Gianni Marsilli, il Fatto Quotidiano 15/4/2012;, 15 aprile 2012
LA FRANCIA AL VOTO PARLA D’ALTRO
Parigi
FINALMENTE al dunque, domenica 22 aprile. Si andrà al primo turno, quello nel quale si sceglie uno tra i dieci concorrenti. Seguiranno ancora due settimane di campagna, e il 6 maggio sarà il giorno fatidico per eliminare uno dei due finalisti. È la logica – pulita, assai inequivocabile – del maggioritario a due turni. Tra i dieci, già primeggiano i due che sopravviveranno. Ci vorrebbe un vero terremoto, nelle dimensioni e nell’imprevedibilità, perché non siano Nicolas Sarkozy e François Hollande. Il bonapartista e il socialdemocratico. L’uomo tutto truppe e muscoli che vive l’immediato e l’altro più riflessivo, disperatamente ma coerentemente razionale. I sondaggi d’opinione – l’ultimo in particolare, di Csa – dicono che Hollande ha ripreso un po’ di colore, dopo una lunga impasse invernale: vanta un punto di vantaggio al primo turno (27% contro il 26 per Sarkozy), e vince al secondo con un sonante 57 a 43%. Ambedue potrebbero avere qualche pretesa in più al primo turno, se non subissero l’uno la concorrenza di Jean Luc Melenchon (17% secondo Csa), l’altro di Marine Le Pen (15%). Questi ultimi corrono già, più che per l’Eliseo, per le legislative di giugno: contano di mandare truppe consistenti all’Assemblea nazionale.
È nozione piuttosto comune che questa campagna elettorale sia stata assai fatua e ipocrita, nella misura in cui si è preferito discutere della macellazione halal e della riforma della patente piuttosto che della crisi economica. Lo dicono un po’ tutti gli osservatori e analisti francesi, ed è solo per orgoglio nazionale che si son sentiti offesi dalla copertina dell’Economist: Hollande e Sarkozy mollemente adagiati sul prato di un “Dejeuner sur l’herbe”, gaudiosi e dimentichi di debito e deficit. L’Economist? “Che la smetta, è solo la Pravda del capitalismo”, ha replicato per tutti Laurent Joffrin, direttore del Nouvel Observateur. Vero è che nei programmi dei due la crisi non è del tutto assente, ed è anche vero che i rimedi proposti non si assomigliano affatto. Prendiamo la questione del deficit. Il socialista Hollande lo vuol ridurre attraverso una riforma fiscale, in sostanza facendo pagare più tasse ai più ricchi, e arrivare al virtuoso pareggio non prima del 2017. Il bonapartista Sarkozy intende invece ottenere lo stesso risultato limitando la spesa pubblica, e si è dato come scadenza il 2016. Si potrebbe dire che se la prendono un po’ comoda, visto che il deficit nel 2011 è stato del 5,2 (3,8 quello italiano, per capirsi). Benché alla Francia siano di conforto una crescita dell’1,7 e la natalità più vivace d’Europa (più di due figli per coppia), a noi è sembrato che l’Economist non avesse tutti i torti. Non abbiamo sentito discutere delle condizioni molto precarie della competitività francese: il deficit commerciale è di 70 miliardi di euro (di 23 quello italiano). Da arrossire se si guarda oltre Reno, dove l’eccedente sfiora i 200 miliardi. Si produce poco, e l’export soffre come un cane. Non ci è giunta neanche l’eco di aspre discussioni sulle condizioni delle banlieue, e sul fallimento storico rappresentato dalla non integrazione nel mondo del lavoro dei figli di seconda o terza generazione di immigrati. Ancor più assente il tema dell’Europa e del suo destino comunitario: Hollande e Sarkozy hanno preso atto della paralisi politica, gli altri sparano a palle incatenate sui misfatti di Bruxelles . Tutti, infine, sembrano avere un nemico comune: il liberismo anglosassone. Niente da fare, né destra né sinistra ne vogliono sapere. Sarkozy potrà forse limitare un po’ più di Hollande il ruolo esorbitante dello Stato, ma il servizio pubblico e la nozione di “egalité” restano ben saldi nel corpaccione del paese.
