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 2010  aprile 16 Venerdì calendario

L’ATTACCO TALEBANO IN AFGHANISTAN


MICHELE FARINA
È sceso il buio a Kabul e dopo sei ore di battaglia la deputata Shahgul Rezaie dice al Corriere che intorno al Parlamento si combatte ancora: «Un mio collaboratore mi ha detto al telefono che è asserragliato in una stanza. Fuori si spara». Ex preside, 33 anni, Rezaie non era nell’edificio quando ieri pomeriggio decine di talebani hanno aperto «l’offensiva di primavera».
Giornata di guerra. Nel mirino, oltre al Parlamento, ambasciate occidentali (non quella italiana), alberghi di lusso, basi militari Isaf e stazioni di polizia nella capitale e in altre tre province. Kamikaze (a Nangarhar nascosti sotto il burqa) e miliziani armati di lanciagranate Rpg entrano in azione contemporaneamente alle 13 e 15 ora locale (mattina in Italia). Il bilancio provvisorio delle vittime stilato dal ministero dell’Interno afghano (17 talebani e due poliziotti uccisi) non rende ragione dell’ampiezza degli attacchi. Questa volta nella mente degli afghani il boato delle esplosioni conta più del sangue versato: «Tornando a casa in auto da una riunione ministeriale ho visto Kabul diventare un deserto», dice la deputata Rezaie, che con i talebani al potere organizzò una scuola femminile clandestina all’interno di una moschea. Undici anni dopo la loro cacciata da Kabul, questa città di 5 milioni di abitanti con il traffico caotico e i ristoranti affollati si è svuotata completamente al crepitare dei razzi e delle mitragliatrici.
Nelle strade sono rimasti i pick-up verdi della polizia e i gipponi humvees (versione basic) dell’esercito. Dal quartier generale della missione internazionale Isaf (un altro obiettivo dei razzi talebani) sottolineano che le forze di sicurezza afghane hanno reagito «con efficacia e professionalità». Il comandante Usa John Allen verso sera si dice orgoglioso: «Non hanno ancora chiesto il nostro aiuto». I soldati Isaf hanno risposto a un attacco contro una base alla periferia Est di Kabul, dove anche un convoglio francese ha reagito a un’imboscata. Ma i veri obiettivi erano altrove: la zona del Parlamento, Darulaman Road non lontano dall’università (dove è stata bersagliata anche l’ambasciata russa, da cui hanno risposto al fuoco, e l’abitazione di un vice del presidente Karzai). E poi la zona delle ambasciate, la fortificata Green Zone che protegge anche diversi ministeri afghani nonché il palazzo presidenziale (da cui Karzai è stato evacuato verso un rifugio segreto) e il quartiere generale Isaf.
Il portavoce talebano Zabiullahj Mujahid ha detto che per preparare «questa rappresaglia» (per le copie bruciate del Corano e la strage compiuta da un soldato Usa a Kandahar) «ci sono voluti due mesi». Il meccanico Mohamemd Zakar, 27 anni, ha raccontato all’Ap il semplice inizio del raid: due uomini armati scendono da due gipponi, sparano a una guardia ed entrano in un palazzo in costruzione. Nascosti dalle protezioni verdi che fasciano l’edificio, cominciano a lanciare razzi sulla Green Zone. L’entrata è a un centinaio di metri: colpito il muro dell’ambasciata tedesca, tre razzi su quella giapponese mentre le sirene della sede diplomatica Usa gracchiano l’allarme: «Al riparo, lontano dalle finestre». Fumo nero intorno all’ambasciata britannica. Anche il nuovissimo Star Hotel («le migliori suites dell’Afghanistan») è preso di mira. Al suo interno l’inviato di Al Jazeera Bernard Smith twitta: «Cerchiamo riparo nei sotterranei».
