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 2012  aprile 15 Domenica calendario

PEZZI SULLA MORTE IN CAMPO DEL CALCIATORE MOROSINI


CORRIERE DELLA SERA

MARCO GASPERETTI
Tre volte Piermario è caduto sul prato. Ha tentato di rialzarsi, fiero come sempre, orgoglioso della maglia che indossava da appena due mesi e mezzo. Forse neppure lui ha avuto la percezione di che cosa gli stava accadendo, in quello stadio, davanti a migliaia di spettatori, durante una partita di calcio, lo sport che da sempre amava di più. È crollato a terra dopo 31 minuti di gioco. E poco più di un’ora dopo Piermario Morosini, 25 anni, bergamasco, centrocampista del Livorno, è morto senza riprendere conoscenza al pronto soccorso dell’ospedale di Pescara.
«Arresto cardiocircolatorio», le due parole che provvisoriamente i medici hanno scritto nell’ultimo referto, non spiegano la tragedia. Infarto? Emorragia cerebrale? Rottura dell’aorta? «Tutte ipotesi possibili, ma solo un’eventuale autopsia (poi prevista tra oggi e domani, ndr) potrà spiegarci che cosa sia accaduto a quel ragazzo», spiega Leonardo Paloscia, primario del reparto di cardiologia dell’ospedale che ieri era allo stadio ed è stato tra i primi a soccorrere il giocatore. Il professor Paloscia ha tentato di tutto per strappare alla morte il calciatore. «All’ospedale gli abbiamo applicato un pacemaker — racconta —, lo abbiamo ventilato, praticato per più di un’ora il massaggio cardiaco. Mai il cuore ha accennato a riprendersi. Neppure un battito». Poco prima delle 17 i medici sono usciti dalla porta di terapia intensiva e hanno annunciato la morte del calciatore. Nella saletta d’aspetto la disperazione dei compagni di squadra. E con loro i tifosi, livornesi e pescaresi, con in mano ancora bandiere e striscioni.
«Morosini era un ragazzo sano, un atleta, un ragazzo straordinario — dicono i medici e i dirigenti delle squadre (tra queste Udinese, Vicenza e Livorno) dove aveva giocato —. E soprattutto controllato, come ogni atleta professionista».
Ieri Piermario stava benissimo ed era stato schierato titolare, a centrocampo, come sempre. «Nessun segnale premonitore, nessun sintomo. Era sereno, tranquillo, in forma», ha spiegato il medico sociale del Livorno Manlio Porcellini. E nella prima mezz’ora di gioco, proprio Morosini aveva contribuito a far segnare due gol alla sua squadra che stava vincendo.
L’azione della tragedia, pochi attimi che resteranno impressi per sempre nel libro nero del calcio mondiale (ieri molti giornali internazionali hanno dato la notizia di quella morte in diretta) è strana e incongrua. Morosini corre, senza palla, verso la sua area per arginare un attacco avversario. Cade per la prima volta, si rialza ma crolla ancora. Tenta di rimettersi in piedi per l’ultima volta ma le gambe si piegano e il corpo si allunga sul campo in una posizione anomala. Vicino a lui c’è il compagno Pasquale Schiattarella. Capisce subito. «Ferma il gioco», grida all’arbitro. Chiede, disperato, aiuti alla panchina mentre cerca di dare una mano a Piermario. Poi scoppia in un pianto premonitore. Lo stadio rumoreggia per qualche minuto. Poi il silenzio. Tutti hanno capito. Il defibrillatore è accanto alla panchina e viene impiegato quasi subito. Massaggio cardiaco, ventilazione assistita, brividi e lacrime mentre, sugli spalti, una signora non regge alla scena, sviene e finisce all’ospedale.
L’ambulanza, bloccata da un’auto dei vigili urbani lasciata in sosta dove probabilmente non doveva stare, arriva con alcuni minuti di ritardo. Troppi. Mancano i barellieri e sono i calciatori del Pescara a trasportare l’atleta. Lo spettacolo non può andare avanti e l’arbitro decide la sospensione. Il pubblico applaude. «Forza Moro, forza», grida qualcuno mentre il suono della sirena dell’ambulanza si fa sempre più lontano.
Marco Gasperetti

LUCA VALDISSERI
Quando la vita ti mette troppo presto davanti alla morte di chi ami hai davanti a te due strade. Una è chiuderti in te stesso, odiare tutto e tutti, sentirti la persona più sfortunata del mondo e commiserarti. L’altra è trovare dentro di te la voglia di vivere anche per chi non c’è più, di apprezzare ogni singolo istante e di aiutare chi sta vivendo un problema, anche se magari è infinitamente meno grave di quelli che hai vissuto tu. Piermario Morosini aveva scelto la seconda strada e il ricordo che adesso tutti hanno di lui è lo stesso: «Non ci ha mai fatto pesare tutte le disgrazie che gli erano capitate. Aveva sempre il sorriso, era innamorato della vita».
Piermario non aveva avuto una vita «normale», ma forse proprio per questo voleva sembrare un ragazzo «normale». In realtà era qualcosa di più, qualcosa di meglio, ma era troppo buono e umile per dirlo.
L’ufficialità dell’Ansa ricorda così la sua vita: ultimo di tre fratelli, prima perde la mamma Camilla quando aveva 15 anni, poi il padre Aldo a 17. «Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita — disse in un’intervista al Guerin Sportivo nel 2005 — ma che allo stesso tempo ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era un sogno anche dei miei genitori. Vorrei diventare un buon calciatore soprattutto per loro, perché so quanto li farebbe felici. Per questo so di avere degli stimoli in più». Lo aiutava la zia Miranda ma le tragedie non erano finite perché arrivò anche il suicidio del fratello disabile quando Piermario era già passato a Udine, dove fece il suo esordio in serie A. Gli era rimasta la sorella maggiore, anche lei con un handicap.
Fuori dall’ufficialità un buon calciatore, Piermario, lo era diventato davvero. Dagli inizi con i «pulcini» della Polisportiva Monterosso, di Bergamo, al grande salto alle giovanili dell’Atalanta. Era un centrocampista promettente, tanto da meritarsi una maglia nella nazionale Under 17. «L’ho conosciuto lì — ricorda ora Mimmo Criscito —. Fu lui, alla mia prima convocazione, a presentarmi tutto il gruppo dei compagni di squadra e dello staff». Mettere a suo agio l’ultimo arrivato. Tipico di Piermario.
Nel 2005 l’aveva acquistato l’Udinese, per poi mandarlo in prestito con tante maglie. Poca serie A, molta serie B. Piermario amava il calcio, voleva giocare. A una panchina comoda preferiva un campo scomodo. Correndo si era guadagnato 17 convocazioni con la maglia dell’under 21, c.t. Gigi Casiraghi. Chi scrive l’aveva conosciuto lì, quando Piermario aveva giocato in un bell’Europeo, perso per pura sfortuna in semifinale contro la Germania. Non era il più bravo, ma era il più curioso: buona musica (Ligabue), buoni film, il libro come compagno, una passione per tutti gli sport, soprattutto il tennis.
Postava le sue emozioni su Twitter e, anche se è un voyeurismo orribile scavare adesso nella sua vita, c’è un suo ricordo che, siamo sicuri, possiamo rubargli. Era andato a Monaco di Baviera, con gli amici e la fidanzata Anna. A divertirsi. Ma aveva trovato il tempo per visitare il campo di concentramento di Dachau. Un luogo di immenso dolore, dove rincorrere i propri pensieri.
Luca Valdiserri

