VARI, 15/4/2012, 15 aprile 2012
PEZZI SULLA STRAGE DI PIAZZA DELLA LOGGIA (STRAGE DI BRESCIA)
di ANTONIO FERRARI
La notizia arrivò al Corriere della Sera 30 minuti dopo la strage. Senza cellulari, senza web e senza Twitter, ci si affidava alla tempestività delle agenzie e alla rapidità del corrispondente. A Brescia, per fortuna, avevamo un vero talento, Danilo Tamagnini. Fu lui a telefonare in redazione. Gli rispose il vicecapo degli Interni Luciano Micconi. Ricordo che quella piovosa mattina di maggio di 38 anni fa, ero andato in via Solferino per leggere i giornali. Mi raggiunse, come una frustata, la voce alterata di Luciano, che dopo aver ascoltato il resoconto di Tamagnini, il quale ansimava per l’emozione, disse solo «Terribile!» e si precipitò dal vicedirettore di allora, Franco Di Bella, per organizzare i servizi. Pur non essendo ancora inviato speciale, seguivo le notizie sulle trame eversive per curiosità e passione professionale. Confesso che rimasi sconvolto ma non sorpreso. Pareva che quel massacro fosse il previsto fulcro di una stagione di sangue, cominciata con la strage di piazza Fontana, nel 1969, e diventata frenetica, appunto nel biennio terribile 1973-1974. Dall’attentato del falso anarchico Bertoli alla questura di Milano (4 morti e 52 feriti il 17 maggio ’73) alla strage del treno Italicus (12 morti e 48 feriti il 4 agosto ’74 ), passando appunto per il massacro di piazza della Loggia, era stata tessuta una trama mefitica, cha partiva dal progetto di golpe del principe Borghese alla Rosa dei Venti, alle milizie del Mar di Carlo Fumagalli, alla cospirazione di Edgardo Sogno. Su tutto si era poi intensificato il conflitto tra le due anime dei nostri servizi segreti, il generale Vito Miceli (vicino ad Aldo Moro) e il generale Gianadelio Maletti (vicino a Giulio Andreotti). Ma la realtà di quella stagione violenta e ambigua è ancora tutta da scrivere. O meglio, tutto pare chiaro, ma omertà e silenzi hanno soffocato la verità. Per la strage di Brescia, 38 anni dopo, non ci sono colpevoli.
CLAUDIO DEL FRATE
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
BRESCIA — A far male non è solo l’assoluzione, la nona su dieci processi, che chiude forse per sempre la caccia ai colpevoli della strage di piazza della Loggia. A far male sono anche e soprattutto le parole che alle 11 e 10 minuti il presidente della Corte Enzo Platè pronuncia in coda al verdetto: «...condanna le parti civili al pagamento delle spese processuali». Proprio così: i parenti degli 8 morti e dei 103 feriti dell’attentato di Brescia non solo non hanno avuto giustizia dallo Stato dopo 38 anni; ma lo Stato chiede loro anche che mettano mano al portafogli per il disturbo arrecato. Manlio Milani, presidente dell’associazione delle vittime, si porta le mani alla faccia, incredulo, altri che come lui non hanno ancora dimenticato lo strazio di quei giorni scoppiano in lacrime. «Il codice prevede così, però se lo potevano anche risparmiare» commenta l’avvocato Michele Bontempi, legale di parte civile, il cui padre rimase ferito dalla bomba. Anche i familiari di piazza Fontana subirono lo stesso sgarbo, poi rimediato in extremis dallo Stato. E ora si spera che altrettanto accada a Brescia. Sarà in ogni caso un’infima consolazione per famiglie che non hanno avuto alcuna riparazione, meno che mai quella giudiziaria: la Corte d’Assise d’appello ha confermato ieri l’assoluzione degli ordinovisti veneti Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi (che vive in Giappone con il nome di Hagen Roy), di Maurizio Tramonte, il confidente dei servizi segreti noto come «fonte Tritone», e dell’ex ufficiale dei carabinieri Francesco Delfino.
Esultano gli imputati e i loro difensori. «Non poteva che finire così» fa sapere il generale Delfino attraverso l’avvocato Stefano Forzani. «È prevalso il garantismo dei giudici», dichiara Zorzi e Maggi non nasconde la sua soddisfazione: «Sono stato perseguitato per trent’anni, ora provo una gioia immensa».