Intorno allo Star Hotel si spara ancora a sera inoltrata. Come nei pressi del Parlamento, dove anche alcuni deputati e senatori sul tetto hanno imbracciato i kalashnikov per rispondere agli assalitori: i talebani hanno cercato di entrare nell’edificio per poi trincerarsi in una palazzina in costruzione. Una tecnica usata anche sei mesi fa, quando sei miliziani spararono sull’ambasciata Usa resistendo 19 ore. Battuta amara: a Kabul il mercato edilizio è in forte calo (il ritiro occidentale è già cominciato) e i talebani occupano i palazzi vuoti (possibilmente con vista strategica).

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La Rete Haqqani, che il governo afghano e Ryan Crocker (ambasciatore Usa a Kabul) accusano per gli attacchi di ieri, è un gruppo terrorista alleato con i talebani. Il gruppo è stata fondato da Jalaluddin Haqqani, eroe della resistenza antisovietica negli Anni Ottanta e ora membro del Consiglio Supremo talebano presieduto dal mullah Omar. Il gruppo opera al confine tra l’area tribale pachistana e l’Afghanistan. Secondo gli Usa Haqqani rappresenta «la forza con maggiori capacità di recupero» e una delle più grosse minacce alla pace nel Paese. Washington accusa il Pakistan di non fare abbastanza contro questo «esercito». Si stima che Jalaluddin Haqqani e suo figlio Sirajuddin, responsabile delle operazioni militari, comandino 10-15 mila guerriglieri. Alla fine del 2011 in Pakistan e Afghanistan circolava una sorta di «manuale per terroristi e guerriglieri» in lingua pasthun la cui paternità è stata attribuita a Sirajuddin. Conteneva le istruzioni per allestire una cellula jihadista e reclutare kamikaze.

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GUIDO OLIMPIO
WASHINGTON — I portavoce della Nato in Afghanistan dovrebbero tenere a mente quel detto sempre valido in regioni complicate: «Non sappiamo quello che non sappiamo». Appena il 10 aprile un alto ufficiale aveva dichiarato alla Reuters: «Non ci sono segnali di un’offensiva di primavera, i talebani si limitano ad azioni sporadiche contro avamposti in luoghi remoti». È evidente che rilanciava una valutazione — errata — dell’intelligence. Gli attacchi simultanei di ieri hanno dimostrato la capacità degli insorti di arrivare «sotto il radar» per innescare scontri dal peso militare relativo ma dall’alto impatto politico. Una lunga battaglia che ha fatto emergere lati vecchi e nuovi.
È evidente che il network Haqqani continua ad essere temibile. Colpisce a Kabul ma i capi sono nascosti nell’area tribale pachistana. Come un anno fa i mujahedin hanno bersagliato gli obiettivi da edifici in costruzione trasformati prima in punti di tiro quindi in sacche di resistenza. Tanto è vero le sparatorie si sono protratte fino nel cuore della notte. Possibile che nessuno si sia accorto di quanto stava per esplodere? Gli attacchi hanno richiesto una lunga preparazione, un lavoro di ricognizione e un buon coordinamento. È necessario fare meglio per parare altri colpi. La sottovalutazione della minaccia non ha implicazioni soltanto «tecniche». Le scorrerie nella capitale sono il chiaro tentativo di enfatizzare i buchi nella sicurezza mentre la Nato passa la mano, lentamente, ai soldati del presidente Karzai. Il messaggio che i ribelli vogliono diffondere è che né l’Alleanza né le autorità garantiscono stabilità al Paese.
Alla sfida talebana, le fonti Nato hanno risposto «pensando positivo». E allora, a caldo, hanno sottolineato come le forze afghane abbiano fatto bene il loro lavoro, riuscendo anche a fermare due uomini-bomba. Per gli americani si tratta di «segnali di progresso». Minimi. Tra qualche giorno capiremo se davvero è andata così. Ma è evidente che Usa e alleati sono disperatamente legati all’«afghanizzazione» del conflitto. Devono crederci e scommetterci. Se le autorità di Kabul stanno sulle loro gambe diventa più facile, si fa per dire, lasciare un Paese metà inferno e metà pantano. Anche la recente concessione sui raid notturni va in questa direzione. In base all’accordo sarà Kabul a decidere se e come effettuare queste operazioni che saranno condotte unicamente dalle forze speciali locali. Gli Usa avranno solo funzione di appoggio e non potranno eseguire quelle perquisizioni nelle case responsabili di molte frizioni con i civili.