M.GASP.
Il tempo delle polemiche può aspettare, forse. Ma non quello della verità e delle risposte. Perché è morto Piermario Morosini? E i soccorsi sono stati tempestivi?
Alla prima domanda cercheranno di rispondere i medici legali ai quali la Procura di Pescara ha affidato l’autopsia sul corpo del calciatore del Livorno; alla seconda due inchieste, del Comune e probabilmente anche della magistratura. Ieri, nello sconforto di una tragedia inspiegabile, si è parlato di un’ambulanza arrivata in ritardo (ma perché non era a bordo campo come prevedono i regolamenti della sicurezza sportiva?) bloccata all’ingresso da un’auto.
Non una macchina qualunque, ma quella dei vigili urbani che, sembra, l’avessero lasciata dove non doveva stare. Per far passare l’ambulanza sono dovuti intervenire i carabinieri. Che hanno infranto i vetri dell’auto dei colleghi della polizia municipale e l’hanno spinta quei centimetri sufficienti a far passare i soccorsi. Un particolare confermato da più testimoni. E tra questi anche il portiere del Pescara, Luca Anania.
«Ci sono stati momenti di grande confusione e c’è stato anche qualche attimo di ritardo nei soccorsi — racconta Anania ancora sconvolto all’uscita del pronto soccorso dove ha appena saputo della morte di Piermario —. Ci hanno detto che l’ambulanza non poteva entrare sul terreno di gioco perché l’ingresso era ostruito da un’altra macchina. Alcuni miei compagni hanno portato la barella a mano fino all’ambulanza. Abbiamo sperato tutti che Piermario ce la facesse. Una tragedia, un dolore immenso per tutti». Anche alcuni calciatori del Livorno hanno raccontato di aver più volte sollecitato l’arrivo dell’ambulanza. «Ci è sembrato un’eternità — hanno raccontato — urlavamo che facessero presto ma tutto sembrava inutile».
Al Comando dei vigili urbani di Pescara c’è stato un vertice presieduto dal comandante, Carlo Maggitti e dall’assessore comunale alla Polizia Municipale, Gianni Santilli, al quale hanno partecipato anche gli agenti in servizio allo stadio e tra questi la pattuglia dell’auto lasciata davanti al cancello. Alla fine della riunione l’assessore ha spiegato che il Comune sta effettuando gli accertamenti interni per capire cosa sia accaduto. «Faremo piena luce sulla vicenda, ma lo faremo a mente lucida e, soprattutto, respingendo ogni tentativo di intentare processi mediatici — ha spiegato Santilli —. Se sono stati commessi errori li verificheremo, ma in questo momento i nostri pensieri sono rivolti esclusivamente al giovane Morosini, un venticinquenne che aveva tutta la vita davanti».
Secondo la testimonianza di un infermiere, Marco De Francesco, tra i primi a soccorrere il centrocampista del Livorno, sul campo da gioco i soccorsi sarebbero stati immediati ed efficienti. «Avevamo tutto, ossigeno e due defibrillatori ed è stato fatto quello che serviva», ha spiegato De Francesco a una radio pescarese. Il medico del Pescara, Ernesto Sabatini, ha invece rivelato che «per un attimo il ragazzo sembrava essersi ripreso, poi però di nuovo il dramma». Si parla anche dell’uso o meno del defibrillatore, presente in campo secondo più testimoni e pronto a essere impiegato come da regolamento. «In caso di arresto cardiaco, come nel caso di Morosini, è indispensabile praticare prima il massaggio cardiaco per almeno un paio di minuti — prosegue Sabatini — Se ci sono segnali elettrici, allora entra in funzione il defibrillatore. Ma sul campo il defibrillatore non è stato usato perché è uno strumento che rileva automaticamente gli impulsi, e come in questo caso se non c’è impulso la macchina non parte».
M.Gasp.

BEPPE SEVERGNINI
Q uesto è il reality della morte, e dovremo abituarci. Le immagini di un ragazzo che chiude la vita su un campo di calcio sono strazianti ma, purtroppo, ipnotiche. Sono state riprese da molte angolazioni. Sono disponibili video, replay, fotosequenze, addirittura filmati in ospedale e dagli spogliatoi: la sfilata dei compagni di squadra attoniti, ripresa da uno spiraglio della porta, mentre una voce grida «Un po’ di decoro!». Ma il decoro non c’è più. C’è invece la curiosità, che spesso è morbosa, ma non sempre. C’è una sensibilità diversa, per cui molti ritengono — in buona fede — che guardare voglia dire condividere. C’è la voglia di vedere per capire come è potuto succedere, per intuire che il confine tra la vita e la morte non è quasi mai tracciato con evidenza, ma passa misterioso tra i fili d’erba di un campo, lungo quattro strisce sull’asfalto, tra i contatti elettrici di un macchinario o gli effetti di un farmaco.
Il reality della morte esiste, non da oggi: ma oggi, grazie alla banda larga, è diventato più veloce, potente, accessibile. Nel 2001, intorno alla tragedia delle Torri Gemelle, si avvertiva ancora un certo pudore visivo. La svolta probabilmente è avvenuta a Beslan, nel 2004, quando le immagini di quei bimbi trucidati ha fatto il giro del mondo. Da allora non ci siamo più fermati, e tsunami, terremoti, incidenti, attentati, guerre e rivoluzioni hanno fornito materiale in abbondanza.
Lo sport non ha generato, ovviamente, la stessa quantità o lo stesso genere di immagini. Le tragedie sportive formano una drammatica, malinconica Spoon River: non un film dell’orrore. Ma sono tanti i personaggi che avremmo voluto vedere correre, saltare, vivere di più. E il modo di ricordarli è cambiato; perché è cambiato il modo di informarsi e conoscere.
L’addio a Renato Curi — 30 ottobre 1977, pomeriggio di pioggia a Perugia — è rinchiuso in pochi fotogrammi in bianco e nero, che per anni solo la televisione aveva il potere di mostrare. La morte di Piermario Morosini — come quella del pallavolista Vigor Bovolenta, il 24 marzo scorso — sono replicabili e verranno replicate all’infinito. Internet è una stanza immensa di specchi contrapposti. Non giudica: riproduce. Si può ragionare, certo, sul confine tra partecipazione rispettosa e voyerismo morboso: ma forse è inutile. Meglio impegnarsi per far sì che il reality della morte non aggiunga nuove puntate. O addirittura che si fermi qui, su quel prato di Pescara. Sarebbe bello, ma è impossibile.
È possibile, invece, cercare di aumentare i controlli sanitari sui giocatori. Tra le colpe dell’infame calcio-scommesse, infatti, c’è anche questa: si parla più di soldi, e meno di salute. Un passaporto biologico, nel ciclismo, è stato introdotto: nel calcio, non ancora. In Parlamento attende una proposta di legge intitolata ad Andrea Fortunato, un bravo giocatore della Juventus scomparso nel 1995, a ventitré anni. Fu leucemia, in quel caso. Ma introdurre l’obbligatorietà degli esami ematici a partire dai sei anni per tutti gli sport agonistici costituirebbe un passo importante. Diciamolo: più importante che fermare i campionati, come è stato fatto. Quando le fatalità si moltiplicano, dobbiamo interrogarci. Lo sport professionistico sta facendo abbastanza? Un passaporto biologico ben costruito — insieme a norme di buon senso, come l’obbligo di defibrillatori in campo e il rigore sulle vie di fuga — suonerebbe come una dichiarazione collettiva: la salute degli atleti, insidiata in molti modi (dalla fatalità e dalla sciatteria, dall’usura e dal doping), viene prima di tutto. Sì, sarebbe davvero un modo per impedire che il reality della morte registri nuove puntate. Rinunciamo a vederle.

ALESSANDRO BOCCI
MILANO — Il calcio si ferma per la morte di uno dei suoi fratelli. Ha deciso Giancarlo Abete. Da solo, davanti alla tv e di fronte allo strazio delle immagini di Sky. Succede tutto in fretta, sull’onda delle emozioni. La Federcalcio, appena la morte di Piermario Morosini diventa ufficiale, annuncia che su tutti i campi della serie A si sarebbe osservato un minuto di silenzio. Ma per Abete è troppo poco. Così telefona ad Antonello Valentini, il suo d.g. e subito dopo a Gianni Petrucci, presidente del Coni. L’idea è quella di fermarsi per onorare la memoria di un ragazzo sfortunato e per rispetto di quell’agonia quasi in diretta lunga un’ora e mezza. Abete è un uomo riflessivo, sa che la sua scelta, forte, può anche provocare tensioni e malumori. Ma non si ferma.
Ottenuto il via libera dal Coni, la Federcalcio prende contatto con le varie componenti. Un giro di telefonate angoscioso lungo pochi minuti: prima a Maurizio Beretta, presidente della Lega, poi a Macalli e Tavecchio, rispettivamente presidenti della Lega Pro e della Lega Dilettanti. Perché il calcio si ferma in blocco. Chiuso per lutto. Una domenica di silenzio e di riflessione. Il Coni, nel frattempo, invita le federazioni degli altri sport a far osservare un minuto di silenzio in occasioni delle manifestazioni sportive che si disputano nel weekend.
Nessuno in Figc vuole commentare la decisione presa, ma lo spettacolo non può sempre continuare. Una questione di correttezza e di rispetto, fanno sapere da Via Allegri. Una voce fuori dal coro, quella di Maurizio Zamparini, il presidente del Palermo: «Avrei giocato lo stesso per omaggiare Morosini». I giocatori, invece, sono favorevoli allo stop. E così molti presidenti. Moratti aveva telefonato sia ad Abete sia a Petrucci per far sapere che l’Inter era pronta a rinviare la sfida con l’Udinese. La Lega ha dovuto fare le cose in fretta. Perché quando viene presa la decisione di sospendere la trentatreesima giornata, Milan e Genoa sono già in campo a San Siro per il riscaldamento. Nel momento in cui lo speaker annuncia il rinvio del primo anticipo, qualche tifoso a San Siro fischia. Ma forse solo perché sugli spalti nessuno comprende subito i motivi della decisione.
Marco Brunelli, d.g. della Lega di serie A, è all’opera per rimodellare il calendario di un campionato arrivato alla fase cruciale. Già scelta la nuova data, il 25 aprile, giorno in cui si giocherà anche Real Madrid-Bayern Monaco, semifinale di ritorno della Champions League. Il problema è la contemporaneità con le coppe, vietata dagli accordi intercorsi tra la Uefa e le varie Federazioni. Perciò in Italia si potrà giocare solo di pomeriggio, ma essendo un mercoledì festivo non ci saranno problemi. Meglio tutto in un giorno, spalmato in tre o quattro blocchi: alle 12.30 alle 15, alle 17 e alle 18.45. La scelta di giocare il 25 aprile cancella, di fatto, lo stage della nazionale di Prandelli, previsto a Coverciano nei giorni 23 e 24. La Federcalcio e lo stesso c.t. non si opporranno alla inevitabile decisione della Lega, né chiederanno una nuova data. Resta una sola decisione importante da prendere: il 25 si recupera la giornata persa, oppure il campionato slitta? Si va verso la seconda soluzione, la preferita dalla Lega per la regolarità del torneo. In questo caso sabato e domenica prossima si giocherà il turno appena saltato e il 25 aprile andrà in onda la trentaquattresima. Brunelli deve però risolvere un caso di quasi contemporaneità a Bergamo dove sabato è in programma AlbinoLeffe-Juve Stabia e domenica si giocherebbe Atalanta-Chievo.
Alessandro Bocci