Più che mai, quest’elezione è stata una faccenda di personalità e di scontri diretti. Non solo tra Hollande e Sarkozy, il cui conflitto culminerà nel tradizionale duello televisivo tra i due turni. Anche tra Melenchon e Marine Le Pen, concorrenti per il terzo posto. E persino, in modo molto più flautato, tra la première dame Carla Bruni e l’aspirante allo stesso ruolo Valerie Trierweiler. Gianni Marsilli • NICOLAS SARKOZY - L’IPERCINETICO “LEADER DELLA PROVVIDENZA” - La France forte” è il suo slogan, l’intimidazione è la sua tattica. Saltella sul ring elettorale, mostra i muscoli, irride l’avversario che da qualche settimana alza i toni: “Se continua a spolmonarsi così gli andrà via la voce!”. Oppure mette in guardia i francesi, presagendo tempesta: “Hollande al potere porterebbe a una catastrofica crisi di fiducia, che metterebbe la Francia in ginocchio”. Si vuole spesso comparativo: “Non vogliamo cadere nella spirale che ha travolto altri paesi europei”. Allude: “L’unico capo di governo straniero che ha incontrato Hollande è Zapatero, che ha guidato la Spagna per sette anni...”. Ricorda i precedenti della gauche al potere: “Avverto a sinistra soffiare lo spirito dell’81 (quando vinse Mitterrand alleato con i comunisti, ndr). All’epoca ci vollero due anni perché tutto finisse (finanze pubbliche al collasso, austerity obbligata, ndr). Oggi basterebbero due giorni”. Il messaggio elettorale di Nicolas Sarkozy non è complicato: il mondo è flagellato dalla crisi, quindi la Francia ha bisogno di un nocchiero sperimentato. In pubblico non offende l’avversario, in privato indulge in aggettivi ben più pesanti: Hollande è “fiacco”, “molle”, “nullo”. Ma il privato è molto relativo, tutti sanno che con Sarkozy le confidenze “off” non esistono, hanno sempre un destinatario, e infatti diventano puntualmente pubbliche. Vuole ben due dibattiti testa a testa: “Lo faccio esplodere in volo”, “lo polverizzo”, “lo distruggo”. Mitterrand era altero, Chirac accattivante, Sarkozy è pugilistico. Appare in forma, appagato dai nuovi affetti familiari, più sorridente di cinque anni fa. Partecipa anche lui al tiro a segno sull’Europa e i suoi misfatti, ma non troppo: dopo la richiesta di revisione degli accordi di Schengen non ha insistito. Sul piano interno, ovviamente considera la Repubblica presidenziale come il migliore dei sistemi, e non avverte alcun bisogno di riforme istituzionali e tantomeno della VI Repubblica che altri invocano. L’anno per lui era cominciato malissimo, ai minimi storici per un presidente in carica. Tre mesi dopo caracolla in testa assieme al suo principale avversario, ambedue attorno al 30 per cento di potenziali consensi al primo turno. Ma sul secondo turno pesano ancora i cinque anni da presidente, carica per la quale la maggioranza dei francesi, fino a oggi, l’ha considerato inadeguato se non indegno. L’antisarkozismo, insomma, ha messo radici robuste, difficili da strappare in qualche settimana di campagna elettorale. G. M. • FRANÇOIS HOLLANDE - IL BUROCRATE PROMETTE IL CAMBIAMENTO - Ancora tre mesi fa metteva in guardia contro i pericoli dell’“antisarkozysmo”. Non voleva che questo diventasse il suo unico e soffocante orizzonte politico. François Hollande si voleva un candidato “normale”, con il suo bravo e sensato programma da opporre allo psicomotricismo fisico e politico dell’altro. Pensava che i francesi, stressati dai tic e dalle spacconate presidenziali, l’avrebbero accolto con un grande sospiro di sollievo. All’inizio ha funzionato: fino a febbraio nella corsa all’Eliseo c’era un solo uomo al comando, lui. Poi sono accadute due cose. La prima: Sarkozy da presidente si è fatto candidato, che è l’unico abito che gli va come un guanto. La seconda: a sinistra è nata una stella, Jean Luc Melenchon, che ha cominciato a brucare con grande appetito l’erba socialista. François Hollande ha dovuto quindi correggere rotta e stile. Oggi bastona Sarkozy ogni volta che parla, il suo slogan è diventato un carterpillar: “Nulla fermerà il cambiamento”. Solletica tutto l’antisarkozysmo che Sarkozy ha seminato in cinque anni: “Il suo programma? È il suo bilancio, e nulla più”. Bilancio che giudica rovinoso, ça va sans dire. Anche il suo programma si è radicalizzato cammin facendo. Le tasse, per esempio: che quelli che guadagnano più di un milione l’anno paghino fino al 75 per cento, e che la finanza stia buona, perché “ai mercati non lascerò alcuno spazio”. E i dipendenti pubblici: 60mila insegnanti in più per la scuola. E il finanziamento di 150mila posti di lavoro per giovani in cerca di prima occupazione. Il pareggio dei conti pubblici? Nel 2017, non prima. Lo stile più tribunizio, anche se a discapito del rigore programmatico, ha dato qualche frutto: il trend che voleva Sarkozy in ascesa e lui in discesa in questi giorni si è fermato. Hollande, almeno per il secondo turno, rimane in testa nelle intenzioni di voto. Colto, brillante e pure spiritoso: belle virtù, ma nelle presidenziali, più dell’humour, scorre il