Altri, però, si interrogano su questo teatro dell’assurdo. «Non ci basta una verità storica o politica — confessa Arnaldo Trebeschi, che il 28 maggio del ’74 perse il fratello e la cognata —, vogliamo quella giudiziaria e stavolta elementi ce n’erano, almeno per alcuni imputati». Il riferimento è in particolare a Carlo Maria Maggi, di cui parlano le veline che la «fonte Tritone» passava ai servizi segreti tra il maggio e il luglio del ’74. Le indagini hanno ricostruito il contesto — l’eversione di destra — in cui maturò la strage (preceduta a Brescia da almeno tre altri attentati e dalla morte dell’estremista di destra Silvio Ferrari, dilaniato da un ordigno che trasportava sulla sua moto), ma non sono risultate sufficientemente credibili nell’attribuire responsabilità dirette ai singoli imputati.
Si lascia andare a uno sfogo il pubblico ministero Roberto Di Martino che con il collega Francesco Piantoni sosteneva l’accusa: «L’impegno da parte nostra è stato massimo, abbiamo ricostruito quello che accadde; ma pesano soprattutto i depistaggi degli anni passati. I servizi segreti erano informati degli attentati che si andavano preparando: perché tennero quelle carte nei cassetti? Perché quei documenti sono stati scoperti casualmente solo nel 1992?».
Intanto esplode il malumore della città: ieri pomeriggio in piazza Loggia, nel punto esatto dell’esplosione, è stato affisso un cartello con la scritta «Strage fascista di piazza Loggia, ingiustizia è fatta».
Claudio Del Frate
GIOVANNI BIANCONI
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
BRESCIA — Ormai sembra proprio finita, anche se formalmente ancora no. Mancano le motivazioni del verdetto di ieri, e verosimilmente la Cassazione. Poi c’è un’indagine aperta al tribunale dei minori, a carico di un sedicenne dell’epoca il quale — secondo un testimone che ha taciuto il particolare per diversi lustri — avrebbe confessato di aver partecipato all’esecuzione della strage. Ma dopo cinque istruttorie e dieci sentenze finite tutte con assoluzioni o proscioglimenti (tranne una, la condanna del «colpevole perfetto» Ermanno Buzzi, un neonazista strangolato in carcere alla vigilia del processo d’appello) sono in pochi a sperare.
Quella di piazza della Loggia è la vicenda giudiziaria su fatti di terrorismo più lunga nella storia d’Italia: il 28 maggio saranno passati 38 anni. Il record di piazza Fontana, coi suoi 36 anni tra l’esplosione e l’ultima pronuncia, è già stato battuto lasciando senza responsabili accertati otto morti e cento feriti. Dopo il nuovo tentativo fallito, intorno al tavolo di un’antica osteria della città familiari delle vittime e avvocati di parte civile provano a mandar giù l’ennesima delusione. Non che sia stata una sorpresa, però anche se ti aspetti il peggio quando arriva fa sempre male.
«Con un po’ di coraggio, almeno Maggi e Zorzi li potevano condannare, le motivazioni dell’assoluzione in primo grado sono talmente assurde che non ci voleva granché a ribaltarle», commentano: «Vedremo che cosa scriveranno questi altri giudici, speriamo che almeno loro non arrivino a ignorare il contesto in cui scoppiò la bomba, e a negare la storia».
Già, la storia. La strage di Brescia compare nei manuali dei licei, anche se è ancora cronaca. Arrivò quattro anni e mezzo dopo piazza Fontana, e forse — insieme all’eccidio sul treno Italicus, due mesi dopo, 12 morti e 48 feriti — segnò la fine di un unico disegno, con in mezzo altre stragi, da Peteano alla questura di Milano. Tutte connesse tra loro, nei moventi e nei protagonisti. A Milano e Brescia coincidono perfino alcuni imputati, e le «fonti di prova».