L’idea del progetto è buona, lo è meno l’esecuzione. Nel giugno di un anno fa un commando ha occupato per ore l’Hotel Intercontinental a Kabul. La Nato ha prima lasciato fare gli afghani. Poi, per piegare la resistenza degli assalitori, è stata costretta a mobilitare le sue unità d’elite. Karzai ha spesso rivendicato le sue prerogative di presidente arrivando, in numerose situazioni, a rimproverare aspramente gli Stati Uniti. Gesti di apparente indipendenza giustificati da episodi terribili, come la distruzione del Corano e la strage nelle case di Kandahar. Gesti che però hanno bisogno di sostanza come di coerenza. I soldati afghani devono sparare sui terroristi e non contro gli alleati. E lo stesso presidente ha l’onore di fare di più. Ieri i suoi agenti erano sotto il fuoco. Nel Parlamento assediato qualche parlamentare non ha esitato a impugnare le armi per respingere gli insorti ma di Karzai, almeno fino oltre il tramonto, non si è udita una parola.
Guido Olimpio

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FRANCO VENTURINI
Per dimostrare la loro forza e incoraggiare gli occidentali a fare i bagagli, i talebani hanno organizzato ieri una temeraria anteprima della consueta offensiva di primavera. Attacchi multipli e coordinati hanno colpito le zone più «sicure» di Kabul dove hanno sede i simboli della presenza straniera in Afghanistan. Nel mirino dei talebani: la missione Nato, il quartiere delle ambasciate e dell’Onu, il Parlamento accusato di servire il nemico (e per difendersi non pochi deputati sono tornati a imbracciare il kalashnikov), basi militari e caserme della polizia. Contemporaneamente venivano presi di mira obbiettivi strategici in altre regioni e in altre città, compreso l’aeroporto di cui si serve la Nato a Jalalabad. E non si può escludere che un lungo filo colleghi le imprese afghane con la liberazione armata di quattrocento talebani detenuti nel nordovest del Pakistan. In oltre dieci anni di guerra, pur avendo compiuto altri attacchi nel centro di Kabul, i talebani non avevano mai osato tanto e mai si erano mossi in maniera tanto sincronizzata. Perché allora, al di là del favorevole cambio di stagione, i loro capi hanno scelto questo momento? La risposta non è difficile da trovare, e ha molti destinatari. In Occidente i più ottimisti continuano a sostenere che la guerra ha logorato le capacità militari dei talebani, ormai incapaci di tenere testa all’Isaf (missione Nato) e ai suoi allievi afghani. Ma benché l’ambasciatore Usa a Kabul si sia ieri compiaciuto dell’«ottima risposta» fornita dalle forze afghane, il bilancio dell’offensiva rivela piuttosto una intatta capacità di iniziativa da parte talebana e una marcata vulnerabilità nello schieramento posto a difesa della capitale. Con il risultato per gli insurgents di essere riusciti a compiere una azione prima di tutto spettacolare, capace di raggiungere i decisori politici e le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali. Non basta. I talebani hanno certamente voluto pesare (e continueranno a provarci) sui preparativi del vertice Nato che nella seconda metà di maggio si terrà a Chicago proprio per discutere di Afghanistan. Hanno inviato un telegramma a Hollande e a Sarkozy, sapendo che il primo vuole il ritiro delle truppe francesi a fine 2012 e il secondo a fine 2013 (anche se, con le presidenziali alle spalle, queste scadenze verosimilmente diventeranno elastiche). Hanno fatto sapere all’odiato presidente Karzai che farebbe meglio a non sognare un terzo mandato. E soprattutto hanno recapitato un messaggio forte a Barack Obama. I talebani non dimenticano le offese al Corano e la strage di civili