MARGHERITA DE BAC
ROMA — «Per poter salvare una persona colpita da arresto cardiaco occorre che il defibrillatore sia disponibile in quattro, massimo cinque minuti. A ogni minuto di ritardo si riduce del 10 per cento il margine di successo».
In attesa dell’esito dell’autopsia, Giuliano Altamura, primario cardiologo all’ospedale Pertini di Roma, non si sbilancia sulle possibili cause della morte di Piermario Morosini. Sottolinea però come l’uso immediato del macchinario sia l’unico trattamento salvavita.
Qualche settimana fa Fabrice Muamba (che si è ripreso), poi Vigor Bovolenta, ora Piermario Morosini. I casi di atleti che crollano in campo fulminati da arresto cardiaco sono in aumento?
«No, sono eventi rari, ma la sensazione che il fenomeno sia in espansione è legata alla grande risonanza. In realtà ogni anno in Italia si contano 60 mila casi di arresto cardiaco, per la maggior parte in persone sopra i 45 anni. Solo il 3, 4 per cento si salva».
Possibile che non si riesca a prevenire queste disgrazie? I controlli non sono adeguati?
«I nostri atleti sono controllati molto bene. Utilizziamo le migliori tecnologie per individuare i "difetti visibili". I calciatori professionisti, poi, sono super monitorati. Nel settore della medicina sportiva siamo persino più avanti degli Stati Uniti, dove il tasso di mortalità da attacco cardiaco è più alto».
Quali sono gli esami per ottenere l’abilitazione a giocare?
«Abbiamo regole molto rigide, a volte è capitato che atleti siano stati fermati con "atteggiamento conservativo". Ad esempio lo stop di Cassano è stato più lungo del necessario. Nelle serie minori i controlli sono meno severi, mediamente però il livello è molto buono».
Inevitabile pensare che la patologia mortale possa essere collegata all’uso di sostanze che migliorano le prestazioni.
«Purtroppo l’assunzione di farmaci può avere un’influenza importante sulla salute degli atleti, anche perché nella maggior parte dei casi sono medicinali sconosciuti, a volte somministrati all’insaputa dei calciatori».
A Pescara l’ambulanza ha tardato perché l’ingresso in campo era ostruito. Questo può essere stato fatale a Morosini?
«Non conosco i dettagli. In generale però si pensa che l’organizzazione del soccorso possa essere delegata. Invece è fondamentale poter contare sull’intervento di figure addestrate. Ma in Italia manca la cultura del defibrillatore. Pensi che a Fiumicino ci sono soltanto quelli del pronto soccorso».
Margherita De Bac

FABIO MONTI
UDINE — Totò Di Natale è stato il primo a sapere che Morosini era morto. E a dire: «Qui non si gioca, non si può giocare», mentre Pinzi scoppiava in lacrime. A Guidolin, stravolto dal dolore, è toccato spiegare alla squadra quello che i giocatori avevano già intuito e che non esistevano le condizioni per giocare.
Morosini era partito da Udine due mesi e mezzo fa, per trasferirsi a Livorno in prestito con diritto di riscatto, ma l’Udinese era casa sua, perché qui era arrivato nel 2005 dall’Atalanta e qui aveva debuttato in A (5 presenze) proprio contro l’Inter il 23 ottobre 2005, quando Cosmi lo aveva mandato in campo al 5’ della ripresa al posto di Mauri. L’Inter e il presidente Moratti hanno raccolto immediatamente l’invito dell’Udinese a non giocare. È stato l’azionista di maggioranza dell’Udinese, Giampaolo Pozzo, a raccontare il suo stato d’animo: «In 26 anni da dirigente non ricordo una tragedia come questa. Ho saputo in tv che Morosini era caduto a terra, ma non pensavo fosse così grave. Dopo un’ora e mezzo abbiamo saputo tutto; è una notizia terribile, un trauma vero per tutti noi. Né l’Udinese, né l’Inter erano in condizione di scendere in campo. Rimane il dolore per un giocatore al quale eravamo tutti affezionati; l’avevamo preso giovanissimo dall’Atalanta. Ha giocato molte stagioni in prestito, lo ricordo al Bologna, al Padova, al Vicenza, ma ha fatto tutti i ritiri estivi con noi. Era un bravissimo ragazzo, educato, diligente, un professionista vero e gli volevano tutti bene. Il gruppo dei nostri giocatori italiani lo conosceva da anni; era andato a giocare a Livorno perché eravamo in tanti. Uno così lo ricordi con ammirazione per come si è sempre comportato». Pozzo ha evitato di cercare colpe o responsabilità: «Rispetto al passato credo che adesso ci sia più attenzione e più prevenzione anche per le normative che impongono di salvaguardare la salute dei calciatori. Ormai i giocatori fanno una vita sana, senza farmaci, con la massima attenzione anche nel cibo. Non si può pensare a nulla che non sia la casualità». E davanti allo stadio Friuli è comparso uno striscione: «Morosini per sempre con noi». Firmato curva Nord.
Fabio Monti

