Dario Pappalardo, la Repubblica 15/4/2012, 15 aprile 2012
IL CODICE MIRO’
La mia coloratissima fuga dal mondo
Il Codice Miró è "nascosto" a Barcellona. Quindicimila segni, tracciati sui manoscritti conservati dalla Fondazione che porta il nome dell’artista catalano. Quando, nel 1975, Joan li consegna a futura memoria - morirà il giorno di Natale del 1983,a novant’anni- dice: «Mi sento denudato».
Perché con quell’alfabeto segreto, con quell’ordito di simboli ogni volta ricombinati, aveva composto più di mezzo secolo di opere: dipinti, ma anche schizzi su carta straccia, carta igienica, fogli d’occasione. In pochi, attraversando una sua mostra (è ancora in corso a Roma quella nel Chiostro del Bramante), ci fanno davvero caso. Ma i "miroglifici" - il neologismo è di Raymond Queneau, 1949 - sono una via di fuga nascosta ma precisa, la rappresentazione di un mondo diverso in una lingua nuova, fatta di colore.
A classificare questa scrittura pittorica oggi è Tiziana Migliore, che insegna Letteratura artistica all’Università Iuav di Venezia. Nel saggio Miroglifici. Figura e scrittura in Joan Miró (pubblicato da et al./ Edizioni), ripartendo dalla definizione di Queneau, mette a punto uno studio filologico rigoroso che smentisce molti luoghi comuni legati al maestro del Novecento. Primo fra tutti quello del "pittore bambino" davanti al quale bisogna abbandonarsi senza fare domande per sperimentare emozioni primitive. «Ho esaminato da un punto di vista semiotico i disegni di Miró - spiega Migliore - e mi sono imbattuta in regole esatte, segni ricorrenti, serie organizzate in 5+5, che formano come una lingua, una grammatica, una sintassi». Ne è seguita una catalogazione dei simboli principali dell’alfabeto mironiano. Di ognuno viene tracciata la storia,a partire dalla prima comparsa sulla carta o sulla tela.
«C’è una missione politica spesso sottovalutata in questo repertorio», dice la studiosa. Perché il Codice Miró prende forma in un momento cruciale della storia del secolo breve. Agosto 1939: l’Europa è alla vigilia della guerra. L’artista ha lasciato Parigi, dove si era trasferito in esilio volontario dopo l’ascesa al potere, in Spagna, di Francisco Franco. Prende in affitto con la moglie Pilar e la figlia María Dolores una tipica casetta normanna a Varengeville-sur-Mer. I vicini sono il pittore Georges Braque, l’architetto americano Paul Nelsone Raymond Queneau. In un clima di angoscia, ma anche di confronto con vecchi amici, matura una fase poetica decisiva. Più tardi, lo stesso Miró la ricorderà nell’intervista con James Johnson Sweeney: «Iniziò una nuova tappa della mia opera, che ebbe origine dalla musica e dalla natura. È più o meno in quel momento che la guerra scoppiò. Io sentivo un profondo desiderio di evasione.
Mi chiusi in me stesso di proposito. La notte, la musica e le stelle cominciarono a giocare un ruolo maggiore nella suggestione dei miei quadri».
È da qui che l’artista organizza il dizionario simbolico che Migliore nel suo libro divide in figure primigenie organiche e figure primigenie cosmiche. Alla prima categoria appartengono il sole, la luna, l’uccello, la stella. Alla seconda l’occhio, il cuore, il piede, la mano, il seno, gli organi genitali maschili e femminili. Sono segni che di realistico hanno poco: il corpo della donna è ridotto a uno schema geometrico. Miró perfeziona i simboli anno dopo anno, di foglio in foglio, di tela in tela. Un’opera come Donna che sogna l’evasione (1945) ne contiene già molti. «Ma le pitture per lui sono un risultato provvisorio - dice Migliore - Il disegno, invece, è come un corpo vivo su cui sperimentare. Miró riproduce lo stesso tipo di disegno su formati diversi. Lascia le sue annotazioni sotto i simboli, sugli schizzi, sugli abbozzi.
Torna su un motivo per rivederlo, definirlo meglio nel remake. Studia i rapporti tra i segni, che sono sempre interattivi tra loro. Fonda una lingua che per lui significa soprattutto una possibilità di sopravvivere ai disastri della guerra».
Miró non è un artista da Guernica. Non rappresenta il mondo, ma un’alternativa al mondo, alla «guerra balorda». L’evasione diventa da ora in poi il concetto chiave. La cifra di un intero percorso. E la «scala dell’evasione» è la figura che sintetizza il desiderio di fuga dall’Europa in fiamme. Dopo la Normandia, con i tedeschi che premono, il nuovo esilio è Maiorca. Il pittore si porta dietro la sua scala. Che è poi la stessa, riveduta e corretta, che già dipingeva, a pioli, nella Fattoria, il quadro acquistato nel 1925 da Ernest Hemingway e ora alla National Gallery di Washington. La scala torna in tutti gli anni Venti e Trenta: negli autoritratti, nei nudi di donna, persino nel Cane che abbaia alla luna del Museo di Philadelphia. Ma diventa "ufficialmente" miroglifico nel 1940. Allora Miró le dedica un dipinto che la battezza definitivamente e la investe di senso. La scala dell’evasione, esposto al MoMA di New York, è un universo di neri e di rossi, dove la scala, una rete bicolore, diviene il tramite tra le figure organiche e quelle cosmiche.
Scrive l’artista in Lavoro come un giardiniere (1959): «Sono di indole tragica e taciturna. Nella mia giovinezza ho conosciuto periodi di profonda tristezza. Ora sono abbastanza equilibrato, ma tutto mi disgusta: la vita mi sembra assurda. Non è il ragionamento a mostrarmela tale; la sento così, sono pessimista: penso che tutto debba sempre volgere al peggio». Cosa c’è di meglio, allora, di una scala su cui salire per dimenticare tutto e di un codice segreto per ridisegnare il mondo?