Mario Serenellini, la Repubblica 15/4/2012, 15 aprile 2012
BARI La partita a scacchi è stavolta con la luce del Sud. Non più con la Morte sulla spianata nuvolosa del Settimo sigillo, ma ai bordi del mare metropolitano di Bari che spruzza di riflessi la sua maestosa silhouette nera, i capelli bianchissimi e il caratteristico sorriso che gli piega le labbra in una smorfia di cruda bonomia
BARI La partita a scacchi è stavolta con la luce del Sud. Non più con la Morte sulla spianata nuvolosa del Settimo sigillo, ma ai bordi del mare metropolitano di Bari che spruzza di riflessi la sua maestosa silhouette nera, i capelli bianchissimi e il caratteristico sorriso che gli piega le labbra in una smorfia di cruda bonomia. Max von Sydow sembra ancora avvolto nella standing ovation con cui il Bif&st l´ha salutato all´anteprima di Molto forte, incredibilmente vicino (in Italia in maggio), sua seconda nomination all´Oscar, dopo Pelle alla conquista del mondo nell´87. Nel film di Stephen Daldry è un «nonno di guerra»: al trauma del nipotino che ha perso il padre nell´attentato alle Twin Towers risponde il suo mutismo carismatico con cui reagisce dal ´45 all´indicibile della distruzione di Dresda. Quasi una staffetta dell´orrore, il passaggio di testimone tra vittime di un´umanità di sangue: «Dresda è stata rasa al suolo dagli Alleati in una pioggia di bombe incendiarie: in due giorni, diecimila morti, molti di più dell´11 settembre. La guerra, in Svezia, l´abbiamo vissuta da spettatori. Da Estonia e Finlandia giungevano echi di morte, aerei che come improvvisi avvoltoi si liberavano delle bombe sulle nostre foreste. Ero un ragazzo: dopo, gradualmente, ho capito la tragedia. Finita la guerra, sgomberati i campi di concentramento, la Croce Rossa ha trasportato da noi centinaia di prigionieri in cura. Nel ´45, a sedici anni, facevo parte d´un gruppo folcloristico. Abbiamo danzato per loro, con repertori differenziati: musiche polacche, russe, italiane. Era la prima volta che quei reduci dall´oltretomba assistevano a spettacoli. Un pubblico straordinario, un´esperienza emozionante: e terribile». Già allora, una prima sfida per l´imbattibile scacchista del Settimo sigillo. Von Sydow sorride. I luminosi occhi azzurri - docile ghiaccio nei film in bianco e nero - s´accendono nella terrazza sul mare, dove l´attore si perde nel mare di ricordi: teatro, cinema, Bergman. «Agli aspiranti attori, rispondo che prima di tutto devono leggere, leggere, leggere, per conoscere la storia, la natura umana. E poi, provare, provare, provare. Volete davvero essere attori? Allora scordatevi di voi stessi, delle incombenze quotidiane, della ragazza che vi ha lasciato. Se uno vuol fare l´attore, significa che sta mettendosi in salvo da qualcosa, anche se non sa che cosa». Lei da che cosa s´è voluto salvare? «Forse da quel che mi preparava l´infanzia. Sono nato nel sud della Svezia, nella luterana Lund: cinquantamila abitanti, l´università, un solo cinema - il Reflex - e niente teatro. In ogni caso, la mia famiglia non nutriva interessi per teatro e cinema. Non avevo fratelli né sorelle. Mio padre aveva cinquant´anni quando sono nato, mia madre quattordici di meno. A dieci anni, mio padre ne aveva sessanta: un vecchio, da sempre estraneo alla vita sportiva, professore d´etnologia all´università di Lund, dove insegnava il folclore scandinavo. Mi sono nutrito dei suoi racconti di miti, leggende, favole d´un tempo remoto». Com´è scoccata la scintilla teatro? «A quindici anni ho cominciato a organizzare recite scolastiche. L´anno prima mi aveva folgorato il Sogno di Shakespeare, che son tornato a vedere più volte. Nel gruppo teatrale dei compagni di scuola ci divertivamo un mondo: ci consideravamo dei geni». Una bella scappatoia contro solitudine e emarginazione: «Sì, nella mia frustrazione di piccolo provinciale, vedevo nella ribalta il lasciapassare per un´altra dimensione del vivere: l´avventura, il sogno di gloria, la promozione al rango sociale di persone brillanti, seducenti, capaci di trovare la parola giusta in ogni situazione. Una favola del presente: gemella delle favole rappresentate in scena». La reazione dei suoi? «Mia madre s´è allarmata: Max, in quel mondo, ti troverai davanti a tante tentazioni. Ma non mi ha specificato quali». Come il suo amico regista Ingmar Bergman, anche lui ha dovuto portare il peso d´una educazione borghese protestante: «Peso