LA REPUBBLICA
GIANNI MURA
Fermarsi un sabato e una domenica per un ragazzo che s´è fermato per sempre, su un campo di calcio, è un triste dovere. Non credo ci sia molto da discutere sulla decisione della Federcalcio: è una scelta di rispetto, di sensibilità, di cuore. Udinese e Inter avevano già deciso di non giocare. A San Siro, con tutti i tifosi già dentro, è volato qualche fischio, ma anche la tribù del "devi morire" capirà, prima o poi. Non aiuta a capire la moviola, che serve a scoprire il millimetrico fuorigioco o il rigore non concesso. Si vede il ragazzo cadere, cercare di rialzarsi e poi ricadere attutendo la caduta con le due braccia, come nelle flessioni, e a terra rimanere, con la faccia nell´erba. Definitivamente fuori dal gioco e da una vita fin troppo dura è andato Piermario Morosini, chiamato dai compagni Moro e Supermario, un gol solo tra i professionisti perché i gol li faceva segnare agli altri, da centrocampista coi piedi buoni.
[Un ragazzo dolce e sfortunatissimo: così l´ha ricordato Mino Favini, che di ragazzi all´Atalanta ne ha cresciuti e lanciati parecchi. Non succede spesso che, parlando di un atleta e soprattutto di un calciatore, si usi quest´aggettivo: dolce. Ma è proprio una malinconica dolcezza che si trova nelle foto di Morosini, e non è presentimento, no, ma cognizione del dolore. Non ci può essere presentimento, a quell´età. Ma coscienza e cicatrici sì. Perché si ha voglia a dire che il fulmine non cade mai sullo stesso albero, che prima o poi il vento cambierà direzione. Morosini a 14 anni ha perso la madre, a 16 il padre, a 20 un fratello suicida. Ha diviso maglia e camera d´albergo con altri che sono diventati più famosi: Ranocchia, Marchisio, Cerci, De Silvestri, Isla. Altri che hanno fatto il grande salto, ma è un modo di dire. Come giocare col cuore, buttare il cuore oltre l´ostacolo, prendersela a cuore, andare dove porta il cuore. "Tutti parlano del proprio cuore, nessuno parla col proprio cuore", aveva scritto un poeta, Alfonso Gatto. Ecco, io credo che Morosini ci avesse parlato, che ci tenesse a fare esami approfonditi, perché di cuore era morto suo padre, e col cuore lui diceva, in un´intervista a un giornale di Livorno, che inseguiva il sogno di diventare un buon calciatore perché questo era anche il sogno dei genitori, e il loro se l´era caricato sulle spalle o nel cuore, o in valigia quando andava a Udine, a Bologna, a Vicenza, a Padova, a Reggio Calabria, perché si sa che è meglio fare esperienza giocando in B che fare panchina o tribuna in A. Nulla e nessuno, neanche l´autopsia, ci sapranno dire cosa succede in un corpo sano e forse anche felice, la squadra stava vincendo, e lo trasforma in un morto da piangere. E per fortuna, nella disgrazia, che ai morti non si può fare la domanda più stupida e dunque più usata del mondo, quello sportivo in particolare: che cos´hai provato quando cadevi? Al pressing forse, o all´impressione di un pugno in petto, ma nessun avversario era vicino, o ad Anna, la sua ragazza, "la mia Annina sotto il cielo dell´Elba" come scriveva inviando la foto di loro due agli amici, a quelli che giocavano in A, quelli coi titoli in prima pagina che per lui ci sono solo se muore.
[Il grande circo si ferma per un ragazzo morto la cui vita e morte sono lontanissime dall´immaginario collettivo. I miliardari pieni di bambole tv, di Rolex, di coca, quelli che si comprano e vendono le partite, quelli che per prima cosa si fanno la Ferrari. Non lo cancella, gli fa da silenziatore. Di cuori sono pieni gli stadi: bianconeri, granata, rossoneri, nerazzurri, giallorossi, biancolesti, azzurri, rosanero, viola, rossoblù, gialloblù. Nei cori dei tifosi sono vecchi, e battono. Quello di Muamba è rimasto fermo 78´ e se l´è cavata dopo 16 interventi del defibrillatore. Quello di Morosini s´è fermato una volta sola, forse era stanco per troppe cose, e non è più ripartito. C´è chi dice che il cuore degli atleti, per gli sforzi che fanno, è più esposto, spesso ipertrofico. Ma la vita ci ha detto che di cuore muoiono obesi e fumatori, elettricisti e scrittori, banchieri e disoccupati. Forse è meglio essere fatalisti che affannarsi a cercare risposte, ché poi magari viene il batticuore. Ci sono morti che diventano di tutti e quella di Morosini lo è. Come nell´ultimo verso della Costruzione, una canzone che Chico Buarque de Hollanda scrisse nel ´71 per un muratore volato giù dall´impalcatura, "è morto contromano intralciando il sabato". Al posto di questa rubrica uno spazio bianco e silenzioso sarebbe stato più giusto, ma è un lusso che nel nostro mestiere non ci si può permettere. Ti sia lieve la terra, Piermario Morosini detto Moro.]

GIUSEPPE CAPORALE

PESCARA - È caduto a terra da solo, senza nessun contrasto, dopo appena trenta minuti di partita. Piermario Morosini, 25 anni, centrocampista del Livorno, sembrava in un primo istante semplicemente scivolato sul terreno di gioco, inseguendo un avversario. Invece, ieri pomeriggio, questo giovane calciatore non è uscito vivo dallo stadio Adriatico di Pescara. Ottomila persone in pochi attimi l´hanno visto morire sotto i loro occhi. Immagini scioccanti che hanno fatto il giro del mondo.
Una volta a terra, Morosini ha provato inutilmente a rialzarsi due volte, barcollando, ma le gambe non lo hanno più retto, e così si è riaccasciato per l´ultima volta. Il suo corpo agonizzante - con la pancia sul prato e le braccia allargate - ha vibrato ancora tre volte prima di perdere definitivamente i sensi davanti ai pochi compagni che gli erano attorno. I medici sportivi che si trovavano a bordo campo hanno cominciato a richiamare l´attenzione dell´arbitro e sono corsi verso di lui. Massaggio cardiaco, respirazione artificiale, qualche segnale di ripresa, ma non c´è stato nulla da fare. A quel punto la distrazione dello stadio è diventata di colpo disperazione. «Basta! non giocate più…», hanno cominciato a gridare dagli spalti. L´arbitro prima ha fermato il gioco e poi sospeso definitivamente la partita.
Il destino ha voluto che il primario di cardiologia dell´ospedale di Pescara, Leonardo Paloscia fosse sugli spalti. Il medico in pochi minuti ha raggiunto il rettangolo di gioco ed anche lui ha tentato di rianimarlo con il defibrillatore: «L´ho fatto quattro o cinque volte…niente…», racconta adesso con gli occhi lucidi e la voce rotta dal pianto Paloscia.
Ma non è tutta qui la cronaca di questa tragedia, purtroppo. L´ambulanza che era presente allo stadio e che avrebbe dovuto soccorrere subito il calciatore è arrivata con cinque, forse fatali, minuti di ritardo. È rimasta bloccata a causa di un´auto dei vigili urbani che ostruiva l´ingresso in campo. Un vigile del fuoco in quei secondi drammatici è stato costretto a rompere il vetro dell´auto della polizia municipale per riuscire a spostare la macchina e far passare così l´ambulanza. Con il trascorrere dei minuti i giocatori in campo hanno iniziato a piangere, mentre altri, come Verratti del Pescara, in assenza dell´ambulanza hanno cercato e trovato da soli una barella. Quando Morosini alla fine è stato trasportato in ospedale, per oltre un´ora, i medici del reparto di rianimazione del pronto soccorso hanno tentato di tutto: persino un pacemaker via endovena non è servito a far ripartire quel cuore. Quando i poliziotti presenti al pronto soccorso hanno cominciato a blindare l´ingresso invitando una trentina di giornalisti e tifosi del Pescara e del Livorno ad uscire dall´atrio, era chiaro che ci si stava preparando per comunicare la notizia di una tragedia. E così è stato. "Arresto cardiaco per fibrillazione ventricolare", dice il lapidario bollettino medico.
La Federcalcio in segno di lutto ha decretato lo stop di tutte le partite di campionato previste in questo fine settimana. Morosini proprio nel calcio aveva trovato nel calcio la forza per reagire a tante, troppe vicissitudini: nel 2001, quando aveva 15 anni, aveva perso la mamma Camilla, due anni dopo il papà Aldo. In mezzo il suicidio del fratello più grande, disabile. Era rimasto solo con una sorella maggiore, tra l´altro gravemente malata. «Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita», disse un giorno durante un´intervista «ma che allo stesso tempo ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era un sogno anche dei miei genitori. Vorrei diventare un buon calciatore soprattutto per loro, perché so quanto li farebbe felici». Ma è morto troppo presto.

SENZA FIRMA
PESCARA - I singhiozzi accompagnano le grida di dolore, qualcuno sfoga la rabbia picchiando i pugni contro le pareti del pronto soccorso: sono le 17 quando il timore si fa realtà, Piermario Morosini è morto. E i suo compagni di squadra erano lì con lui. Erano entrati nell´ospedale civile di Pescara poco prima che la notizia scuotesse il mondo sportivo, insieme agli avversari di una giornata di calcio che doveva essere come tutte le altre. Entrano in silenzio, in testa c´è l´allenatore del Livorno Armando Madonna, a seguire tutti gli altri, stretti in un abbraccio ancora carico di un briciolo di speranza, spazzata via nel giro di pochi minuti. E allora le lacrime rigano i volti della folla assiepata fuori dai cancelli. Piove. «Hai lottato fino alla fine, ciao grande Moro», recita lo striscione appeso fuori lo stadio di Livorno, insieme a un mazzo di rose rosse e la maglia numero 25.

