Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 15 Domenica calendario

LE RIVISTE PER SOLI... RICCHI

Si chiamano "riviste accademiche" quelle riviste che non si trovano né in edicola né in libreria ma soltanto nelle biblioteche delle università, riviste in cui i docenti universitari e i loro allievi pubblicano saggi intorno agli argomenti dei quali si occupano professionalmente. Saggi con titoli come Croce interprete della politica della ragion di stato o Due poesie probabilmente duecentesche nel codice Mezzabarba. Quello che vale per il settore umanistico vale anche per quello scientifico, solo che di solito i saggi accademici di matematica, fisica, biologia sono scritti in inglese.
Questi saggi sono il frutto della famosa e necessarissima "ricerca scientifica", e non vengono pagati. La rivista «Medioevo Romanzo», su cui ho pubblicato Due poesie probabilmente duecentesche nel codice Mezzabarba, non mi ha dato una lira, ma quel saggio corrisponde a un "titolo", che potrò presentare ai concorsi che decidono gli avanzamenti di carriera. Non guadagno niente io ma non guadagna niente nemmeno l’editore della rivista, o guadagna poco. Di solito si tratta di pubblicazioni finanziate da fondazioni, università, accademie, e soprattutto da editori che stampano riviste accademiche più per ragioni di prestigio che per un reale guadagno: non credo proprio che Olschki faccia molti soldi coi 15 euro a fascicolo dell’ottimo Belfagor, o che al Mulino si arricchiscano coi 28 euro a fascicolo dell’ottima Lingua e stile.
Quello che ho appena descritto era però il mondo di ieri. Quello di oggi è in parte cambiato. Nel mondo di oggi (diciamo da una quindicina di anni a questa parte) le riviste sono diventate, per alcuni editori, un ottimo affare, perché in tutto il mondo è cresciuto enormemente il numero delle persone interessate all’editoria accademica, soprattutto nelle discipline scientifiche: ci sono molti più studiosi che leggono, e molti più studiosi che scrivono. E dato che tutti i biologi del mondo devono, per esempio, aggiornarsi su «Nature», così come tutti i matematici del mondo devono aggiornarsi su «Inventiones Mathematicae», i loro dipartimenti non possono non abbonarsi a quelle riviste. Ciò dà agli editori di riviste un potere contrattuale soverchiante: se il prezzo di «Nature» raddoppia dall’oggi al domani, non c’è scelta se non pagare, sperando che non quadruplichi dopodomani.
Qualche anno fa ci s’illuse che l’online avrebbe cambiato le cose. La possibilità di disfarsi della carta, di pubblicare in formato elettronico, avrebbe dovuto – così si sperava – abbattere i costi. È successo esattamente il contrario. È successo che due o tre grandi editori oligopolisti tedeschi e americani hanno raggruppato le centinaia di riviste di cui posseggono il marchio in pacchetti online non spacchettabili (ci si può, sì, abbonare a una o a dieci riviste del pacchetto: ma il costo finisce per essere superiore a quello dell’intero pacchetto) e hanno deciso, decidono ogni anno di alzare i prezzi in percentuali molto, molto superiori a quella dell’inflazione. Di questo sconcio si è occupato l’anno scorso George Monbiot sul Guardian con un articolo dal titolo eloquente: Gli editori accademici fanno sembrare Murdoch un socialista. Occhiello: «Gli editori accademici fanno pagare prezzi altissimi per accedere a ricerche pagate da noi. Basta con il racket dei monopoli del sapere» (29 agosto 2011). E ora, grazie all’impulso del matematico di Cambridge Tim Gowers, il sito www.thecostofknowledge.com sta raccogliendo firme tra gli scienziati di tutto il mondo per protestare contro uno di questi editori monopolisti, Elsevier.