minore per me, maggiore per Ingmar. Lui ha subìto una situazione familiare molto più dura: suo padre era pastore, il mio era solo professore. Con me Ingmar parlava molto della paternità assente o distante, dell´isolamento egoista che rinchiude gli studiosi nel loro mondo, allontanandoli dalla famiglia. Io ho potuto avvantaggiarmi di qualche inatteso estro domestico. Mio padre aveva una grande passione per le piante. Abitavamo a due passi dall´orto botanico. Spesso mi ci conduceva ed era una festa: perché di ogni pianta conosceva il nome, in svedese e in latino, e mi raccontava tutto di ogni fiore. Da bimbo solitario, mi piaceva viaggiare con l´immaginazione: la botanica era il mio fantasy. I miei nonni erano stati contadini: da loro ho imparato il piacere di andar per campi, da ragazzino, a cercare insetti e osservare foglie. È stato quello il mio primo cinema, in mancanza d´una sala dove scoprire Charlie Chaplin o Greta Garbo». È vero che, la prima volta che si è presentato a Bergman, le ha detto di no? «È vero, ma non è andata esattamente così. L´avevamo chiamato da una cabina, io e altri studenti del teatro della scuola. Stava per girare La prigione. Ha bisogno di attori? E lui: no. Poi mi ha visto in teatro, dove interpretavo Saint-Just: e mi ha ingaggiato nella sua compagnia di Malmö». I ricordi più belli? «Le proiezioni che ci organizzava le sere di ogni lunedì, giorno di riposo degli attori, al Teatro Municipale di Malmö o nel suo appartamento. Classici svedesi, capolavori del muto e, soprattutto, film russi, Eisenstein e tanti contemporanei. Ingmar aveva anche una solida preparazione musicale: e così, molto spesso, la sera si ascoltava Mozart, sulla spiaggia della sua isola, dove accendeva il fuoco per noi». La partita a scacchi nel Settimo sigillo segna una svolta nella storia del cinema: Ettore Scola, premiandola al Petruzzelli, le ha confidato che lei ha giocato a scacchi per tutti quelli che allora cominciavano a fare film. Ne siete mai stati coscienti, lei e Bergman? «Assolutamente no! Quel film minuscolo, cinquantacinque anni fa, era stato rifiutato a lungo dai produttori perché considerato troppo intellettuale. Ingmar s´era ispirato al dipinto visto in una chiesa cattolica in Svezia: da due anni tentava, inutilmente, di trasformare la sceneggiatura in film. Nel frattempo era uscito Sorrisi di una notte d´estate. È grazie al suo grande successo se i produttori hanno ceduto e se esiste oggi Il settimo sigillo: che per noi era stato un semplice esperimento». Chi è per lei Bergman, oggi, a cinque anni dalla scomparsa? «Rimane il più grande complice d´arte e di vita che ho avuto, anche se la sua principale preoccupazione era d´entrare in sintonia con le attrici più che con gli attori. Aveva dieci anni più di me. L´intesa è stata immediata. Il lavoro con lui, nel cinema come in teatro, è stato stupendo. Aveva una immaginazione fervida e un grande sense of humour: una persona estremamente divertente, a dispetto dell´idea corrente di uomo d´ombre e d´angoscia. Intelligentissimo e intuitivo, capace d´indovinare al primo colpo d´occhio i problemi degli altri: perciò ci incuteva timore. Gli ho sempre invidiato la ferrea disciplina, che spiega come sia riuscito a produrre una tale quantità di opere, nel cinema e in teatro. Scriveva le sceneggiature d´inverno, girava d´estate, montava in autunno, in modo che il film potesse uscire per Natale. Non ho mai capito dove trovasse tanta energia». Attore prediletto dell´immenso Bergman, con cui ha girato quattordici film - da Il posto delle fragole a Il volto, a La fontana della vergine - sui centoquarantacinque dell´intera carriera (tra cui gli hollywoodiani L´esorcista, I tre giorni del Condor, Minority Report e gli italiani Cuore di cane di Lattuada o Il deserto dei Tartari di Zurlini), von Sydow, imponente nei suoi ottantatré anni (compiuti il 10 aprile) e 196 centimetri d´altezza, quindici anni fa ha sposato la sua seconda moglie, la francese Catherine Brelet, dopo trent´anni passati con l´attrice svedese Christina Olin, da cui ha avuto due figli, uno scrittore, l´altro produttore. Dopo le stagioni bergmaniane in Svezia e le frequenti avventure di set tra America e Italia, l´attore risiede ora a Parigi. Sente il peso degli anni? «Si nasce e si invecchia, ma si risorge: basta volerlo, rispondeva Bergman». E lei come risponde? «Vorrei invecchiare come gli ulivi pugliesi».