sangue. Hollande non sviene alla sua vista, ma neanche si eccita come le altre due fiere, Sarkozy a destra e Melenchon a sinistra. Non lo dice, perché in Francia – soprattutto a sinistra – è ancora una parolaccia, ma è un socialdemocratico fatto e finito. Conta molto sulla Spd tedesca e sulle sue possibilità di vittoria l’anno prossimo. Sarà più facile, pensa, rinegoziare la disciplina di bilancio europea e stimolare la crescita, il lancio degli eurobonds, la tassazione delle transazioni finanziarie. G. M. • MARINE LE PEN - LA PASIONARIA DEL POPULISMO XENOFOBO - Venerdì, sulle pagine di Le Monde, ci credeva ancora: “Sarò presente al secondo turno, e in ogni caso avrò più del 20 per cento”. Dunque terza, nella peggiore delle ipotesi, con almeno un quinto dei voti, a suo dire. Più di quanto ebbe suo padre nel 2002, quando eliminò dalla corsa Lionel Jospin. In verità nulla è sicuro per Marine Le Pen, neanche il terzo posto, e tantomeno il 20 per cento. I sondaggi la danno in duello incerto e perenne, a cavallo del 14-15 per cento, con Jean Luc Melenchon, l’uomo che dichiaratamente vuole i suoi voti, e se li va a cercare uno per uno. Quanto al secondo turno, è una chimera. È partita troppo presto: ha avuto il tempo di mostrare i suoi limiti. E anche di scivolare all’indietro, sprofondando nel letame della xenofobia dal quale si voleva affrancata, lei e il suo partito “rinnovato”. È accaduto dopo la tragedia di Tolosa e la morte di Mohamed Merah: “Quanti Merah arrivano ogni giorno in Francia per mare e per terra?”, comiziava, mischiando immigrazione e terrorismo. Eppure Merah era francese: “Sì, ma non abbastanza”. Merah, “la prova di un’assimilazione fallita”. Perché il “fond de commerce” del Fronte nazionale quello resta: fuori i neri, fuori gli arabi, fuori l’Islam. Oggi la bionda Marine rivendica di aver dettato l’agenda della campagna elettorale. Elenca con orgoglio di aver acceso il dibattito sull’euro (vuole uscirne), sul protezionismo, su Schengen, sulla carne halal: “Sono stata il centro di gravità di questa campagna”. Esagera, ma non ha del tutto torto. Almeno per quel che riguarda Sarkozy, che caccia anch’egli sulle sue terre, e che promette ancora guerra agli immigrati e che ordina retate di “terroristi”, invariabilmente rimessi in libertà tre giorni dopo per assenza di seri capi d’imputazione. Le chiedono che cosa la distingue da Sarkozy: “L’Europa, l’euro, i trattati europei, il patto europeo di stabilità, la priorità nazionale”, che vuol dire lavoro, case, cure innanzitutto ai francesi di nascita, per gli altri si vedrà. Ha talento, Marine. È un avvocato, e si vede dal suo argomentare meticoloso e irruente. Ha 44 anni e li ha vissuti: due matrimoni, sempre con gente del Fronte nazionale, due divorzi, tre figli. Fa capire che il rinnovamento del Fronte non è finito: potrebbe anche cambiar nome al partito, qualora per le legislative di giugno riuscisse a trovare qualche alleato. Ha un po’ il fiato corto, ma non uscirà certo dalla scena politica. G. M. - JEAN LUC MELENCHON - LA STELLA DI SINISTRA SARÀ AGO DELLA BILANCIA - L’operazione gli è riuscita: federare le anime della sinistra non socialista, quelle affezionate alle percentuali a una cifra, quasi sempre sotto il 5. Ci ha messo cuore e passione. Ha un programma fatto di protezionismi vari, di salario minimo a 1700 euro, di reddito massimo a 360mila, di guerra senza quartiere alla finanza, di controllo pubblico delle banche: irrealizzabile, ma fa sognare. È l’unico a “narrare una storia”, e tanto meglio se è una favola. I suoi comizi sono adunate e cortei di decine di migliaia di persone, a Parigi come a Tolosa o Marsiglia, bandiere rosse a perdita d’occhio. Accenti lirici, com’è nel suo stile oratorio, ma pieni di fede nella proclamata “insurrezione civica” che passa per le coscienze, per l’entusiasmo militante, e tanto peggio per le compatibilità economiche. Evoca Shakespeare: “Io sono il rumore e il furore...”. Bastona volentieri i giornalisti “topi di fogna”. Ammira Robespierre, Fidel Castro e considera che il Tibet sta bene così com’è. Non si è posto l’obiettivo di conquistare l’Eliseo, anche se ormai comincia i suoi interventi dicendo “se sarò eletto...”. La sua vittima designata è piuttosto Marine Le Pen, che liquida ormai con un gesto della mano, dopo averle dato della “demente”. Parla direttamente, ed è una novità a sinistra, ai brutti sporchi e cattivi che la votano. Spiega loro con la sua foga da tribuno che è un voto buttato nel cesso, che la paura e la rabbia devono diventare civica indignazione, non ripiego xenofobo. I sondaggi indicano che è riuscito a frenare l’abbrivio del Fronte nazionale, e forse anche a sopravanzarlo rubandogli il terzo posto. Se accadesse, Melenchon avrebbe stravinto la sua scommessa, e benedette siano le sue impennate demagogiche. Per ora si accontenta di sondaggi che lo premiano come “candidato del cambiamento” agli occhi del 60 per cento dei francesi, anche se il 72 non lo giudica all’altezza del ruolo presidenziale.
