Franco Venturini, Corriere della Sera 16/04/2012, 16 aprile 2012
MESSAGGIO DI GUERRA PER OBAMA
Per dimostrare la loro forza e incoraggiare gli occidentali a fare i bagagli, i talebani hanno organizzato ieri una temeraria anteprima della consueta offensiva di primavera. Attacchi multipli e coordinati hanno colpito le zone più «sicure» di Kabul dove hanno sede i simboli della presenza straniera in Afghanistan.
Nel mirino dei talebani: la missione Nato, il quartiere delle ambasciate e dell’Onu, il Parlamento accusato di servire il nemico (e per difendersi non pochi deputati sono tornati a imbracciare il kalashnikov), basi militari e caserme della polizia. Contemporaneamente venivano presi di mira obbiettivi strategici in altre regioni e in altre città, compreso l’aeroporto di cui si serve la Nato a Jalalabad. E non si può escludere che un lungo filo colleghi le imprese afghane con la liberazione armata di quattrocento talebani detenuti nel nordovest del Pakistan. In oltre dieci anni di guerra, pur avendo compiuto altri attacchi nel centro di Kabul, i talebani non avevano mai osato tanto e mai si erano mossi in maniera tanto sincronizzata. Perché allora, al di là del favorevole cambio di stagione, i loro capi hanno scelto questo momento? La risposta non è difficile da trovare, e ha molti destinatari. In Occidente i più ottimisti continuano a sostenere che la guerra ha logorato le capacità militari dei talebani, ormai incapaci di tenere testa all’Isaf (missione Nato) e ai suoi allievi afghani. Ma benché l’ambasciatore Usa a Kabul si sia ieri compiaciuto dell’«ottima risposta» fornita dalle forze afghane, il bilancio dell’offensiva rivela piuttosto una intatta capacità di iniziativa da parte talebana e una marcata vulnerabilità nello schieramento posto a difesa della capitale. Con il risultato per gli insurgents di essere riusciti a compiere una azione prima di tutto spettacolare, capace di raggiungere i decisori politici e le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali. Non basta. I talebani hanno certamente voluto pesare (e continueranno a provarci) sui preparativi del vertice Nato che nella seconda metà di maggio si terrà a Chicago proprio per discutere di Afghanistan. Hanno inviato un telegramma a Hollande e a Sarkozy, sapendo che il primo vuole il ritiro delle truppe francesi a fine 2012 e il secondo a fine 2013 (anche se, con le presidenziali alle spalle, queste scadenze verosimilmente diventeranno elastiche). Hanno fatto sapere all’odiato presidente Karzai che farebbe meglio a non sognare un terzo mandato. E soprattutto hanno recapitato un messaggio forte a Barack Obama. I talebani non dimenticano le offese al Corano e la strage di civili compiuta da un soldato Usa. E poi, l’America vuole o non vuole dialogare con i talebani in Qatar? Se sì, accetti le condizioni e si sbrighi a farlo, perché in caso contrario gli uomini del mullah Omar saranno perfettamente in grado di riprendersi il potere dopo il ritiro delle forze Isaf a fine 2014 (se a tale scadenza si arriverà), o forse già nel 2013 quando le forze alleate faranno soltanto da «supporto» all’esercito afghano appena addestrato. Capire la strategia dei talebani non significa predisporsi alla resa. E il vertice di Chicago, a beneficio delle esigenze elettorali di Obama, non mostrerà le crepe che pure esistono nel fronte occidentale. Ma se non si vuole far stravincere i talebani dopo non essere riusciti a sconfiggerli, una strategia afghana più unitaria, più credibile e più efficace l’Occidente dovrà metterla a punto. Con il contributo dell’Italia, che dopo i primi ritiri francesi schiera oggi in Afghanistan il terzo contingente militare alleato. Con la determinazione a non compiere distruttivi ritiri unilaterali. Ma anche con la consapevolezza che dal pantano di Kabul è ora di uscire, insieme.
Franco Venturini