G.CAP.
PESCARA - La sede dei vigili urbani della città di Pescara la sera della tragedia sembra un fortino sotto assedio. Fuori dai cancelli ci sono pattuglie di polizia e carabinieri a sorvegliare, per far in modo che la rabbia degli ultras delle due squadre (Pescara e Livorno) non prenda il sopravvento. Dentro la caserma, invece, è in corso una riunione drammatica. Il comandante Carlo Maggitti ha chiamato a raccolta tutto il personale presente allo stadio. Sotto accusa c´è un auto di servizio della polizia municipale che durante la partita ha bloccato l´ingresso all´ambulanza che doveva soccorrere Piermario Morosini.
E forse, quei cinque minuti di ritardo sono stati fatali. In quei secondi drammatici un vigile del fuoco è stato costretto a rompere il vetro dell´auto per riuscire a spostare la macchina e far passare così l´ambulanza. E ora non c´è solo più la rabbia degli ultras per la vicenda, ma anche un´inchiesta della Procura della Repubblica di Pescara. Il sostituto procuratore Valentina D´Agostino, che coordina le investigazioni sul caso, ieri sera ha già ricevuto una dettagliata relazione della polizia giudiziaria riguardo l´auto con foto e video.
Ora si cercherà di capire anche attraverso l´autopsia - che verrà eseguita probabilmente lunedì - se quei minuti sono stati davvero decisivi a causare la morte del giovane calciatore. Anche l´amministrazione comunale della città ha avviato un´indagine.
Un´indagine interna: «Se qualcuno ha sbagliato, pagherà…», ha assicurato ai microfoni, davanti al fuoco di domande sulla questione, il sindaco di Pescara Albore Mascia. E la resa dei conti è iniziata proprio ieri sera. L´ufficiale che guidava l´auto è stato individuato e le persone che lo conoscono e che gli sono state vicine dopo la tragedia raccontano che sia distrutto dal dolore. Certo è che comunque non solo ha bloccato l´ingresso del campo, ma, seppure ufficialmente "in servizio", si è allontanato dall´auto al punto che nei momenti cruciali i vigili del fuoco presenti hanno dovuto rompere il vetro per spostare la macchina. Ma le prime dichiarazioni dei medici del pronto soccorso assicurano che «non ci sono stati ritardi determinanti».
Il primario di cardiologia dell´ospedale di Pescara, Leonardo Paloscia che ha soccorso il giovane calciatore butta acqua sul fuoco delle polemiche: «Quei quattro o cinque minuti di ritardo sono stati ininfluenti. Il ragazzo ha avuto a mio avviso un arresto cardiaco immediato. Nonostante un´ora e mezza di tentativi il suo povero cuore non ha più battuto un colpo. Gettare adesso la croce addosso al vigile mi sembra troppo».
«Sul campo avevamo tutto, ossigeno e due defibrillatori», ha confermato lo stesso medico del Pescara, Ernesto Sabatini. «Quando c´è un arresto cardiaco, come nel caso di Morosini, prima bisogna fare il massaggio cardiaco, per almeno un paio di minuti: poi, se ci sono segnali elettrici, allora entra in funzione il defibrillatore. Ma sul campo il defibrillatore non è stato usato perché è uno strumento che rileva automaticamente gli impulsi, e come in questo caso se non c´è impulso la macchina non parte».
(g. cap.)

FULVIO BIANCHI
ROMA - Non si gioca, tornate a casa. Lo dice lo speaker di San Siro, quando manca poco ormai alle 18, orario fissato per Milan-Genoa: «La partita è sospesa per lutto». I tifosi sono già in tribuna, molti applaudono, qualcuno fischia. Giancarlo Abete, presidente della Figc, ha deciso: niente calcio nel week end, né in serie A, né negli altri campionati, fino ai dilettanti, tutto chiuso per lutto. Si farà una giornata in più mercoledì 25 aprile, di pomeriggio, il turno saltato ieri e oggi slitterà al prossimo week end, e così via. Una decisione clamorosa. L´Uefa non aveva fermato la Champions neppure l´11 settembre 2001. In Spagna si era giocata la Liga dopo la strage nella metropolitana di Atocha. In Italia, il calcio si era fermato per la morte di Raciti, ma mai era successo per una tragedia in diretta, sul campo.
Sono stati momenti concitati, di frenetiche consultazioni, ieri pomeriggio. La Federcalcio aveva inizialmente (ore 17, 21) deciso di far osservare negli stadi un semplice minuto di silenzio. Ma poi sono scattate le telefonate: Abete con Petrucci, Moratti con il n.1 del Coni: «Ci avete pensato bene, siete sicuri che basti un minuto?». L´Inter è a Udine, avrebbe dovuto giocare ieri sera. I calciatori friulani, amici e colleghi di Morosini che dell´Udinese era un ex, sono sconvolti, in lacrime: «Noi non giochiamo», dice il loro presidente Pozzo. Il patron nerazzurro condivide. Si fanno sentire anche Galliani e altri presidenti. Abete alla fine si convince: stop a tutto il calcio. Sono le 17 e 26. Poi il numero 1 del calcio informa anche Maurizio Beretta, presidente della Lega professionisti che organizza la serie A, a lungo irrintracciabile, e il sindacato calciatori. Il presidente della Lega Dilettanti e vice vicario della Figc, Carlo Tavecchio, viene a sapere dallo stop dalle agenzie. Ma tutto il mondo del calcio è sotto choc. I giocatori del Napoli, in partenza per Brindisi (oggi c´era la gara col Lecce), scendono dal charter dopo la telefonata di un dirigente. Rientrano tutti a casa, anche gli arbitri. A San Siro, tra i giocatori, scatta un impulso naturale: voltarsi verso Cassano e cercare di leggere nello sguardo di chi quei sentimenti li ha appena vissuti, fortissimi, sulla propria pelle. «Mi dispiace tantissimo», ripete lui. «Se mi accorgo che qualcosa ancora non va, smetto», aveva confessato dopo il via libera al ritorno in campo. Anche per questo, nello spogliatoio del Milan, tutti gli sono stati ancora più vicini del solito.
Il capo della polizia, Antonio Manganelli, condivide la decisione di Abete, così come il n.1 della Lega di B, Adrea Abodi. "Giusto e doveroso», ha definito lo stop lo stesso Pozzo. ma non tutti i presidenti di A sono d´accordo. Solo Zamparini, patron del Palermo, lo dice apertamente: «Si doveva giocare: sarebbe stata la vittoria della vita contro la morte». Altri avrebbero voluto giocare oggi (domenica): tutte le partite alle 15. E pazienza se stavolta le (pay) tv non sarebbero state contente. Ma è una scelta, questa, che non è stata mai presa in considerazione da Abete (e nemmeno dal Coni). Ma all´interno del calcio questa scelta così forte lascia qualche perplessità. Mentre la Figc si vede costretta a rinunciare anche allo stage della Nazionale, in preparazione agli Europei: era in programma a Coverciano il 23 e 24 aprile. Non se ne fa nulla. C´è il campionato.

FRANCESCO FASIOLO - CORRADO ZUNINO
ROMA - Troppe tragedie, troppo vicine. Dai campi di volley a quelli di calcio. «Cosa sta succedendo? Ogni fine settimana ce n´è una nuova». Se lo chiede su twitter l´ex juventino Enzo Maresca, ma in realtà è la domanda che in queste ore ronza in testa a tanti, atleti e non. «È un problema di varie discipline dice il ministro per lo sport, Piero Gnudi ed è questa trasversalità che mi fa pensare che forse i controlli medici non sono sufficientemente approfonditi e frequenti, perché il corpo umano cambia e quindi va seguito con una frequenza abbastanza ravvicinata». È dello stesso parere il professor Ciro Campanella, cardiochirurgo e primario all´ospedale San Filippo Neri di Roma: «Negli atleti professionisti i test speciali dovrebbero diventare routine: il loro cuore più muscolarizzato nasconde meglio eventuali aritmie. E questi problemi non si individuano più con le classiche prove da sforzo, salita e discesa sul cubo, cyclette. Servono sistemi più invasivi. Novanta minuti di stress da partita sono ben più intensi di una prova da sforzo. E se Morosini è morto per un´aritmia cardiaca, abbiamo assistito al fallimento nella prevenzione».
Eppure la medicina sportiva italiana è considerata all´avanguardia. Intanto perché è l´unica a richiedere per legge una visita di idoneità obbligatoria a chi vuole fare sport a livello agonistico. I calciatori devono farla ogni anno: un elettrocardiogramma a riposo, uno sotto sforzo, una spirometria (analisi della capacità di polmoni e bronchi), esame delle urine. Il check up, deciso da un decreto del 1982, presenta piccole differenze a seconda del tipo di sport praticato (in alcuni casi, come per il pugilato, sono previste anche visite neurologiche e oculistiche) e i medici possono richiedere specifici esami cardiologici all´atleta. Il tutto avviene in un Istituto di medicina dello sport o in una struttura abilitata. Il via libera, se ottenuto, è però solo un primo passo: i professionisti (quindi, nel calcio, dalla serie A alla Lega Pro) infatti sono sottoposti ad altri controlli almeno ogni sei mesi, come deciso da una legge del 1981 e da un decreto ministeriale del 1995. Questa volta se ne occupa il medico della squadra: esami del sangue ed elettrocardiogramma, più eventuali analisi specifiche. Una volta superati i test, però, la salute di chi gioca deve essere garantita dalla sicurezza a bordo campo. Ambulanze sono presenti in tutti gli stadi, e in pratica tutte le squadre di serie A hanno un defibrillatore a disposizione durante i match. Che non è, però, obbligatorio. «Valuteremo la prossima settimana con il Coni - spiega il ministro Gnudi - la proposta di dotare tutti gli impianti delle massime serie di un defibrillatore». «Uniamo le menti migliori della medicina sportiva e della cardiologia - è l´idea di Campanella - e incontriamoci con Coni e Figc».

