Dario Di Vico, la Lettura (Corriere della Sera) 15/04/2012, 15 aprile 2012
RIPESCHIAMO GLI ESPATRIATI - M
i è capitato nei giorni scorsi di ricevere due lettere di genitori che raccontavano l’odissea professionale dei propri figli. Ragazzi di talento desiderosi di proseguire la carriera universitaria che si erano scontrati però con strutture accademiche colpevolmente «disabituate» a valutare il merito. Di fronte a un blocco di tipo clientelare entrambi i giovani hanno reagito e sono stati costretti a emigrare, il primo in Inghilterra e l’altro a Boston. In trasferta si sono fatti ampiamente valere presso università decisamente più prestigiose di quelle che li avevano rifiutati, ma agli occhi dei genitori il vulnus dell’emigrazione e la lontananza da casa sono rimasti peccati mortali, per nulla attenuati dal riconoscimento internazionale ottenuto dai propri figli. Da qui l’idea di scrivere ai giornali per denunciare l’accaduto, dando voce così a una paradossale «indignazione da successo».
La morale che si può trarre dall’episodio è semplice. Nonostante una perdurante retorica sulla fuga dei cervelli, gli italiani faticano (ancora) a staccarsi dalla madrepatria/famiglia e considerano una dolorosa eccezione quella che invece dovrebbe diventare una norma nelle pratiche formative globali: un’esperienza di studio o di lavoro all’estero. Le statistiche del resto lo testimoniano: i giovani italiani sono i più restii a muoversi, solo il 38 per cento dei giovani tra i 15 e i 35 anni è disposto a farlo e, comunque, solo per un periodo di tempo limitato. In Paesi come la Spagna questa percentuale sfiora il 70 per cento, in Francia è pari al 60 per cento, in Germania al 54 per cento (dati Eurobarometro, 2011). Se usciamo dal vecchio continente il confronto con i giovani cinesi, che pure vivono in Italia, è impietoso. I reclutatori di personale che li incontrano nei career day ne parlano come di persone «che vivono con la valigia già pronta» per trasferirsi là dove le opportunità si presentano.
La riflessione sul deficit di esperienze internazionali dei nostri ragazzi ha un legame diretto con un altro grande (e ricorrente) interrogativo: dove pescheremo le nostre prossime classi dirigenti? Tutti, a prescindere dallo schieramento politico di appartenenza e dalle ascendenze culturali, ci dichiariamo preoccupati della qualità di chi ci dovrà guidare nei nuovi anni Dieci. Siamo diventati pessimisti se non altro perché abbiamo davanti il misero bilancio dei tentativi di costruire una classe dirigente durante la Seconda Repubblica. Il berlusconismo, pur avendo usufruito di un ciclo politico-culturale di tre lustri, non ci lascia granché. L’idea di pescare élite dalle aziende come Publitalia (i Galan e i Ghigo) o Ibm (i Riverso e gli Stanca) e trasportarle dentro la res publica all’inizio aveva fatto segnare qualche relativo successo, poi però non ha assolutamente retto alle prove del tempo e dei fatti. Anche quantitativamente il numero degli imprenditori eletti in Parlamento con Forza Italia è andato diminuendo con il passare degli anni. Nel 1994 il Cavaliere portò a Roma 76 industriali di cui due anni dopo solo 26 furono rieletti, ma complessivamente anche nel 1996 il numero degli imprenditori (70) rimase alto. Poi però hanno preso il sopravvento i quadri formatisi nel Psi, nella Dc o nel Msi (dopo la fusione con An).
In un fase successiva è stato Giulio Tremonti a incaricarsi di ovviare a quella che appariva ai suoi occhi una grave carenza del blocco di centrodestra. Ma l’Aspen Institute è un crocevia (e non una scuola) e il tentativo di pescare colbertianamente tra gli alti funzionari di Stato è servito a promuovere dei buoni grand commis, ma non è andato oltre. Non ha prodotto un lessico comune. Cosicché anche Tremonti, che pure ha esercitato una lunga egemonia sulle élite, non è riuscito a lasciare il segno. I democratici, dal canto loro, hanno oscillato tra due diversi orientamenti: da una parte si sono accontentati di godere una buona riserva di dialogo con il piccolo establishment italiano (si pensi agli storici rapporti tra sinistra e Banca d’Italia); dall’altra, quando hanno pensato di crearne artificiosamente un altro, hanno sempre creduto alla favola dell’Ena. Ovvero l’idea illuministica di creare anche in Italia un facsimile della scuola di alta formazione repubblicana che sforna le élite francesi (7 degli ultimi 12 primi ministri sono stati enarchi). Ma, francamente, al di là di qualche suggestione da convegno non si è andati. In fondo un’Ena l’abbiamo già avuta con le Partecipazioni Statali ma gli esiti sono stati ambivalenti, accanto a uomini di assoluto valore l’industria di Stato ha prodotto faccendieri e yesman.