compiuta da un soldato Usa. E poi, l’America vuole o non vuole dialogare con i talebani in Qatar? Se sì, accetti le condizioni e si sbrighi a farlo, perché in caso contrario gli uomini del mullah Omar saranno perfettamente in grado di riprendersi il potere dopo il ritiro delle forze Isaf a fine 2014 (se a tale scadenza si arriverà), o forse già nel 2013 quando le forze alleate faranno soltanto da «supporto» all’esercito afghano appena addestrato. Capire la strategia dei talebani non significa predisporsi alla resa. E il vertice di Chicago, a beneficio delle esigenze elettorali di Obama, non mostrerà le crepe che pure esistono nel fronte occidentale. Ma se non si vuole far stravincere i talebani dopo non essere riusciti a sconfiggerli, una strategia afghana più unitaria, più credibile e più efficace l’Occidente dovrà metterla a punto. Con il contributo dell’Italia, che dopo i primi ritiri francesi schiera oggi in Afghanistan il terzo contingente militare alleato. Con la determinazione a non compiere distruttivi ritiri unilaterali. Ma anche con la consapevolezza che dal pantano di Kabul è ora di uscire, insieme.

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FRANCESCO TOTTOLI
In vista del vertice
Nato di Chicago del prossimo mese, l’Afghanistan torna a incendiarsi. Più che nei Corani bruciati, più che nell’ultimo massacro di civili afghani, la causa sta nell’essenza stessa di un Paese e di una regione che si è sempre dimostrata irriducibile alla presenza straniera e capace di fiaccare ogni occupante.
La presenza americana, dopo una decina di anni, ricorda in maniera sinistra il crepuscolo dell’occupazione sovietica, accelerato dai mujahiddin sugli altopiani e le montagne afghane. Ma la storia dell’irriducibilità afghana risale a ben oltre gli anni ’80 e rimanda alla lunga storia di un territorio impervio, difficile, crocevia tra mediterraneo e mondo iranico da un lato, Asia Centrale, India e Asia orientale dall’altro.
Khorasan è il nome antico, fin dalle invasioni arabe e musulmane dal VII secolo, che venne dato all’ampia regione che occupa parte dell’Iran orientale e dell’attuale Afghanistan. Una regione che divenne nel Medioevo il centro culturale, economico e politico del mondo islamico, a metà strada tra le grandi città dell’Asia Centrale come Samarqanda e Bukhara, le capitali dell’Iran e le ricchezze dell’Islam indiano. Città di grande tradizione come Balkh e Herat rivaleggiavano con questi centri, essendo di gran lunga più grandi, più ricche e più importanti delle città arabe, e così fu almeno fino alle invasioni mongole del XIII secolo. Stretta tra le potenze centro-asiatiche e indiane ai confini, la regione afghana conquistò una sua prima indipendenza a partire dagli inizi del 1700 a prezzo di battaglie sanguinose.
Fu però dai primi anni del 1800 che l’Afghanistan si trovò all’incrocio di forze contrapposte che sostituirono Sikh indiani e persiani nelle loro mire sulla regione. L’avanzata verso sud della Russia zarista e verso nord degli inglesi dall’India diede il via a quello che divenne noto come il «Grande Gioco», un confronto di spionaggio e schermaglie tra Russia e Impero britannico. Le mire russe che giunsero a conquistare Caucaso e Asia Centrale da un lato e quelle inglesi che avevano come base l’India però si frantumarono entrambe contro un territorio che si mantenne sostanzialmente indipendente, giocando sullo scontro delle due superpotenze ma anche sulle peculiarità di un territorio unico. Montagne, orizzonti desertici e vallate impervie hanno fatto dell’Afghanistan una regione che eserciti di conquista hanno attraversato, anche conquistato, a volte, ma quasi mai controllato.