ALESSANDRA RETICO
Era quello che è stato nell´ultimo istante. Il ragazzo che voleva rialzarsi tutte le volte. Rimettersi in piedi comunque, anche con quel dolore fortissimo, così dentro. Il bambino guerriero, quello che a 25 anni muore dopo aver visto morire tutti: la madre, il padre, il fratello. Piermario Morosini, il calciatore triste anche se non lo dava a vedere. Se ne è andato sul campo come era entrato nella vita, guardando più in là, sperando che l´ultima curva fosse almeno per un giorno più dolce. Più clemente, meno bastarda. È andato a guardarla, ci ha provato ad aggirarla, perché era abituato a sterzare oltre il buio, a sopravvivere con quello che resta. Anche ieri ci ha provato, si è tirato su dopo il primo colpo, ma la seconda è stata una sporca frustrata, un calcio al cuore fondo e troppo profondo che l´ha sbattuto giù, petto contro il prato, quegli occhi neri e grandi che chissà cos´hanno visto.
Noi il suo corpo assurdo, sbatacchiato dalla sorte, contro la sua volontà accanita e selvaggia di farcela ancora. Le ginocchia poi le mani in terra, quasi a respingerla, per non farsi prendere. Poi l´angoscia di chi si accorge che stavolta no, non è come al solito, oggi il guerriero se lo prende un destino che sembra scritto. I compagni piangono, piangono moltissimo, è il segno.
Calci dati e presi presto. I primi nel suo quartiere, a via San Gregoro Barbarigo 2 a Bergamo, la città dove era nato il 5 luglio 1986. Alla Polisportiva Monterosso inizia come terzino, poi mostra doti di promettente centrocampista e così cambia ruolo, passando alle giovanili dell´Atalanta. «Sin dal suo arrivo a Zingonia si era intuito che Piermario avrebbe potuto intraprendere una carriera importante. Naturali capacità tecniche, una gran volontà caratteriale di emergere. Pensavo che la vita l´avesse già provato fin troppo e invece no, anche questo». Mino Favini lo ha conosciuto e ammirato presto, Piermario aveva 12 anni all´epoca, un bambino. «Ha giocato in tutte le nostre squadre giovanili e di tutte è stato capitano, fino alla primavera. Teneva sul volto velatamente triste una dolcezza incredibile e aveva una disponibilità totale nei confronti dei compagni». Anche se dentro gli stava succedendo tutto. Ultimo di tre fratelli, prima perde la mamma Camilla nel 2001 quando ha appena 15 anni, poi il padre Aldo, per problemi di cuore, a 17. «Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita» disse in un´intervista al Guerin Sportivo nel 2005. «Ma che allo stesso tempo ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era un sogno anche dei miei genitori». Per lui il calcio è una medicina. Disse ancora: «Vorrei diventare un buon calciatore soprattutto per loro, perché so quanto li farebbe felici. Per questo so di avere degli stimoli in più». Vince uno scudetto con gli allievi a Bergamo e perde una finale con la Primavera. Poi qualche apparizione in panchina ma mai l´esordio con la prima squadra. Non ha nemmeno 19 anni che insieme a Marco Motta e ad altri due compagni viene ingaggiato dall´Udinese. Ma non ha pace Piermario.
Suo fratello maggiore, disabile, si uccide. Rimane un´altra sorella, più grande, disabile anche lei. Piermario vive solo, con l´aiuto della zia Miranda. Va avanti, resiste. È il calciatore di provincia, uno qualunque per chi non lo conosce, non è Balotelli, invece i tifosi lo chiamano Supermario. Serse Cosmi lo fa esordire in A a Udine, contro l´Inter, nel secondo tempo: «Mi aveva colpito per la sua maturità, aveva sopportato così tante cose». Piedi buoni Piermario, e anche il resto. In Friuli 5 presenze nella massima serie, poi le maglie di Bologna, Vicenza, Reggina, Padova. L´Under 21. Il 31 gennaio di quest´anno, infine, il passaggio in prestito al Livorno, lo ha voluto il neo allenatore Armando Madonna, pure lui bergamasco.
Piermario metteva radici, a lui che gliele avevano tolte. Era fidanzato con Anna, lui la chiamava Annina, di Udine. Amava cucinare con lei, molta vita domestica, ma anche andarci in viaggio, specie in montagna, gli piacevano le ruvidezze e i panorami aspri. Adorava Almeyda, il calciatore argentino, e Ibra, gli avevano regalato una sua maglia della nazionale svedese. Due estati fa l´Atalanta cercò di riprenderselo. Non tornò allora a casa. A casa ci è tornato ieri. Con quegli scarpini luccicanti che entrano nell´ambulanza e che adesso si capisce che erano il saluto del guerriero. L´unico possibile, l´addio che era da sempre successo. Piermario ingoiato da una storia cocciuta, che non prevede altri finali.

LA STAMPA
FRANCESCO SEMPRINI
Ancora una volta a fare notizia su un campo da gioco non è il risultato della partita, ma una tragedia. Quella che si è consumata ieri a Pescara nel corso del confronto tra la squadra abruzzese e il Livorno per la serie B. Sono passati 31’ e Piermario Morosini, centrocampista della formazione toscana si accascia a terra, tenta di rialzarsi, ma cade una seconda volta, tenta ancora ma le gambe gli cedono. Non si muove più. La situazione appare subito grave, scattano i medici da bordo campo poi dalla panchina del Livorno accorre il medico Manlio Porcellini, assieme al massaggiatore del Pescara Claudio D’Arcangelo. L’arbitro Silvio Baratta ferma il gioco. «Gli ho subito fatto il massaggio cardiaco e per un attimo ho avuto la sensazione che si fosse ripreso» spiega D’Arcangelo. Ma è solo un’illusione. L’arrivo dell’ambulanza è ritardato da un’auto della polizia municipale che blocca l’entrata sul campo dell’Adriatico. Gli addetti alla sicurezza sono costretti a spaccare un deflettore e spostarla a spinta per liberare la via di accesso. Si perdono alcuni minuti. Accorre dagli spalti Leonardo Paloscia, primario di Emodinamica dell’Ospedale civile Santo Spirito che lo scorterà assieme al personale paramedico. «Mi ha guardato negli occhi quando è entrato nella vettura», dice l’ad del Pescara, Danilo Iannascoli, come a dire che fosse cosciente. In campo il gelo si trasforma in disperazione, un pianto collettivo accomuna i giocatori delle due formazioni e il pubblico. La curva Nord chiede l’interruzione immediata della partita, una spettatrice accusa un malore, e viene ricoverata senza tuttavia conseguenze serie. L’arbitro Baratta manda tutti negli spogliatoi, in campo rimane solo Zdenek Zeman, ammutolito. «Per lui questa di Morosini è una mazzata finale», dirà più tardi l’ad del Pescara Daniele Sebastiani. L’ambulanza con a bordo Morosini arriva in ospedale alle 16.07, la diagnosi è «crisi cardiaca con successivo arresto cardiocircolatorio». Arriva al pronto soccorso in fibrillazione ventricolare, in uno stato di anomalia degli impulsi elettrici cardiaci. Gli vengono praticate manovre di ventilazione e rianimazione, poi viene intubato e messo in coma farmacologico con stimolatore esterno, un «pace-maker». Intanto dagli spogliatoi i giocatori di Pescara e Livorno accorrono in pullman verso l’ospedale uniti in unico abbraccio per «Moro». Li seguono i tifosi di entrambe le formazioni. Davanti all’entrata del Pronto Soccorso un muro di persone fa il tifo per Piermario, sono momenti di trepidante attesa. Ma anche di concitazione, i cronisti vengono allontanati. Poi la notizia che gela animi e speranze arriva alle 17 circa: «Morosini è deceduto». La salma dell’appena 25enne Piermario viene trasferita nell’obitorio dell’ospedale di Pescara tra la disperazione generale. Non c’è più nulla da fare. Il pullman del Livorno lascia, fra gli applausi dei tifosi del Pescara, la strada antistante il nosocomio. Nessuno parla tutti sono chiusi in un ermetico mutismo luttuoso. A rompere il silenzio, tra le lacrime, è il portiere del Pescara, Luca Anania: «E’ una tragedia non c’è altro da dire». È difficile trovare un perché al fatto di morire a 25 anni su un campo da gioco. Potrà aiutare forse l’autopsia affidata dalla Pm della Procura pescarese Valentina D’Agostino all’ anatomopatologo Cristian D’Ovidio. Potrà essere effettuata trascorse le 24 ore dall’accertamento della morte, quindi non prima di domani pomeriggio forse lunedì mattina. Da lì si potrà sapere qualcosa di più: «Il problema potrebbe non essere partito dal cuore, forse è stato scaturito da qualche anomalia di carattere cerebrale», spiega a La Stampa, Paloscia. Montano intanto le polemiche per la vicenda dell’ambulanza: il Comune di Pescara avvierà un’indagine interna e collaborerà con l’autorità giudiziaria per fare chiarezza sulla vicenda, e sebbene il sindaco Luigi Albore Mascia, sostenga che non ci siano stati ritardi nei soccorsi, assicura che verrà fatta la dovuta chiarezza. Intanto in città è arrivata Anna, la giovane fidanzata di Morosini, una giocatrice di pallavolo accorsa in Abruzzo appena saputo del malore. Alla ragazza, accompagnata dai familiari, è affidato il tragico compito del riconoscimento ufficiale della salma dello sfortunato calciatore. Al suo fianco, c’è don Luciano Manetti: «Conosco Anna da tempo - dice il sacerdote bergamasco -. Sono qui per dare a lei e alla sua famiglia un sostegno morale in un momento così drammatico». A Livorno, intanto, Piermario viene ricordato con uno striscione posto sui cancelli della tribuna centrale dello stadio Picchi: «Hai lottato fino alla fine, ciao grande Moro».

