Piero Colaprico, la Repubblica 15/4/2012, 15 aprile 2012
QUEI MISTERI D’ITALIA
«NON fu», è questa l’amara cantilena delle stragi italiane. Non fu Freda e non fu Ventura, per la banca dell’agricoltura in piazza Fontana, 1969, 12 dicembre, la «madre» di tutte le violenze di Stato e Antistato. «Non fu» nemmeno il loro fedele Delfo Zorzi, camerata trapiantato in Giappone, rintracciato anni dopo. NUOVI indizi portavano a Zorzi, ma per sentenza il nazista della provincia veneta diventato Hagen Roi, «non fu». Non c’entra né con Milano, anche se erano stati i suoi camerati Freda e Ventura a ordinare, comprare, smistare i timer, a comprare proprio quel modello di valigia, ma non basta. E «non fu» Zorzi nemmeno per la strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio del 1974, così ieriè stato ripetuto alla fine del processo d’appello. In queste due città, 25 morti e 192 feriti.
«Non fu» Mario Tuti, fascista e assassino di carabinieri, il mandante dell’ordigno sull’Italicus, il4 agosto 1974, 12 morti, 48 feriti. Come «non fu» Luciano Franci a fare da palo alla stazione di Santa Maria Novella, «non fu» Piero Malentacchi a confezionare la bomba. Il perenne «non fu» spunta cupo dopo varie tonnellate di carte scritte a mano, a macchina, a macchina elettronica, infine a computer. Archeologia di verbali e chiavette usb.
Con dentro migliaia di testimonianze che significano persone che parlano, ricordano, piangono, si portano dietro il male subito, o nascosto, o fatto. Il «non fu» viene stabilito dopo interrogatori di chi non ricorda, balbetta, imbroglia: e quasi rimpiangi, quando li senti, che tu sia parente, che tu sia pubblico, i cardini dello Stato democratico, quel «meglio dieci colpevoli liberi che un innocente in galera». Eppure, stringendo i denti, è a questo che le associazioni delle vittime si aggrappano: alla possibile verità nella legalità. È nella verità e nella legalità, in fondo nella giustizia, che sperano sempre, mentre si va moltiplicando via Internet il buio delle sentenze in contraddizione, delle invettive e delle ipotesi balorde. Le stragi, più che di nebbia, sanno di labirinto: l’abbiamo esplorato tante volte, riuscendo a scorgere sempre qualche cosa, ma è solo l’ombra nera del Minotauro, e non entra nell’identikit.
C’è chi, in passato, ha gettato la croce sugli inquirenti. Negli anni ’70 e ’80, mentre per il terrorismo rosso che sparava alla classe dirigente sono stati impiegati in forze i migliori magistrati e investigatori, a cercare di raccapezzarsi nelle nefandezze di terrorismo nero e possibili golpe sono stati lasciati - si diceva - quelli che c’erano. E uno di questi solitari, che cercava i fili scoperti di Ordine Nuovo, è stato ammazzato nel 1980: il giudice Mario Amato. Vera o falsa che sia questa lettura, negli ultimi anni, con la politica spesso più assente e lontana, è stata però la magistratura a «resistere», a cercare.
Il bilancio, però, resta scarso. Anzi, se osserviamo da vicino tutte le stragi, sapendo quello che sappiamo, la piena verità c’è solo in una. È quella del 17 maggio 1973 davanti alla questura milanese. Veniva commemorato il commissario Luigi Calabresi, ucciso sotto casa un anno prima. Viene lanciata una bomba, l’obiettivo è l’allora ministro dell’Interno Mariano Rumor, invece muoiono dilaniate quattro persone, cinquantadue i feriti.
L’autore resta lì: è Gianfranco Bertoli. Un anarchico, si definisce.È anche informatore dei servizi segreti Side Sifar, vivrà una vita da ergastolano senza aggiungere mezza parola al gesto, a come s’è procurato la bomba, ma è stato lui.
Esistono poi stragi con sentenze di colpevolezza passata in giudicato: Giusva Fioravanti e Valeria Mambro sono ritenuti i responsabili della strage più sanguinosa, quella del2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti e 200 feriti. I parenti delle vittime sono d’accordo con i giudici, sanno però che questa decisione non soddisfa tutti gli esperti: anzi, per alcuni, la potentissima bomba messa nella sala d’aspetto è in qualche modo legata a un altro mistero italiano, alla precedente strage di Ustica.
Era il 20 giugno, quando un Dc 9 Itavia scoppia e precipita. Molto probabilmente per causa di un missile francese che, su mandato americano, cercava di colpire l’aereo sul quale viaggiava il nemico di sempre, il libico Muhammar Gheddafi. Anche qui lunghe, difficilissime indagini, colpevoli zero: con non pochi dipendenti dell’Aeronautica militare, alcuni di servizio ai radar, che muoiono per suicidi dubbi e incidenti sospetti.
Anche l’ultima strage - l’ultima prima delle autobombe piazzate senza dubbio dalla mafia del ’93 - è circondata dall’ambiguità. È la strage di Natale del 1984: il 23 dicembre, il treno Napoli-Milano-Brennero scoppia in galleria a San Benedetto Val Di Sambro, 16 morti, 117 feriti. Due le condanne principali, riguardano i mafiosi Pippo Calò e Guido Cercola, ossia il cassiere dei corleonesie un picciotto che sarà trovato in cella con i lacci delle scarpe stretti intorno al collo. Nonostante le indagini capillari, «non fu» condannato un possibile complice fascista, ritenuto l’anello di congiunzione tra criminali organizzati e altri «ambienti», altri stragisti.
Qualche giorno dopo le vetture sventrate, i bambini feriti lungoi binari, si conta un’altra vittima. Uno dei primi soccorritori, il vice-ispettore della Polfer, è sotto shock. Si punta la pistola alla tempia e si uccide. Ha lasciato un biglietto: «Questa è una società maledetta». È una frase che risuona ancora, quando si parla tra chi ha perso i suoi cari: «I nostri morti - si sente ripetere - vagano e non trovano un posto dove stare in pace con noi che li piangiamo». Una memoria annaffiata dalle lacrime, questo ci resta dopo i troppi «non fu»?