Manlio Milani il 28 maggio del ’74 era lì, in piazza della Loggia, dove vide saltare in aria la moglie Livia e un gruppo di amici con i quali, la sera prima, aveva deciso di partecipare alla manifestazione antifascista indetta dai sindacati. Da allora la sua vita è scandita dai processi, le sue presenze alle udienze sono diventate quasi un’abitudine, come quelle allo stadio di un tifoso con l’abbonamento. E nonostante gli esiti giudiziari sconfortanti, mentre manda giù una minestra calda mette in tavola le certezze storiche raggiunte: «Ci fu un disegno eversivo, ma anche istituzionale, messo in atto nel contesto politico italiano dei primi anni Settanta, ovviamente inserito in quello internazionale. Che ha potuto contare su una serie incredibile di coperture e depistaggi, scattati fin dalle prime ore, da cui derivano le assoluzioni di oggi. C’è la prova che gli apparati dello Stato seppero quasi subito chi organizzò l’attentato, ma hanno taciuto e nascosto la verità».
Si riferisce al lavaggio della piazza con le autobotti due ore dopo lo scoppio, ai cestini dei rifiuti svuotati con troppa fretta e a tanti altri intralci alle indagini. E poi alle bugie degli uomini dei servizi segreti, da Miceli e Maletti in giù: dissero che nei loro archivi non c’era nulla sullo scoppio, mentre avevano almeno le veline con le informazioni della «fonte Tritone» (l’odierno imputato Maurizio Tramonte) che quasi nell’immediatezza dei fatti indicavano il coinvolgimento dei neofascisti veneti. Rimasero nei cassetti per quasi vent’anni. È facilmente immaginabile che battere quella pista a poche settimane dall’esplosione, magari potendo contare sui reperti spazzati via dagli idranti, avrebbe portato a tutt’altri risultati.
«Dietro questa realtà acclarata — continua Milani — c’è una catena di ricatti che lega gli uni agli altri, dagli esecutori ai rappresentanti degli apparati, fino ai responsabili politici. Le coperture e i depistaggi sono il risultato di questi collegamenti occulti, che negano la trasparenza e mettono in pericolo i presupposti della democrazia. Io temo che questo meccanismo funzioni ancora oggi, su diverse questioni, e se non viene denunciato e smantellato la vita di questo Paese rimarrà sempre inquinata dal gioco dei ricatti».
Qualcosa, forse, poteva venir fuori nei primi processi, se ci fosse stato un atteggiamento più deciso nel denunciare certe ambiguità istituzionali. «Credo che subimmo una certa timidezza del Pci dell’epoca che non voleva rischiare di compromettere il rapporto con la Dc. Ma fino a quando la ragion di Stato o della politica avrà il sopravvento sulla ricerca della verità?», si chiede Milani, presidente dell’Associazione delle vittime di piazza Loggia e anima della Casa della Memoria, fondazione dov’è raccolto tutto ciò che è possibile sapere sulla strategia della tensione e il terrorismo nero in Italia; a cominciare dai milioni di pagine processuali in cui si annidano i motivi di troppi delitti senza colpevoli. Mentre mangia e parla, il telefonino squilla di continuo: tutti gli chiedono un commento o un’indicazione, e lui risponde a tutti. È la missione della sua vita, che consiste anche nel dare un senso alle sconfitte: «Le sentenze si devono rispettare pure quando si ritengono ingiuste. Si possono criticare e bisogna spiegarne il motivo, senza delegittimare nessuno. I magistrati seguono le loro regole, fanno il loro lavoro».
I testimoni di un’ingiustizia come la strage impunita del 28 maggio 1974 ne fanno un altro. E continueranno a farlo. «Anche se io sono un po’ stanco», mormora Manlio Milani. Ma domani mattina, alle 8.30, sarà di nuovo a parlare agli studenti di un liceo.
Giovanni Bianconi
WILMA PETENZI
BRESCIA — Il 28 maggio di 38 anni fa non è morto. Ma la bomba scoppiata in piazza della Loggia gli ha rubato una parte di vita. Quella che gli era più cara: i sogni, le speranze, le aspettative. Aveva 27 anni, un buon lavoro da impiegato alla Franchi Armi, l’impegno sindacale alla Cgil e la voglia di girare il mondo. Aveva una fidanzata da pochi mesi e l’ambizione di scoprire nuovi orizzonti, di non fermarsi a Brescia. Enzo Romani, uno dei 102 feriti della strage di piazza Loggia, parte civile nel processo, da quella mattina di orrore e morte è cambiato. La vita che aveva sognato si è fermata alle 10.12 di quella maledetta giornata di pioggia. «Quella bomba — racconta — mi ha rubato una porzione di vita. Quel botto lo sento ancora. Sempre».
