MIRELLA APPIOTTI, Tuttolibri-La Stampa 14/4/2012, 14 aprile 2012
Le campane suonano per le “sepolte vive” - Sassi e tegole piovono sui muratori incaricati di rinforzare le mura del convento di Santa Cristina (Bologna, 1628) e, dalla finestra, «un grosso marmoro» ha come bersaglio la testa del notaio inviato dalle autorità: è la lotta «armata» delle promesse spose di Gesù contro l’inasprirsi della clausura postridentina
Le campane suonano per le “sepolte vive” - Sassi e tegole piovono sui muratori incaricati di rinforzare le mura del convento di Santa Cristina (Bologna, 1628) e, dalla finestra, «un grosso marmoro» ha come bersaglio la testa del notaio inviato dalle autorità: è la lotta «armata» delle promesse spose di Gesù contro l’inasprirsi della clausura postridentina. Un secolo e rotti più tardi, per la povera Suzanne Simonin chiusa nel monastero delle Clarisse a Longchamp, «furono suonate le campane affinché tutti sapessero che si stava creando un’infelice», ovvero la discesa agli inferi della piccola, intramontabile Religeuse di Diderot (usurpata poi dalla Rivoluzione). Del resto Lutero è un ex agostiniano sposato alla ex suora Caterina von Bora. A fronte di ribellioni, vere, sognate o cantate da secoli in ogni forma d’arte, nella grande «fiction», Dante e Manzoni, Boccaccio e Stendhal, Verga e Pascoli (Myricae «... queste bimbe, queste vergini...»), tra Abelardo e Eloisa e La monaca portoghese, nella splendida ricostruzione teatrale di Maricla Boggio, in realtà l’avventura della «monacazione» posa su consensi (ancor vivi, con o forse grazie a Internet), fortissimi all’epoca. Non solo nelle fughe notturne di superagiate e nobili ragazze «per cercare rifugio nel monastero» dai soprusi familiari, o nell’estremo gesto di buttarsi «nell’acqua bollente allo scopo di deturpare la propria apparenza e rendersi, così, poco appetibili sul mercato matrimoniale...» quando la fede viene contrastata o, più comunemente, lo sposo designato è vecchio e laido... Contro la «circoncisione dell’intelletto», Jacqueline Pascal, la sorella di Blaise, combatte a fianco della Mère Angélique e consorelle per la difesa di Port Royal; il dramma delle monache costrette, a metà ’500 dai seguaci delle 95 tesi di Wittenberg, a lasciare il convento violato, è tuttora vivido nella Petite Chronique di Jeanne de Jussie, badessa a Ginevra. Un panorama grandioso, tra enormi miserie (avvelenamenti, ricatti, autoflagellazioni oltre all’uso di sesso), che Silvia Evangelisti ridisegna nella sua Storia delle monache . La docente di Storia Moderna all’Università East Anglia prende in esame il periodo dal 1450 al 1700, in una prospettiva che indaga, con un più di passione attraverso la vita delle «sepolte vive» che non attraverso le opere largamente note delle appartenenti a comunità aperte, «la funzione sociale e politica dei conventi a partire dal tema specifico dell’espansione degli ordini religiosi e femminili dentro e fuori dell’Europa e nel nuovo mondo» (le missionarie, eroiche, da sempre): secoli cruciali per gli strumenti della religione, per l’affermarsi degli scismi, per l’influenza delle grandi mistiche. Di questa rivoluzione sotto spoglie reazionarie, una protagonista assoluta sarà Teresa d’Avila che «sposando» la sottomissione delle monache alla clausura, sposava «una missione ben precisa, secondo la quale la Chiesa cattolica se voleva la pace e tornare a essere unita, aveva bisogno delle donne e del loro contributo». A tal punto che il mondo del silenzio (non sempre così stretto, certe recluse di Strasburgo potevano parlare tra loro «in ore prestabilite, però in latino...») diventerà pressoché l’unica via aperta alle donne, pre e post Controriforma, per la costruzione di una propria identità. In alternativa al matrimonio, era il monastero a offrire buone se non ottime chances. Non si contano, infatti, in quei decenni le donne scrittrici: da Teresa a Maria Alacoque, altra celebrata mistica, a Fiammetta Frescobaldi, alla prolifica Tarabotti. E così musiciste, pittrici, sponsor (la magnifica «Camera di San Paolo» del Correggio a Parma). Assecondate dalle famiglie per ragioni di immagine e di prestigio, in specie di moneta (essendo anche tre volte meno costosa la dote per una monaca di quella per una ragazza da marito: sicché a Firenze, tra ’500 e ’700, il 46% delle figlie dell’élite prende i voti) e, molto, di politica. Le donne in Cristo sono state determinanti intermediarie con i poteri, al tempo, davvero «forti» (a Madrid le rampolle Asburgo dal convento delle Descalzes Reales «negoziavano questioni di primaria importanza»), occupandosi del pari delle faccende di casta, al di là e al di qua delle mura, entro le quali soltanto il Vaticano II riuscirà a far saltare, dopo oltre cinque secoli, la ferrea gerarchia tra monache coriste e monache converse. Al contrario, da allora, contro il maschilismo ecclesiastico, ben poco ha potuto la mai spenta «querelle des femmes»: il «contributo delle religiose a una tradizione intellettuale il cui sviluppo si collega al pensiero femminista moderno». Perché, parafrasando Luisa Muraro, «il Dio era ed è delle donne».