E in Italia? In Italia non esistono editori accademici grandi come Springer o Elsevier o Blackwell, editori che pubblichino riviste che hanno diffusione mondiale come «Nature» o «Science»: la scienza non parla italiano. Invece le discipline umanistiche parlano (anche) italiano, e qui si osservano cose strane. Ci sono riviste di studi classici come «Maia», che costano 65 euro (tre numeri annui). E c’è una rivista come «Quaderni urbinati di cultura classica» che ne costa 845 (tre numeri annui). C’è una rivista come «Quaderni di storia» che costa 30 euro (due numeri annui). E c’è una rivista come «Storiografia» che costa 645 euro (un numero annuo). Di questa sproporzione (tra riviste che hanno, devo precisarlo, grosso modo pari dignità scientifica) ho dovuto accorgermi un paio d’anni fa, come delegato di facoltà nel consiglio di biblioteca dell’Università di Trento. Da un successivo controllo ho potuto constatare che le riviste accademiche più costose sono quelle pubblicate dall’editore Fabrizio Serra, e che più costose significa che le riviste di Serra hanno prezzi anche dieci volte più alti di quelli delle altre riviste di settore, e che alcune di esse sono aumentate, nell’ultimo decennio, anche del 1.000 per cento. Per fare un esempio, il prezzo per le biblioteche della rivista «Studi novecenteschi» è passato dai già esorbitanti 495 euro del 2008 a 595 euro (2009), a 745 euro (2010), a 795 euro (2011), a 845 euro (2012). Dato che si tratta di una rivista semestrale, ciò equivale a un prezzo di 422,50 euro per volume, cioè a circa 815 mila delle vecchie lire per circa 300 pagine scritte larghe: un euro e quaranta a facciata.
Non può sorprendere, allora, il fatto che le riviste dell’editore Serra siano ormai decine e decine, e che quasi ogni settimana ne nasca una nuova: «Il viaggio e la scrittura», «Letteratura e dialetti», «Letteratura e Letterature», «Pirandelliana», «Psicanalisi corporea», «Studi pasoliniani», «Tipofilologia», e via dicendo. A fronte di costi piuttosto contenuti (i saggi che finiscono sulle riviste accademiche, ripeto, non vengono pagati), ogni nuova rivista – dato che molte biblioteche, nel mondo, comprano in automatico – può garantire un eccellente guadagno, specie se i prezzi sono quelli, a dir poco sconcertanti, visti sopra.
Ho documentato tutto questo sulla «Rivista dei Libri» del febbraio 2010 (www.larivistadeilibri.it/2010/02/giunta.html), e alcune biblioteche universitarie, messe sull’avviso, hanno sospeso gli abbonamenti. Indipendentemente da me, i bibliotecari del Warburg Institute e quelli della Roman Society dell’Università di Londra sono giunti alla stessa conclusione, rinunciando alle riviste di antichistica dell’editore Serra (il quale frattanto, come Elsevier e Springer, ha varato suoi propri "pacchetti online"): «This year it was necessary to discontinue three titles – "Musiva & Sectilia", "Orizzonti", and "Workshop di Archeologia Classica" – purely by reason of huge price increases which put them beyond our reach. All three issues from the same publisher, Fabrizio Serra, with whom other libraries, the Warburg, have experienced the same difficulty» (Annual Report 2009 della Roman Society, pag. 7).
Ma tanti altri non si sono ancora accorti di niente. E sembra che anche i direttori di queste riviste, i miei colleghi docenti universitari, non si siano accorti di niente. Chissà per esempio se il direttore di «Studi veneziani», che non conosco, si è reso conto del fatto che un fascicolo della sua rivista costa – come si può vedere nel sito dell’editore Serra, verificato il 12 aprile 2012 – 2.190 euro (che però diventano 3.695 con «accesso online Plus tramite Ip»)?
E perché, direte voi, il lettore del Sole 24 Ore, o anche il non-lettore del Sole 24 Ore, perché l’italiano medio dovrebbe impiegare quindici minuti del suo tempo per riflettere sulle imprese degli editori accademici? Perché, dato che il costo degli abbonamenti cade per la quasi totalità sulle biblioteche universitarie, e dato che le università italiane sono quasi tutte pubbliche, gli 845 euro di «Studi novecenteschi» vengono dalle sue tasche.