Nella corsa alla conquista coloniale delle potenze europee e nella conseguente divisione del mondo, due territori soli tra quelli musulmani rimasero sempre alieni a un controllo diretto: il centro della penisola araba e l’Afghanistan. Il quadro tribale, le capacità guerriere e l’adattabilità al territorio rendevano e rendono le pur divise tribù afghane una realtà difficilmente controllabile da chiunque, anche da parte degli stessi sovrani afghani. Difficile è valutare nel corso della storia la reale capacità di controllo della capitale Kabul in una realtà etnica, tribale e anche religiosa molto complessa, unita nel rigettare controlli esterni ma altrettanto riottosa ad accettare il controllo altrui. La storia afghana del XX secolo è in fondo ancora il prodotto di questo paradosso: un equilibrio sorretto da forze esterne e in nome di una autonomia interna di fatto: un’autonomia orgogliosa e difesa a tutti i costi sia contro i nemici esterni sia contro i tentativi di controllo dell’autorità centrale.
Non stupisce, quindi, che l’invasione sovietica del 1979, seguita a un colpo di stato, l’ennesimo, di matrice marxista, abbia risvegliato in parte l’orgoglio nazionale e seppellito contrasti tribali. Le forze di resistenza afghane, variegate per composizione e ispirazione politica, hanno costretto un impero sovietico certo fiaccato da altri problemi a ritirarsi nel 1989. Nel giro di pochi anni dopo la ritirata sovietica il regime di Najibullah è caduto aprendo la via alla nascita dello Stato islamico d’Afghanistan, precursore del regime talebano di fine millennio e vero e proprio campo di addestramento e di formazione del jihadismo contemporaneo.
L’attacco di al-Qaeda dell’11 settembre e la conseguente invasione americana ed alleata hanno riportato le tribù afghane sul piede di guerra. Il regime di Karzai ha controllato raramente oltre la capitale Kabul e le regioni circostanti. L’occupazione militare ha ottenuto l’immancabile effetto di coagulare opposizione e di raccogliere guerriglia e lotta armata sotto le bandiere talebane, in fondo ancora un’entità capace di organizzare la resistenza. La forza talebana di oggi altro non è che la secolare capacità di resistenza delle popolazioni afghane. Cancellata la presenza utile a suo tempo ma ingombrante di Bin Laden e degli arabi che parteciparono alla jihad anti-sovietica e poi alla prima costruzione del regime talebano prima del 2001, la resistenza di oggi ha una forza nuova e forse diversa. Ispirata dalla stessa fede religiosa che fu dei mujahiddin e che guarda alle scuole coraniche pakistane che hanno nel tempo accresciuto ulteriormente la loro forza nell’area, i talebani di oggi paiono impegnati esclusivamente nella liberazione nazionale, meno ostili alle altre forze di opposizione e hanno quindi maggiore capacità attrattiva.
I proclami mondiali di Bin Laden sono ormai lontani. La situazione mondiale è molto diversa ma la realtà afghana è per certi versi quella di sempre. Il prossimo vertice di Chicago dovrà tener conto non solo delle stanchezze americane e alleate ma anche della capacità di resistenza afghana. Con queste premesse potrà forse risvegliare il ricordo degli storici armistizi con gli inglesi, oppure, rievocare il ritiro sovietico di poco più di trent’anni fa, riportando l’Afghanistan in mano afghana, con un futuro ancora tutto da decifrare.
Roberto Tottoli

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LORENZO CREMONESI
«Il segreto della vittoria dei talebani? La loro coesione interna. Sono soldati pronti a morire pur di rispettare gli ordini. Non tradiscono, non disertano. Brutali, violenti, primitivi, intolleranti, guidati da una fede cieca nella loro lettura fondamentalista dell’Islam. E quindi determinati a vincere a qualsiasi prezzo. Ma a modo loro onesti. Nei momenti di crisi nera sono meglio delle milizie indisciplinate dei mujaheddin ladroni, criminali e in guerra tra loro. Meglio i talebani all’anarchia». Nel dicembre del 1999 fu così che uno dei pochi esponenti della vecchia classe aristocratica rimasti a Kabul mi spiegò il motivo per cui, nonostante tutto, le milizie del Mullah Omar erano da preferire alle altre bande di mujaheddin che dal tempo del ritiro dell’esercito sovietico avevano insanguinato il Paese in dieci anni di spietata guerra civile. Oggi lui, diventato dirigente di una grande agenzia internazionale, preferisce restare anonimo, eppure allora erano tanti a pensarla in quel modo, pur se critici delle «pattuglie della moralità» che bruciavano i televisori, appendevano ai fili della luce i nastri delle cassette di musica, e contrari alle donne relegate in casa, al divieto per l’educazione femminile e alla sharia imperante nelle aberrazioni più estremiste.
