BRUNO VENTAVOLI, Tuttolibri-La Stampa 14/4/2012, 14 aprile 2012
Bukowski, i perdenti del santo bevitore - Chelaski aveva una media di 285 battute valide, ma quel giorno in campo si sentiva strano, pronto a fare qualcosa che non avrebbe dovuto
Bukowski, i perdenti del santo bevitore - Chelaski aveva una media di 285 battute valide, ma quel giorno in campo si sentiva strano, pronto a fare qualcosa che non avrebbe dovuto. Anzi, senza sapere perché, rimane immobile sotto i boati della folla inviperita, invece di correre e conquistare punti. Lo spaesato atleta nella perfetta geometria del baseball che simboleggiava l’America, è uno dei primi anti-eroi (ancora castissimo) che Bukowski scovò nella sua ininterrotta bolgia di perdenti, a 24 anni. Ed è lui, con la sua paralizzante impotenza, a inaugurare Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze , bella antologia di prose giovanili, bozzetti di amici artisti, baldanzosi manifesti letterari (anche il titolo lo è), storie irriverenti, amorali, ironiche, annebbiate dai vizi, proposta sull’edizione americana del 2010. I bukowskofili non resteranno delusi. C’è la consueta brutale energia nel maneggiare le frasi, nel denudare vite e menti di gente senza qualità. In mezzo a scopate, lattine di birra, latrine con chicani aggressivi, si trova il bravo vecchio Händel, o un Lawrence babbeo con i suoi utopici falansteri, e un vario catalogo di peccati, colpe, bassezze. Ma soprattutto la caparbia volontà di scrivere, ticchettare tasti, cambiare nastro, inchiostrare storie – solo dopo aver rischiato botte al casinò, vomitato bevute, rimorchiato donne improbabili - che rese Bukowski uno dei maggiori cronisti del 900 americano. Nei racconti s’annusa anche l’aria della controcultura, dei reading, dei ciclostili, delle parole sensate o no, che gli intellettuali macinavano in quegli anni, quando il mondo era diviso in due rassicuranti superpotenze, come il rosso e il nero d’una roulette. Lui, ovviamente, puntava sullo zero (verde, ma 36 volte la posta). Appaiono Corso e Ferlinghetti, descritti con l’affetto che si tributa ai compari di sbronze. Perché Bukowski fiancheggiò la beat generation. Ma poi, più radicale, andò su una «road» tutta sua. Sosteneva spaccone di scrivere poesie per portarsi a letto le ragazze (lo faceva davvero, dopo letture all’università o serate a discorrere di minimi sistemi), poi parteggiava romantico per gli esclusi, i talmente paria, che non possono nemmeno associarsi in gruppo di paria, tipo i bambini maltrattati (Bukowski senior usava la cinghia sul pargoletto, sicuramente, irrequieto), gli animali indifesi e torturati, e tutta la folla di diseredati che vagava nel sogno americano. Persino i maiali, giù giù fino agli scarafaggi (se cali nei panni di uno scarafaggio, t’affiora solidarietà per lo sgorbio nato con un destino davvero infame in questo caos del creato). Naturalmente ogni pagina tracima sesso. Non quello che nei romanzi diventa eros stucchevole, nemmeno quello davvero porno che, forse, s’aspettavano gli acquirenti delle riviste for men dove pubblicava per campare settimane alla grande. Perché Bukowski dettaglia gli umori sgradevoli dei nostri organi, piuttosto che tentare di spiegare cos’è il respiro dell’orgasmo. Corpi sfatti. Vissuti. Senza la carezza dei sentimenti. Sesso compulsivo, insensato, nemmeno piacevole. E anche di più, sesso orrendamente mostruoso. Un balordo confessa confuso lo stupro di una madre e la figlia di dieci anni. Oppure, l’amplesso con la moglie di un amico «che si fidava», la notte prima di andare ad abortire. Oppure, un’antropofoga che prima addolcisce un autostoppista con un giochetto erotico e poi lo scanna e se lo mangia insieme a due pazzi compari. Insomma, potrebbe giustamente sorridere qualcuno, che schifezza! Invece la storia cannibale era un fatto di cronaca (mentre il cinema scopriva la violenza al rallenty di Mucchio selvaggio ). E tutto l’osceno, il disgustoso, l’immorale, che Bukowksi inchiodava nelle frasi secche come tweet, non è pulp che si esalta nel pulp. Solo Polaroid di un pianeta sgangherato. Il coito così sgradevole e ossessivo e rozzo, in fondo, era anche un piccolo atto di guerra. Perché nell’America che illuminava di democrazia si finiva in galera per oscenità (capitava a chi pubblicava Bukowski). Bukowski provocava anche così. Si distruggeva un po’, cambiava il solito nastro, e si dedicava anima e fegato (cirrotico) alla scrittura, convinto che per essere il migliore scrittore al mondo serve soffrire nei bar, nelle strade, e nell’amore che non c’è, mica studiare, andare ai college, imparare la bella scrittura. Lui lavorava al mattatoio, alle poste, ogni tanto azzeccava il cavallo all’ippodromo, e sosteneva che la forma letteraria non deve addolcire l’inferno del vivere. Per un semplice motivo, «la pace, caro mio, non vende». Chiunque la vorrebbe, i pacifisti nella guerra fredda e l’homo sapiens in ogni giorno del calendario, in ufficio, nel cuore. Ma fin da piccoli cominciano a martellarci la testa con Beethoven, poi ci mandano a placcar gente in un campo di football, a figliare, lavorare, essere licenziati, a dribblare cancri, e «c’è sempre una mandria di cornuti pronti a squartarci in qualche vicolo, dove si radunano per dividersi bottiglie di vino». Insomma, mica facile. Meglio raccontare lo sconcio enigma del vivere. Da santo bevitore. Santo giocatore. Santo sporcaccione. Quasi quasi un bildungsroman. L’ho scoperto da ragazzo, e mi sembrava fosse così gemello di Nietzsche, che annunciava la morte di tanti dèi nel cielo della modernità. Era folgorante leggerlo. No so, tuttavia, se quella pace poi la dia.