SENZA FIRMA
La corsa, il tentativo disperato, il dramma. Dottor Ernesto Sabatini, medico del Pescara, purtroppo è stato tutto inutile...
«Io e il nostro massaggiatore siamo entrati in campo immediatamente. Prima dei colleghi del Livorno e senza nemmeno aspettare il via libera del quarto uomo perché eravamo là, a quindici metri da Morosini. Prima si è accasciato, poi ha cominciato a barcollare ed è finito a terra: ho subito capito che stava accadendo qualcosa di anomalo e gravissimo...».
Il suo cuore si è subito fermato?
«Per uno, due minuti ho provato a rianimarlo. Per un attimo sembrava che rispondesse alle sollecitazioni, ma è stato solo un attimo. Poi...».
Intorno a lei, il silenzio.
«Non so che cosa mi stesse accadendo attorno. C’erano i ragazzi, i giocatori, il dolore. Ricordo che Verratti (centrocampista del Pescara, ndr) mi ha sussurrato di aver visto Morosini rattrappire le mani prima di cadere a terra. È come, mi ha detto, se le sue dita improvvisamente si fossero messe a formare un artiglio, rigide, immobili...».
Cosa le rimane di quegli attimi?
«Un ragazzo, giovane, se n’è andato in pochi istanti. E mentre faceva ciò che rappresentava la sua vita, ovvero il calciatore...».

FABIO POLETTI
La vita gli aveva regalato quasi niente. La morte si è presa tutto. A nemmeno 26 anni - li avrebbe compiuti il 5 luglio - Piermario Morosini aveva imparato a convivere con così tanto dolore che si fa fatica anche a immaginarlo. A quattordici anni un brutto male aveva portato via suo padre Aldo, due anni dopo la madre Camilla. Gli erano rimasti un fratello e una sorella più grandi, entrambi disabili gravi. Il primo si è suicidato pochi anni fa, la sorella è ricoverata da sempre in un istituto. C’era zia Miranda a occuparsi di lui, che oggi se fosse ancora viva avrebbe più di novant’anni. Eppure, con tutto questo dolore che avrebbe schiantato chiunque, Piermario Morosini si era aggrappato all’esistenza come pochi. «Spesso mi sono chiesto perché sia capitato tutto a me, ma non riesco mai a trovare una risposta e questo mi fa ancora più male. Però la vita va avanti», si era confidato sette anni fa con un amico giornalista del «Guerin Sportivo», l’anno in cui era passato dalla giovanile dell’Atalanta all’Udinese, l’anno in cui aveva iniziato a mettere le ali ai piedi.

I primi calci li aveva tirati sul campetto del Monterosso, a Bergamo dove ogni tanto tornava. Ma erano più le volte in cui Anna, Anna Vavassori, la sua fidanzata, volava a Livorno da lui con il cagnolino Whisky. Anna che su «Twitter» mette le foto dell’ultima gita all’Elba e un messaggio da ragazzina: «Magia complicità occhi luce felicità incontri futuro meraviglia splendido amore». Anna senza più futuro, che gioca a volley nel Valpala in serie C e che invece di essere a Paladina per la partita con il Bodio Lomnago corre in macchina fino a Pescara in ospedale. Dove finisce la carriera e la vita di quel mediano che galoppava come un matto e che aveva fatto accendere una lampadina ai talent scout dell’Atalanta. «Era un ragazzo intelligente, uno che aveva stoffa anche se sul suo volto c’era sempre un velo di tristezza», lo ricorda Mino Favini, il preparatore dei giovanissimi nerazzurri che lo ha seguito per anni.

Ma Piermario Morosini poteva permettersi di sbagliare niente. «Ci tengo a prendere il diploma di ragioniere, è tutto sulle mie spalle...», si era confidato con i pochissimi amici. Daniele Martinelli, che ha giocato con lui due anni nel Vicenza fino al 2009, al telefonino fa fatica a non piangere: «Sembra retorico ma era davvero un ragazzo d’oro. Sapevamo tutti delle tragedie della sua vita, ma non ne parlava mai». C’è chi si ricorda che dall’Atalanta se ne era andato presto, con tutto quello che gli era capitato nella vita non poteva permettersi di perdere troppo tempo. Eppure non c’è squadra dove abbia giocato anche per poco - dall’Udinese al Bologna, dal Vicenza alla Reggina, dal Padova al Livorno, la sua ultima maglia - dove Piermario Morosini non abbia lasciato un ricordo solare malgrado tutto. Giancarlo Finardi, il suo allenatore negli ultimi due anni della Primavera dell’Atalanta, lo raccontava sempre: «Prima di una finale con la Roma avevo chiesto ai tre giocatori, che avevano portato la fascia da capitano durante tutta la stagione, chi volesse indossarla anche in quella partita così importante. E tutti e tre avevano fatto il nome di Piermario».

Al massimo Piermario Morosini si faceva prendere in giro per la sua passione mai nascosta per la Sampdoria: «Sono cresciuto con il mito di Roberto Mancini...». Ma nel suo palmarès personale aveva in mente due giocatori dell’Argentina, Fernando Redondo, conosciuto mentre stava al Milan, e Matias Almeyda, passato per la Lazio, il Parma, l’Inter e il Brescia: «Vorrei avere la classe di Redondo e la cattiveria agonistica di Almeyda». Ma non ce n’è uno che ricordi un episodio «da cattivo» di Piermario Morosini, né dentro né figuriamoci fuori dal campo. Lui era fatto così, sembrava sempre contento, e pare un paradosso con tutto quello che gli era capitato nella vita. Perché nella sua giovane esistenza lui immaginava che il meglio sarebbe dovuto ancora arrivare. E in quella intervista al «Guerin Sportivo» lo aveva pure detto, e si capisce che era una speranza di vita più che un sogno da calciatore: «All’Udinese vado senza troppe pretese, non posso pretendere di giocare subito, ma so che il tempo è dalla mia parte e che dando il massimo mi potrò togliere delle soddisfazioni».

MARCO ANSALDO
Giancarlo Abete stava davanti alla tv nel salotto di casa quando sono apparse sullo schermo le immagini di Morosini che si accasciava a terra, provava più volte a rialzarsi come un animale ferito, fino a restare immobile sul prato. Poi l’animazione dei primi soccorsi, la tragica verità che si faceva strada. La decisione di bloccare tutto il calcio nel weekend è nata in quel momento. Il presidente della Federcalcio non è un modello di decisionismo ma ci sono situazioni che spingono all’azione immediata persino l’uomo più prudente. Anche il direttore generale Valentini aveva seguito le scene in tv. «È stato straziante, dobbiamo prendere una decisione forte si sono detti i due al telefono -. Qui c’è un ragazzo che rischia di morire sul campo».

I minuti successivi sono serviti a consultare l’ex milanista Albertini, vicepresidente federale, i presidenti delle tre Leghe e il presidente del Coni, Petrucci, che non poteva non condividere l’idea, lui che bloccò l’intero sport italiano per la morte di Papa Wojtyla. Tutti d’accordo: «Se Morosini muore ci si ferma», anche se in un primo tempo la Lega di A aveva optato per il minuto di silenzio e il lutto al braccio, come era stato comunicato alle 17 a Galliani il quale aveva chiesto cosa si dovesse fare. Milan-Genoa era alle porte, i giocatori si scaldavano, turbati da quanto avevano visto ma convinti che si sarebbe giocato.