Le sue parole tornano d’attualità adesso che, con l’avvicinarsi dell’evacuazione del contingente Nato-Isaf entro il 2014, si riaffaccia il rischio di un Afghanistan di nuovo in mano ai talebani. Non mancano motivi per tracciare paralleli tra il momento della loro presa della capitale nell’autunno 1996 e il disordine odierno. Allora la frammentazione del Paese tra una miriade di milizie rivali aveva reso insicuro qualsiasi spostamento. Le ultime ombre del governo centrale erano paralizzate tra corruzione, nepotismo e povertà. Uscivi di casa e chiunque poteva rapinarti in ogni momento, violentare tua moglie, prendere ostaggi i figli a scopo di riscatto. I circa 500 chilometri di strada tra la capitale e Kandahar ad un certo punto furono controllati da oltre 40 bande armate che estorcevano denaro. La gente viaggiava con piccole somme nascoste per pagare a turno i posti di blocco. Con il progressivo espandersi del controllo talebano via via tutto questo sparì. Il loro monopolio fu imposto a suon di esecuzioni capitali per gli assassini, tagli delle mani per i ladri e anche lapidazioni per le adultere. Però divenne sicura persino la famigerata strada tra Kabul e Jalalabad. Negli ultimi tre anni sono proprio la corruzione imperante negli organismi dello Stato, l’inefficienza dei tribunali, la debolezza cronica delle nuove forze di sicurezza a fare temere il peggio. E allora potrebbero crescere le voci di coloro pronti ad accettare la restaurazione talebana pur di evitare il caos.
Lorenzo Cremonesi

DAL SITO DEL CORRIERE DI OGGI
MILANO- «L’obbietivo era liberare uno dei nostri comandanti più importanti». E così è accaduto. Operazione dei talebani contro un carcere in Pakistan. Sabato notte un gruppo di islamici radicali ha assaltato la prigione a nordovest del paese con razzi, granate e fucili. E in 384 riescono ad evadere.
L’ATTACCO- Circa duecento uomini sono riusciti a entrare nella prigione di Bannu. Una battaglia per liberare dnan Rashid, che si trovava nel braccio della morte per il suo coinvolgimento nell’attentato contro l’ex presidente del Paese Pervez Musharraf.
È quanto riferisce il sovrintendente della prigione Zahid Khan. L’attacco è stato rivendicato dai talebani. Questa è la prima volta che viene preso d’assalto una prigione pakistana.

DISPACCIO AGI DELLE 8.15
(AGI) - Kabul, 16 apr. - L’assalto finale delle forze di sicurezza afghane, durato complessivamente ben diciassette ore, si e’ concluso in mattinata con "l’uccisione di tutti i Talebani" coinvolti negli attentati coordinati di ieri, e "i combattimenti sono terminati": lo ha annunciato Sediq Sediqqi, portavoce del ministero dell’Interno, secondo cui sono stati espugnati gli ultimi due covi dove si erano asserragliati i terroristi: l’hotel ’Kabul Star’, nel quartiere diplomatico, e un edificio prossimo al Parlamento. Stando a fonti del dicastero della Difesa, nella sola capitale sono stati quindici gli ex studenti coranici eliminati, mentre in totale ne sono morti 36. Hanno inoltre perso la vita almeno tre soldati governativi, mentre ulteriori dieci sono rimasti feriti. (AGI) .