkh e Herat rivaleggiavano con questi centri, essendo di gran lunga più grandi, più ricche e più importanti delle città arabe, e così fu almeno fino alle invasioni mongole del XIII secolo. Stretta tra le potenze centro-asiatiche e indiane ai confini, la regione afghana conquistò una sua prima indipendenza a partire dagli inizi del 1700 a prezzo di battaglie sanguinose.
Fu però dai primi anni del 1800 che l’Afghanistan si trovò all’incrocio di forze contrapposte che sostituirono Sikh indiani e persiani nelle loro mire sulla regione. L’avanzata verso sud della Russia zarista e verso nord degli inglesi dall’India diede il via a quello che divenne noto come il «Grande Gioco», un confronto di spionaggio e schermaglie tra Russia e Impero britannico. Le mire russe che giunsero a conquistare Caucaso e Asia Centrale da un lato e quelle inglesi che avevano come base l’India però si frantumarono entrambe contro un territorio che si mantenne sostanzialmente indipendente, giocando sullo scontro delle due superpotenze ma anche sulle peculiarità di un territorio unico. Montagne, orizzonti desertici e vallate impervie hanno fatto dell’Afghanistan una regione che eserciti di conquista hanno attraversato, anche conquistato, a volte, ma quasi mai controllato.
Nella corsa alla conquista coloniale delle potenze europee e nella conseguente divisione del mondo, due territori soli tra quelli musulmani rimasero sempre alieni a un controllo diretto: il centro della penisola araba e l’Afghanistan. Il quadro tribale, le capacità guerriere e l’adattabilità al territorio rendevano e rendono le pur divise tribù afghane una realtà difficilmente controllabile da chiunque, anche da parte degli stessi sovrani afghani. Difficile è valutare nel corso della storia la reale capacità di controllo della capitale Kabul in una realtà etnica, tribale e anche religiosa molto complessa, unita nel rigettare controlli esterni ma altrettanto riottosa ad accettare il controllo altrui. La storia afghana del XX secolo è in fondo ancora il prodotto di questo paradosso: un equilibrio sorretto da forze esterne e in nome di una autonomia interna di fatto: un’autonomia orgogliosa e difesa a tutti i costi sia contro i nemici esterni sia contro i tentativi di controllo dell’autorità centrale.
Non stupisce, quindi, che l’invasione sovietica del 1979, seguita a un colpo di stato, l’ennesimo, di matrice marxista, abbia risvegliato in parte l’orgoglio nazionale e seppellito contrasti tribali. Le forze di resistenza afghane, variegate per composizione e ispirazione politica, hanno costretto un impero sovietico certo fiaccato da altri problemi a ritirarsi nel 1989. Nel giro di pochi anni dopo la ritirata sovietica il regime di Najibullah è caduto aprendo la via alla nascita dello Stato islamico d’Afghanistan, precursore del regime talebano di fine millennio e vero e proprio campo di addestramento e di formazione del jihadismo contemporaneo.
L’attacco di al-Qaeda dell’11 settembre e la conseguente invasione americana ed alleata hanno riportato le tribù afghane sul piede di guerra. Il regime di Karzai ha controllato raramente oltre la capitale Kabul e le regioni circostanti. L’occupazione militare ha ottenuto l’immancabile effetto di coagulare opposizione e di raccogliere guerriglia e lotta armata sotto le bandiere talebane, in fondo ancora un’entità capace di organizzare la resistenza. La forza talebana di oggi altro non è che la secolare capacità di resistenza delle popolazioni afghane. Cancellata la presenza utile a suo tempo ma ingombrante di Bin Laden e degli arabi che parteciparono alla jihad anti-sovietica e poi alla prima costruzione del regime talebano prima del 2001, la resistenza di oggi ha una forza nuova e forse diversa. Ispirata dalla stessa fede religiosa che fu dei mujahiddin e che guarda alle scuole coraniche pakistane che hanno nel tempo accresciuto ulteriormente la loro forza nell’area, i talebani di oggi paiono impegnati esclusivamente nella liberazione nazionale, meno ostili alle altre forze di opposizione e hanno quindi maggiore capacità attrattiva.
I proclami mondiali di Bin Laden sono ormai lontani. La situazione mondiale è molto diversa ma la realtà afghana è per certi versi quella di sempre. Il prossimo vertice di Chicago dovrà tener conto non solo delle stanchezze americane e alleate ma anche della capacità di resistenza afghana. Con queste premesse potrà forse risvegliare il ricordo degli storici armistizi con gli inglesi, oppure, rievocare il ritiro sovietico di poco più di trent’anni fa, riportando l’Afghanistan in mano afghana, con un futuro ancora tutto da decifrare.
Roberto Tottoli