L’ufficializzazione della morte di Morosini ha ratificato la scelta. «Non si gioca». Mezz’ora prima dell’inizio, lo speaker di San Siro annunciava ai 43.517 presenti che potevano andarsene a casa. Sulle prime nessuno ci capiva nulla e partivano i fischi. Poi l’annuncio era ripetuto in modo più chiaro e i giocatori del Milan applaudivano. Gli spettatori che non avevano saputo la notizia capivano che era successo qualcosa di tragico e si univano all’applauso. Magari chi era arrivato dal Sud teneva per sé l’impressione di una scelta esagerata ma di fronte alla morte di un ragazzo di 25 anni nessuno voleva impersonare il cinismo.

È lo stesso spirito con cui la notizia veniva accolta nei ritiri dove ci si preparava alle partite di oggi. A bassa voce (più i dirigenti che i giocatori, a dire il vero) obiettavano che fermarsi non avrebbe aggiunto nulla al cordoglio ma nessuno avrebbe poi avuto la faccia per sostenerlo pubblicamente. Le squadre sparse in tutt’Italia tornavano a casa. Milan e Genoa invece si allenavano per un’ora a San Siro, i rossoneri a fare il «torello» e una partitina nella metà campo di destra, i genoani in quell’altra, almeno è quanto è stato possibile vedere prima che gli «steward» spediti da Galliani cacciassero i curiosi dalle tribune, forse per evitare che vedessero come, riposto per un attimo il dolore, tutti si allenassero con lo spirito di sempre. Intanto a Madrid si osservava il minuto di raccoglimento prima di Real-Sporting Gijon (con la foto di Morosini sul display del Bernabeu) e il Barcellona giocava con il lutto al braccio.

Ora si apre la «querelle» sul recupero della giornata, il secondo della stagione. La data è mercoledì 25 aprile, giorno festivo che permetterà di spalmare le partite in orari diversi fino alle 18,30, perché poi ci sono le semifinali di Champions (su questo punto potrebbe essere chiesta una deroga all’Uefa). Le tv storcono il naso perché vorrebbero anticipare qualcosa al martedì e non è possibile poiché le squadre di maggior audience sono impegnate la domenica. Tuttavia il nodo da sciogliere è sul calendario: molti club premono perché la giornata di ieri slitti al prossimo weekend e quelle di domenica al 25 aprile, mantenendo intatta la successione degli avversari. In qualche città si creerebbero problemi di sovrapposizione con le partite di B però resta l’ipotesi più probabile. Altrimenti qualcuno parlerà di campionato falsato.

SIMONE DI SEGNI
Gli interrogativi sui controlli sanitari affiorano nel giorno in cui lo sport italiano è sconvolto. La morte di Morosini ha scaraventato il tema al centro del dibattito: il punto - secondo un sentire comune di chi opera nel calcio - è che certe domande andrebbero poste in un’ora qualunque dell’anno. I medici del pallone danno l’impressione di essere uniti nel respingere l’idea che il dramma affondi le radici in un vizio del sistema: al più si parla di applicazione delle regole, precisando che nel caso specifico del calciatore del Livorno qualunque giudizio sarebbe affrettato.

Di fronte al decesso di un ragazzo di ventisei anni, tuttavia, è impossibile arrendersi. Occorre spingersi oltre, porsi un quesito in più. Ecco quello del ministro dello sport Piero Gnudi: «Quest’ anno non è la prima tragedia. Forse bisogna interrogarsi se i controlli medici devono essere più approfonditi e forse anche più intensificati. Non è possibile che un giovane muoia giocando a calcio», così il rappresentate del Governo a Radiouno.

Le tragedie, tuttavia, non sono circoscritte al calcio. La casistica racconta che è il basket a guidare la classifica nera e la trasversalità non sfugge al ministro. Gli esperti parlano di un caso di morte improvvisa ogni 100-300 mila atleti sotto i 35 anni: cardiopatie ipertrofiche, displasie ventricolari e problemi alle coronarie sono le cause più frequenti. Ma «il modello italiano di valutazione pre-attività sportiva è valido e ha fatto scuola negli altri Paesi», spiega il presidente della Federazione internazionale medicina sportiva, Fabio Pigozzi. Il punto è questo: «Alcune patologie sono asintomatiche e possono non essere diagnosticate. Non possiamo azzerare il rischio di morte improvvisa».

Come sono disciplinati i controlli nel calcio italiano? Esistono delle zone d’ombra? Il meccanismo è perfettibile? La Legge 91 del 23 marzo 1981 e i successivi decreti ministeriali regolano la materia. I calciatori vengono sottoposti ad indagini semestrali e - in modo più approfondito - a quelle annuali. Il protocollo prevede un elettrocardiogramma a riposo e da sforzo, un ecocardiogramma, un esame completo delle urine, la spirografia e una visita medica che comprende l’anamnesi, ovvero la raccolta degli indizi tramite il resoconto del paziente e le domande del medico: proprio in questa fase può entrare in gioco la scrupolosità del medico nell’indagare su eventuali sintomi. La fase 2, quella degli esami più approfonditi, scatta solo in caso di sospetto. Domanda: perché non inserire nelle analisi di base alcuni di questi, come l’Holter, il monitoraggio di 48 ore, la risonanza magnetica o lo studio dei potenziali tardivi (l’osservazione dell’attività elettrica del ventricolo)? Sull’opportunità non c’è accordo unanime. Più facile è comprendere la difficoltà di effettuare indagini, come la coronarografia, utili a scongiurare rare malformazioni: troppo invasive.

All’estero, invece, che succede? Risponde il medico della Nazionale italiana di calcio, Enrico Castellacci: «Non pensiate che la situazione sia migliore. Dovreste sapere che qui da noi molti trasferimenti vengono bloccati a seguito di visite più accurate rispetto a quelle che si fanno dall’altra parte del confine». Secondo il responsabile della salute degli azzurri il problema non riguarda tanto la serie A o le altre leghe professionistiche, quanto la schiera di italiani che pratica sport a livello amatoriale: «La morte di Morosini ha sconvolto tutti noi. Purtroppo ci troviamo ad affrontare certi temi soltanto quando siamo in lutto. Ma vi invito a porvi un’altra domanda: a che punto stanno la prevenzione e l’utilizzo di strumenti come il defibrillatore nel calcio dilettantistico e nei campi di periferia?». Già, perché c’è un esercito di "sportivi fai da te" che spesso non sa quel che rischia.

MARIO MARIANO
Trentaquattro anni dopo rivive la tragedia che privò il Perugia di Renato Curi, la mezz’ala che un anno prima, segnando un gol alla Juventus aveva «assegnato» lo scudetto 1976 al Torino. Sabrina Curi, all’epoca della morte del padre (ottobre 1977) aveva due anni, la madre era in attesa del secondogenito a cui venne dato il nome del papà. «Non posso credere che siano ancora possibili tragedie come quella» dice al telefono da Monza dopo aver visto in tv le immagini della morte di Morosini.

Quale è stato il suo primo pensiero quando ha saputo la notizia?

«Ero in viaggio in auto verso Monza dove vive mio fratello Renato perchè di solito trascorriamo il weekend insieme, la radio era sintonizzata su ”Tutto il calcio minuto per minuto” ed ho sentito cosa stava accadendo a Pescara. Il mio primo pensiero è stato per mia madre Clelia. Con cautela l’ho avvertita di quanto stava accadendo allo stadio Adriatico. Lei abita proprio a Pescara, non segue da vicino le vicende del calcio, anche se molti ex compagni di mio padre continuano a tenerci legati a quel mondo. Mio padre riposa nel cimitero di Pescara e posso dire che non è mai capitato che sulla sua tomba non ci fossero fiori: i tifosi del Perugia non lo hanno mai dimenticato, anzi il loro affetto e la loro vicinanza in tutti questi anni ci hanno dato molto coraggio».

Sabrina, si è chiesta come sia possibile che i progressi della medicina non bastino a evitare tragedie simili nel calcio?

«È quello che colpisce di più. Al tempo della morte di mio padre non c’erano certo tutte le apparecchiature di oggi, davvero stento a credere che certe disgrazie siano ancora possibili».

Quali sentimenti sta provando, che cosa sente di dire alla famiglia del calciatore morto a Pescara.

«Ho voluto vedere soltanto pochissimi fotogrammi in tv. Anche se sono passati tanti anni dalla morte di mio padre la ferita è ancora aperta, trovare le parole giuste in questi momenti è una impresa. Sono tragedie grandi sia per la famiglia che per lo sport che dovrà chiedersi perchè non riesce a garantire neppure a livello professionistico la sicurezza per i calciatori. Noi abbiamo sempre sperato che la morte di mio padre avrebbe evitato altre disgrazie, ma non voglio dare giudizi. Io ed i miei famigliari vogliamo stringerci attorno ai parenti del calciatore del Livorno, se possibile far sentir loro il nostro affetto, la nostra solidarietà».