Marco Gasperetti, Corriere della Sera 15/04/2012; Luca Valdiserri, ib., 15 aprile 2012
2 articoli – MOROSINI SI ACCASCIA TRE VOLTE, POI MUORE - Tre volte Piermario è caduto sul prato. Ha tentato di rialzarsi, fiero come sempre, orgoglioso della maglia che indossava da appena due mesi e mezzo
2 articoli – MOROSINI SI ACCASCIA TRE VOLTE, POI MUORE - Tre volte Piermario è caduto sul prato. Ha tentato di rialzarsi, fiero come sempre, orgoglioso della maglia che indossava da appena due mesi e mezzo. Forse neppure lui ha avuto la percezione di che cosa gli stava accadendo, in quello stadio, davanti a migliaia di spettatori, durante una partita di calcio, lo sport che da sempre amava di più. È crollato a terra dopo 31 minuti di gioco. E poco più di un’ora dopo Piermario Morosini, 25 anni, bergamasco, centrocampista del Livorno, è morto senza riprendere conoscenza al pronto soccorso dell’ospedale di Pescara. «Arresto cardiocircolatorio», le due parole che provvisoriamente i medici hanno scritto nell’ultimo referto, non spiegano la tragedia. Infarto? Emorragia cerebrale? Rottura dell’aorta? «Tutte ipotesi possibili, ma solo un’eventuale autopsia (poi prevista tra oggi e domani, ndr) potrà spiegarci che cosa sia accaduto a quel ragazzo», spiega Leonardo Paloscia, primario del reparto di cardiologia dell’ospedale che ieri era allo stadio ed è stato tra i primi a soccorrere il giocatore. Il professor Paloscia ha tentato di tutto per strappare alla morte il calciatore. «All’ospedale gli abbiamo applicato un pacemaker — racconta —, lo abbiamo ventilato, praticato per più di un’ora il massaggio cardiaco. Mai il cuore ha accennato a riprendersi. Neppure un battito». Poco prima delle 17 i medici sono usciti dalla porta di terapia intensiva e hanno annunciato la morte del calciatore. Nella saletta d’aspetto la disperazione dei compagni di squadra. E con loro i tifosi, livornesi e pescaresi, con in mano ancora bandiere e striscioni. «Morosini era un ragazzo sano, un atleta, un ragazzo straordinario — dicono i medici e i dirigenti delle squadre (tra queste Udinese, Vicenza e Livorno) dove aveva giocato —. E soprattutto controllato, come ogni atleta professionista». Ieri Piermario stava benissimo ed era stato schierato titolare, a centrocampo, come sempre. «Nessun segnale premonitore, nessun sintomo. Era sereno, tranquillo, in forma», ha spiegato il medico sociale del Livorno Manlio Porcellini. E nella prima mezz’ora di gioco, proprio Morosini aveva contribuito a far segnare due gol alla sua squadra che stava vincendo. L’azione della tragedia, pochi attimi che resteranno impressi per sempre nel libro nero del calcio mondiale (ieri molti giornali internazionali hanno dato la notizia di quella morte in diretta) è strana e incongrua. Morosini corre, senza palla, verso la sua area per arginare un attacco avversario. Cade per la prima volta, si rialza ma crolla ancora. Tenta di rimettersi in piedi per l’ultima volta ma le gambe si piegano e il corpo si allunga sul campo in una posizione anomala. Vicino a lui c’è il compagno Pasquale Schiattarella. Capisce subito. «Ferma il gioco», grida all’arbitro. Chiede, disperato, aiuti alla panchina mentre cerca di dare una mano a Piermario. Poi scoppia in un pianto premonitore. Lo stadio rumoreggia per qualche minuto. Poi il silenzio. Tutti hanno capito. Il defibrillatore è accanto alla panchina e viene impiegato quasi subito. Massaggio cardiaco, ventilazione assistita, brividi e lacrime mentre, sugli spalti, una signora non regge alla scena, sviene e finisce all’ospedale. L’ambulanza, bloccata da un’auto dei vigili urbani