Davanti alla difficoltà di creare dall’alto una nuova classe dirigente, c’è stato chi ha invitato più realisticamente a guardare in basso, alle trasformazioni della politica locale, alle associazioni di rappresentanza o alla piccola impresa. Sicuramente l’esperienza dei sindaci eletti con voto popolare rimane una delle tracce più innovative della Seconda Repubblica, perché ha prodotto metodologie nuove, ha rivelato veri leader locali (dai Chiamparino ai Tosi) e soprattutto perché li ha responsabilizzati rendendoli più attenti alle fasi di ascolto/verifica con i cittadini. Dire però che a partire dai sindaci e dai governatori si sia venuta a formare una nuova classe dirigente nazionale sarebbe una bugia, se non altro perché la lunga permanenza al potere di Roberto Formigoni (centrodestra/Lombardia) e Vasco Errani (centrosinistra/Emilia) dimostra la stessa difficoltà di ricambio che Pdl e Pd hanno avuto in regioni a loro elettoralmente fedeli. Quanto ai corpi intermedi è quasi scontato ricordare il ruolo che svolgono, la presenza capillare e il rapporto intenso che hanno con la propria base, ma se dall’osservazione della loro orizzontalità passiamo a considerare quali leadership verticali possano offrire, il bilancio cambia. Si tratta, nel migliore dei casi, di curriculum «validi» fino alla frontiera di Chiasso, quando invece la sempre maggiore integrazione delle politiche economiche sovrane richiede altro standing e altra flessibilità. Le piccole imprese, infine, restano sicuramente un serbatoio di energie e protagonismo ancora poco sfruttato e testato ai fini della gestione della cosa pubblica, ma è facile pensare che nei prossimi anni quel potenziale sarà necessariamente speso nella difesa/rivitalizzazione dei distretti e risulterà non disponibile a rispondere ad altre chiamate. Primum vivere.
Che fare allora? Non c’è altra strada se non rivolgersi — in parte, per carità — agli espatriati, ai connazionali che già oggi vivono e lavorano all’estero e coltivano con l’Italia un rapporto complesso, che in qualche caso verrebbe da catalogare come di amore-odio. Non saremmo gli unici a tentare operazioni di questo tipo, se è vero che nella letteratura economica esistono studi che hanno analizzato «il ruolo propulsivo delle diaspore», come ha sottolineato di recente Marco Meloni. Per lo più in queste ricerche si parla di Paesi emergenti come India o Cina e dei loro giovani andati a studiare nelle università occidentali, ma la sostanza non cambia. Le nostre comunità all’estero nel frattempo si sono profondamente rinnovate, esportiamo non più braccia ma talenti e la rete dei rapporti che questi manager, scienziati, accademici e businessmen hanno saputo tessere nei rispettivi Paesi d’adozione è di grande qualità e non riguarda solo i tradizionali settori del made in Italy, il bello e il buono. Sempre citando Meloni, «esiste già in potenza un ecosistema del talento italiano nel mondo, diffuso capillarmente». Quella che manca «è la connessione, un’infrastruttura che riconosca la loro presenza e li trasformi in una realtà propulsiva per la crescita del Paese». Dovremmo passare dalla fuga dei cervelli, la brain drain, alla brain circulation. Volendo, non dovrebbe essere difficile.
Il gioco, infatti, vale la candela per il particolare valore aggiunto che l’esperienza oltrefrontiera porta con sé. Quale? Tralasciando le considerazioni più scontate — la contaminazione culturale e linguistica — il sociologo Paolo Feltrin ne individua un’altra, decisiva. Un’esperienza all’estero serve a ridurre il tasso di politicizzazione che contraddistingue la visione del mondo delle nostre élite. Negli altri Paesi le decisioni pubbliche vengono interpretate sempre e comunque come pure scelte di problem solving, esiste uno specifico tecnico-istituzionale che non si identifica con le mosse dei partiti. Sarà un caso, ma il governo degli Stati Uniti si chiama comunemente «amministrazione», mentre da noi lo stesso termine evoca tutt’al più le riunioni del condominio. Per produrre élite efficaci e competitive dobbiamo assolutamente abbassare il coefficiente di politicizzazione ed è più facile che ciò avvenga, almeno inizialmente, riportando a casa gli espatriati. Costruendo i presupposti di una contaminazione al contrario.
L’eccesso di politica in Italia, sempre secondo Feltrin, è una delle cause della gerontocrazia che impera nei nostri organigrammi. Per imparare l’arte della politica — specie quella italiana di rito bizantino — ci vogliono anni e ciò finisce per far prevalere una sorta di professionalità anagrafica: solo gli anziani possiedono le chiavi del sapere politico applicato e non certo i giovani. Tecnicizzare le nostre élite serve anche ad abbassare l’età in cui le si porta ad assumere responsabilità importanti. Tutto si tiene.
Ps. Chi volesse interpretare questa riflessione come un endorsement per i tecnici che sono al governo prenderebbe un abbaglio. Non sto parlando di emergenza, ma di fisiologia.
Dario Di Vico