Fareed Zakaria,, Corriere della Sera 15/4/2012, 15 aprile 2012
La strategia per l’Iran elaborata dall’amministrazione Obama finora ha dato buoni risultati. Se pressioni senza precedenti hanno costretto Teheran a sedersi al tavolo dei negoziati, tuttavia occorrerà dimostrare straordinarie doti diplomatiche per raggiungere un accordo nel corso dei colloqui, appena iniziati, tra l’Iran e il cosiddetto «club dei 5 + 1» — ovvero Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Cina, Francia e Germania
La strategia per l’Iran elaborata dall’amministrazione Obama finora ha dato buoni risultati. Se pressioni senza precedenti hanno costretto Teheran a sedersi al tavolo dei negoziati, tuttavia occorrerà dimostrare straordinarie doti diplomatiche per raggiungere un accordo nel corso dei colloqui, appena iniziati, tra l’Iran e il cosiddetto «club dei 5 + 1» — ovvero Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Cina, Francia e Germania. Nell’aria aleggia un certo pessimismo: un accordo concreto sarà possibile solo se, come in ogni trattativa riuscita, entrambe le parti avranno qualcosa da portare a casa. Come potrebbe configurarsi un accordo? Da molto tempo gli Stati Uniti chiedono all’Iran di sospendere l’arricchimento dell’uranio, il procedimento che consente di produrre il combustibile necessario alla bomba atomica. L’Iran sostiene di avere il diritto all’arricchimento, perché lo definisce a scopi pacifici. Oggi è lecito sperare che si stia per raggiungere un compromesso intelligente. Washington ha proposto all’Iran di fermare l’arricchimento dell’uranio al 20 percento, il livello a partire dal quale il combustibile può essere facilmente destinato ad applicazioni militari. L’Iran ha fatto capire che potrebbe accettare questo limite e arricchire solo al 3,5 o al 5 percento, e affermare al tempo stesso di aver salvaguardato il suo diritto all’arricchimento. Ma l’Iran avrebbe comunque ancora a disposizione riserve di uranio arricchito al 20 percento, prodotto negli ultimi due anni, forse sufficiente per costruire un ordigno nucleare. Teheran ha respinto la richiesta di Washington di trasferire e far custodire all’estero queste scorte di uranio, sostenendo di averne bisogno per la produzione di isotopi a uso ospedaliero. Ricordiamo tuttavia che l’Iran fu vicino a siglare un accordo su questo punto nel 2009, e ne propose un altro nel 2010, accettando di spostare all’estero questo uranio a basso arricchimento. Oggi le dichiarazioni dei negoziatori, da una parte e dall’altra, lasciano intravedere che si potrebbero adottare elementi di quelle vecchie proposte: spedire all’estero una parte delle scorte dell’uranio iraniano in cambio di piastre di combustibile completate, che vengono utilizzate nella produzione di isotopi in ambito medico. È corsa voce che Washington vuole chiedere all’Iran di chiudere l’impianto nucleare di Fordo, dove l’arricchimento di alto livello viene eseguito in una centrale segreta, ricavata nel ventre di una montagna nei pressi di Qom. (Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha avanzato espressamente una richiesta in tal senso la scorsa settimana). L’Iran si è rifiutato, affermando di avere il diritto di posizionare i suoi impianti nucleari dove meglio crede, dato che il suo programma nucleare è per uso civile. Washington farebbe meglio ad ammorbidire la sua posizione su questo punto, a condizione che l’Iran accetti le visite accurate di ispettori indipendenti. Il punto cruciale sul quale l’Iran dovrebbe fare importanti concessioni riguarda appunto le ispezioni. Il rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica, emanato nel 2011, elenca una serie di fattori che stanno a indicare la precisa volontà iraniana di puntare alla bomba atomica. I «5 + 1» dovrebbero far riferimento a questo documento per elencare quali sono le azioni che l’Iran si impegna a non intraprendere, e per insistere che l’Aiea ottenga pieno accesso a tutti i siti, in modo da poter controllare che il programma militare sia stato effettivamente accantonato. Se accettasse le ispezioni dell’Aiea, l’Iran sarebbe ricompensato con la revoca progressiva delle sanzioni, man mano che i controlli procedono senza ostruzionismi. Ma gli accordi funzionano se vengono accettati da entrambe le parti. Al momento attuale c’è motivo per credere che i vertici più intransigenti del paese, sotto la guida del leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, potrebbero essere disposti a trattare. Khamenei ha rafforzato il suo potere, smantellando il Movimento verde; si è riconciliato con un temibile rivale, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani; e ne ha emarginato un altro, il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Khamenei si è inoltre ritagliato ampi spazi di manovra per fare concessioni sul programma nucleare. Rileggiamo la dichiarazione categorica emanata a febbraio: «La nazione iraniana non insegue e non inseguirà mai l’arma nucleare … perché la repubblica islamica, dal punto di vista logico, religioso e teorico, considera il possesso delle armi nucleari un grave peccato e ritiene insensata, oltre che distruttiva e pericolosa, la proliferazione di questi armamenti». Khamenei avrà voluto preparare il terreno, per spiegare le eventuali concessioni in patria. La strategia di Obama è quella di dire all’Iran: «Vi chiediamo soltanto di convalidare le vostre affermazioni con azioni concrete», un modo assai scaltro per formulare le sue richieste. Ma se l’Iran farà concessioni, gli Stati Uniti dovranno accettarle e sollevare in parte le sanzioni. Ma è proprio qui che lo schieramento repubblicano di Washington potrebbe creare ostacoli. Se i repubblicani interferiscono con i negoziati, o si rifiutano di ricambiare, accettando l’abolizione delle sanzioni, non ci sarà nessun accordo. Il governo Obama ha sin qui negoziato abilmente con i suoi alleati, Russia, Cina, le Nazioni Unite e persino con Teheran. Per portare a casa l’accordo, tuttavia, Obama dovrà vedersela con il suo peggior avversario, che rischia di far fallire le trattative: il partito repubblicano. ©2012 Washington Post Writers Group (Traduzione di Rita Baldassarre)