Cosa farà del suo capitale, di quel 15-16 per cento che gli viene attribuito? Lo porterà presumibilmente in dote a François Hollande al secondo turno, anche se lo considera “un capitano di pedalò”. Ma poi venderà cara la pelle alle legislative di giugno. Può avere un sacco di deputati, Jean Luc Melenchon, e con le sue truppe parlamentari potrà condizionare l’operato di una eventuale presidenza Hollande. I due negano qualsiasi contatto, qualsiasi negoziato. Ma saranno obbligati a parlarsi, anche se non si amano. G. M. • I 6 “PICCOLI” TANTE IDEE POCO PESO - C’era una volta François Bayrou il centrista ardentemente europeista. Fu la sorpresa delle presidenziali del 2007: 19 per cento, un capitale. A sessant’anni è di nuovo lì, sempre saggio e ragionevole, però spuntato, ingrigito. Tutti sparano a raffica su Bruxelles, lui no ma neanche difende l’Europa comunitaria. Il suo slogan preferito è diventato “comprate francese”, per rinvigorire l’esangue produzione nazionale e ritrovare un po’ di competitività. In questi ultimi cinque anni non è riuscito a far fruttare quel 19 per cento, non ha costruito un partito, anzi ha decostruito quel poco che c’era. Ha un po’ stancato, e infatti naviga attorno al 10 per cento delle intenzioni di voto.
Resiste, malgrado i sondaggi catastrofici (2-3 per cento), la franco-norvegese Eva Joly, il severo magistrato che i verdi hanno scelto come bandiera. “Non so mentire”, dice, ed evita accuratamente ogni demagogia: “Sono costretta tra una sinistra molle e una sinistra folle”, tra Hollande e Melenchon. Si esprime con la saggezza dell’età (68 anni) e dell’esperienza, ma di lei resteranno solo il marcato accento scandinavo e gli occhiali coloratissimi, verdi rossi gialli, che sono già un’icona dei disegnatori satirici.
Sono ancora lì, benché Melenchon gli stia allegramente svuotando il frigorifero, le due vecchie anime trotzkiste e operaiste, l’algida irriducibile Nathalie Arthaud e il simpatico Philippe Poutou, che ha un paio di slogan privi di complicazioni: “Lavorare il minimo e guadagnare il massimo”, oppure “vietare per legge i licenziamenti”, o ancora “creare un milione di posti di lavoro nell’amministrazione pubblica”. Poutou ha le scatole piene della campagna elettorale e non vede l’ora di tornare in fabbrica e ritrovare i suoi compagni “con i quali manifestiamo, occupiamo e sequestriamo”, e lo dice tranquillo e sorridente, guadagnandosi la benevolenza, ma non il voto, di molti.
C’è il testardo cinquantenne Nicolas Dupont Aignan, il cui slogan è “fuori dall’euro” e che, qualora presidente, nominerebbe Marine Le Pen come primo ministro: 1 per cento scarso.
C’è infine il misterioso Jacques Cheminade, che a ogni elezione presidenziale riesce a raccogliere le 500 firme di sindaci per essere candidato: il suo delirio preferito è la conquista di Marte, il resto è un confuso bofonchiare contro destra e sinistra riunite. Però è lì, anche se non si schioda dallo 0,0 per cento. Il suo obiettivo, visibilmente, sono i rimborsi elettorali. G. M.