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 2012  aprile 15 Domenica calendario

"Se non soffro non posso cantare" – Placido Domingo ha un appetito insaziabile. Di esprimersi, cantare, evocare

"Se non soffro non posso cantare" – Placido Domingo ha un appetito insaziabile. Di esprimersi, cantare, evocare. Di tuffarsi in ogni ruolo con la tenacia di un toro nell’arena. Di struggersi come Cyrano, fremere di passione distruttiva come Don José, perdersi in sortilegi iniziatici come Parsifal. È famelico di applausi, scoperte, palcoscenico, e la fame non si placa negli anni. Secondo una certa perfida nomea, il tenore è un essere tronfio, immoto, colmo di sé e ignaro di tutto. Domingo è altro: fascinoso, geniale, articolato, musicista nell’anima e conscio della sua voce duttile e splendente. Come la Callas, è destinato a incarnare una leggenda. E dopo la scomparsa di Pavarotti, e l’uscita dalle scene della lirica di Carreras, è lui il massimo tenore in circolazione (che di recente ha cominciato ad aggiungere ruoli di baritono al suo sterminato repertorio). Placido lo sa. Capisce quanto vale. Non ha tempo per i giornalisti, e a volte neppure per dormire: «La gente si stupisce perché posso provare in palcoscenico a New York la mattina, dopo aver viaggiato da Los Angeles passando la notte in bianco. Può succedermi, forse, una volta a settimana. Ma cantando non mi accorgo della stanchezza. Per questo ho fatto tanto». Quanto? «Centotrentotto ruoli. Un primato da Guinness». E non è l’unico. Nel 2010, a Madrid, per Simon Boccanegra, Domingo ha battuto ogni record di applausi: quarantacinque minuti. Ride, stringendo gli occhi di velluto. Siamo a New York, dove c’è la casa in cui abita con sua moglie quando non viaggiano per il mondo, cioè quasi sempre: «Qui vivono anche due dei miei tre figli, che mi hanno dato otto nipotini». La Metropolitan Opera ci ha messo a disposizione un salotto, dove ogni tanto s’affaccia qualcuno per chiedergli se sta sopravvivendo all’intervista. Domingo, in via del tutto eccezionale, si è ritagliato una fetta di pomeriggio per quest’incontro, mentre un’elettrica primavera newyorchese preme là di fuori. (segue dalla copertina) Maestro: ci sono ancora tenori col suo c a r i s m a ? «È il pubblico a decidere. A un tratto ti sistema su un piedistallo. Ti segue, ti acclama, si mette in fila per sentirti cantare. Oggi ci sono tanti tenori bravi: Villazon, Grigolo, Alvarez, Secco, Filianoti, Cura, Alagna, Kaufmann, Vargas... Ho detto a caso, forse dimentico qualcuno. Comunque spetta solo al pubblico incoronare le star. È una faccenda misteriosa». A proposito di misteri. Lei ha festeggiato l’anno scorso i settant’anni, ma c’è chi dice che ne abbia qualcuno in più... «Questa storia dell’età è ridicola. Chi non ci crede, per favore, controlli i certificati. Io sono nato nel 1941. A Madrid. Calle Ibiza 34. I miei genitori lavoravano in una compagnia di Zarzuela, forma originaria del teatro musicale spagnolo, una specie di operetta. Da piccolo, nelle produzioni, cantavo ruoli di bambino; c’erano due rappresentazioni al giorno, e la domenica anche tre. Di sera, finito lo spettacolo, si provava per l’indomani». Prendeva la cosa sul serio? «Era un modo per stare in famiglia. Io volevo fare il torero, e a questo scopo prendevo lezioni. Ma quello delle corride è un mondo per cui bisogna essere nati. E poi tutti i ragazzini spagnoli vogliono diventare toreri. O calciatori o toreri». Quando capì che il canto sarebbe stato il suo mestiere? «Avevo poco meno di otto anni quando partimmo per un tour oltreoceano, salpando da Bilbao e arrivando in Messico, dove i miei decisero di stabilirsi. Allenavo la voce tutti i giorni e intanto prendevo lezioni di pianoforte e armonia al Conservatorio di Città del Messico. Presi a fare sul serio, fino a imbarcarmi in un apprendistato all’Opera di Tel Aviv, dove cantai duecentottanta recite di dodici opere tra il 1962 e il 1965, pagato l’equivalente di trecento dollari al mese. Con me c’era mia moglie, Marta Ornelas, sposata dopo un primo matrimonio contratto quando avevo sedici anni, da cui era nato il mio primo figlio. Poi con Marta ho avuto altri due maschi. Donna intensa e musicista raffinata, è la regista della mia vita. Ha un orecchio proverbiale: non le sfugge un errore, né la minima deviazione di tempo, né un ritardo nell’attacco quando dirigo. Oggi, alle recite come cantante - ne faccio una cinquantina all’anno, tra opere e concerti - alterno la direzione orchestrale». Qual è il suo personaggio d’elezione? «Da vero latino amo con la stessa passione tutti i miei figli e i ruoli sono come figli. Diciamo che c’è una serie di opere che mi stanno particolarmente a cuore: Otello, Andrea Chénier, Manon Lescaut, La Valchiria, Un ballo in maschera, Carmen, La Dama di Picche, Tosca ...». Prendiamo il Cavaradossi di Tosca: come lo affronta? «Di solito lo si presenta come un bellone senza piglio. Ma il fatto che Tosca uccida Scarpia in modo temerario non vuol dire che Cavaradossi sia un inerme. Piuttosto è un rivoluzionario coinvolto in prospettive di pensiero voltairiane che vive pericolosamente i suoi ideali. Il suo comportamento deve tradurre questa forza». E Otello? Il suo mitico Otello? «Quando lo feci per la prima volta ad Amburgo, qualche saccente disse che mi avrebbe rovinato. Avevo trentaquattro anni: pochi per un ruolo così pesante. Al debutto ci furono cinquantotto chiamate alla ribalta. Oggi, dopo averlo cantato centinaia di volte, posso testimoniare che la mia salute vocale non ne ha risentito. Certo è arduo: la tessitura è impervia, sono numerosi i passaggi esposti, richiede potenza e dolcezza... Esige un controllo pazzesco della voce, oltre a una gran resistenza fisica ed emotiva». Partecipa ogni volta? Si commuove? «Non solo partecipo, ma soffro. Più un personaggio prova dolore e meglio canto. Spesso le opere sono percorse da emozioni estreme. Si fondono amore e tragedia, e questa combinazione mi spinge a trovare il punto più intimo dei personaggi». Non crede che molti libretti siano rozzi? «Alcuni testi sono primitivi, ma ciò non toglie profondità al capolavoro lirico. Che va valorizzato immettendo nel loro tempo campioni archetipici quali Hoffmann, Des Grieux, Canio, Sansone, Siegmund... Devono essere resi credibili nell’oggi. Quando canti Romeo devi camminare come nel Rinascimento: con lievità, quasi fluttuando. E se diventi Otello devi prendere il tuo spazio come una pantera». La crisi economica pesa sul mondo della lirica? «Molto, soprattutto in Italia, dove attualmente ho impegni con l’Arena di Verona, teatro a cui sono legatissimo. In estate vi dirigerò Aida, e nel 2013 sarò direttore artistico del Festival del Centenario, che si chiama così perché l’anno prossimo cadrà un secolo dall’inizio delle stagioni liriche in Arena. Qui negli Stati Uniti le cose vanno meglio, ma i problemi non mancano. Da dodici anni sono direttore dell’Opera di Los Angeles, e se prima potevamo fare nove produzioni all’anno, ora ne programmiamo sei. D’altra parte la lirica è il genere di spettacolo dal vivo che costa di più. E del resto, se la cultura è importantissima, è evidente che la salute e la fame vengono prima». Lei, con Luciano Pavarotti e José Carreras, lanciò negli anni Novanta i concerti dei Tre Tenori, acclamati da un pubblico gigantesco. Quel periodo le manca? «Mi manca terribilmente Luciano. Mi mancano i momenti di relax: le cene dopo i concerti, le partite a poker negli hotel, le chiacchierate per stabilire i programmi. In quegli anni, fra noi tre, fiorì un’amicizia speciale. Ognuno aveva alle spalle più di venticinque anni di carriera, migliaia di recite e un’immensa popolarità, eppure non c’era competizione e ci univa una complicità sorprendente. Sapevamo di essere un fenomeno che stava portando a milioni di persone la bellezza della lirica. Oggi mi piace sentir cantare i ragazzi de "Il Volo", li conosce? Un mio nipotino fa il verso a uno dei tre, Piero Barone, mettendosi occhiali e cravatta. Sono tre giovanissimi lanciati da Tony Renis che hanno un successo travolgente qui in America. Cantano O’ sole mio, Mamma, Passione, Cuore ingrato, Funiculì Funicolà, Torna a Surriento... Come i Tre Tenori. È una specie di grandiosa educazione musicale che non va presa sottogamba: il mondo deve conoscere questi gioielli». Cos’è fondamentale per un grande tenore? «Vuole la verità? Molta fortuna e una salute di ferro. Due anni fa ho avuto un brutto male e mi sono operato qui a New York. Cinque settimane dopo cantavo alla Scala».