lasciata in sosta dove probabilmente non doveva stare, arriva con alcuni minuti di ritardo. Troppi. Mancano i barellieri e sono i calciatori del Pescara a trasportare l’atleta. Lo spettacolo non può andare avanti e l’arbitro decide la sospensione. Il pubblico applaude. «Forza Moro, forza», grida qualcuno mentre il suono della sirena dell’ambulanza si fa sempre più lontano. Marco Gasperetti QUANDO PERSE I GENITORI. PASSIONI E CORAGGIO DI UN RAGAZZO - Quando la vita ti mette troppo presto davanti alla morte di chi ami hai davanti a te due strade. Una è chiuderti in te stesso, odiare tutto e tutti, sentirti la persona più sfortunata del mondo e commiserarti. L’altra è trovare dentro di te la voglia di vivere anche per chi non c’è più, di apprezzare ogni singolo istante e di aiutare chi sta vivendo un problema, anche se magari è infinitamente meno grave di quelli che hai vissuto tu. Piermario Morosini aveva scelto la seconda strada e il ricordo che adesso tutti hanno di lui è lo stesso: «Non ci ha mai fatto pesare tutte le disgrazie che gli erano capitate. Aveva sempre il sorriso, era innamorato della vita». Piermario non aveva avuto una vita «normale», ma forse proprio per questo voleva sembrare un ragazzo «normale». In realtà era qualcosa di più, qualcosa di meglio, ma era troppo buono e umile per dirlo. L’ufficialità dell’Ansa ricorda così la sua vita: ultimo di tre fratelli, prima perde la mamma Camilla quando aveva 15 anni, poi il padre Aldo a 17. «Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita — disse in un’intervista al Guerin Sportivo nel 2005 — ma che allo stesso tempo ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era un sogno anche dei miei genitori. Vorrei diventare un buon calciatore soprattutto per loro, perché so quanto li farebbe felici. Per questo so di avere degli stimoli in più». Lo aiutava la zia Miranda ma le tragedie non erano finite perché arrivò anche il suicidio del fratello disabile quando Piermario era già passato a Udine, dove fece il suo esordio in serie A. Gli era rimasta la sorella maggiore, anche lei con un handicap. Fuori dall’ufficialità un buon calciatore, Piermario, lo era diventato davvero. Dagli inizi con i «pulcini» della Polisportiva Monterosso, di Bergamo, al grande salto alle giovanili dell’Atalanta. Era un centrocampista promettente, tanto da meritarsi una maglia nella nazionale Under 17. «L’ho conosciuto lì — ricorda ora Mimmo Criscito —. Fu lui, alla mia prima convocazione, a presentarmi tutto il gruppo dei compagni di squadra e dello staff». Mettere a suo agio l’ultimo arrivato. Tipico di Piermario. Nel 2005 l’aveva acquistato l’Udinese, per poi mandarlo in prestito con tante maglie. Poca serie A, molta serie B. Piermario amava il calcio, voleva giocare. A una panchina comoda preferiva un campo scomodo. Correndo si era guadagnato 17 convocazioni con la maglia dell’under 21, c.t. Gigi Casiraghi. Chi scrive l’aveva conosciuto lì, quando Piermario aveva giocato in un bell’Europeo, perso per pura sfortuna in semifinale contro la Germania. Non era il più bravo, ma era il più curioso: buona musica (Ligabue), buoni film, il libro come compagno, una passione per tutti gli sport, soprattutto il tennis. Postava le sue emozioni su Twitter e, anche se è un voyeurismo orribile scavare adesso nella sua vita, c’è un suo ricordo che, siamo sicuri, possiamo rubargli. Era andato a Monaco di Baviera, con gli amici e la fidanzata Anna. A divertirsi. Ma aveva trovato il tempo per visitare il campo di concentramento di Dachau. Un luogo di immenso dolore, dove rincorrere i propri pensieri. Luca Valdiserri