Lo scoppio nel cestino sotto i portici di piazza della Loggia lo ha fatto diventare un altro. La scheggia che gli si è fermata a pochi millimetri dal cuore, e che ha ancora ha in corpo, gli ha stravolto ogni orizzonte: quel pezzo di ferro per lui è stato una zavorra. L’ha ancorato alla sua città, a una vita che non aveva ancora scelto fino in fondo.
Non è più partito, Brescia è diventata la sua tana, il suo nido. Da quando vive con quei pochi grammi di metallo addosso il carattere è mutato. Prima aveva sempre voglia di ridere e scherzare e di stare in compagnia, dopo la strage ha cambiato atteggiamento: quell’unghia di ferro nel torace si è trasformata in uno scudo impenetrabile. Triste, silenzioso e taciturno, ha perso le amicizie. «Ero chiuso e noioso, tanti amici non si sono più fatti vedere».
Romani è comunque soddisfatto della vita vissuta, degli anni di lavoro, della recente pensione, della famiglia, una moglie e di due figlie («le adoro»). Ma da allora vive con un rimpianto. «So come sono, ma come sarei stato se non fossi stato in piazza quella mattina? Come sarebbe stata la mia vita?».
Sono domande che Romani si pone quasi ogni giorno, ogni volta che si guarda allo specchio e vede i segni lasciati sul viso dalle ustioni, ogni volta che la mano sfiora il «cratere» rimasto sul torace, ogni volta che deve tendere l’orecchio (ha perso un timpano per l’esplosione) per ascoltare qualcosa. «Sono fortunato perché sono vivo, a differenza di altre otto persone che sono morte e non possono più dire e provare nulla, ma mi è stata scippata una parte di vita. Ho avuto una accelerazione verso una vita che non avevo ipotizzato, ho fatto scelte che non avevo mai preso in considerazione». E il dolore fisico, la parziale sordità e le cicatrici, sono nulla se rapportate al dolore psicologico, l’ansia, la paura, la sensazione di precarietà.
«Sono rimasto in ospedale 21 giorni — racconta — poi sono quasi fuggito dal reparto. Ho reagito bene solo la prima settimana, poi il mondo mi è crollato addosso». E una volta fuori dall’ospedale Romani ha scoperto di non poter più stare da solo: «La solitudine mi era diventata insopportabile. Così come l’idea di spostarmi e di viaggiare». Ed ecco la svolta: il matrimonio e subito una figlia. E poi un’altra figlia e il lavoro, dalla mattina alla sera. E la paura di stare con gli altri. Di mostrare le ferite. «Temevo le domande — ricorda — avevo una sorta di senso di colpa per quello che mi era successo».
In questi 38 anni Enzo Romani ha vissuto sospeso. E la sentenza di assoluzione per lui è stato l’ennesimo dolore, una delusione cocente. «Non potrò mai sapere chi mi ha rubato la parte di vita che avevo sognato». Dopo la lettura della sentenza Romani si è messo in sella della sua bicicletta e ha pedalato forsennatamente: una fuga dalla realtà. Troppo crudele.
Wilma Petenzi
ANDREA PASQUALETTO
La pista nera delle stragi nasce da lui: Giancarlo Stiz, il giudice trevigiano che nel gennaio del 1971 raccolse la testimonianza dell’insegnante di Maserada sul Piave Guido Lorenzon. Una soffiata che mise il magistrato di Treviso sulle tracce di Giovanni Ventura, l’editore e libraio di Castelfranco Veneto amante degli estremismi di destra e di sinistra, e poi dell’ideologo delle trame nere Giorgio Freda.
Dottor Stiz, come vede questo epilogo giudiziario di piazza della Loggia?
«È una cosa da ridere per non piangere».
Che idea si è fatto sulle responsabilità?
«La mia non è un’idea: io ho raccolto e portato delle prove contro Freda e Ventura. Prove legittimamente acquisite in quegli anni».
Dichiarare a viva voce che sono colpevoli significa però farsi querelare, non crede? Per la giustizia sono innocenti.
«Chiaro, questa è la verità processuale. Rimane comunque per tutti la possibilità di valutare le prove che sono entrate a far parte dei processi e che hanno portato la Corte di legittimità ad affermarne in fondo la responsabilità morale. Affermazione che sembrerà strana dal punto di vista strettamente giudiziario ma che ha un senso. Insomma, i riscontri c’erano ed erano lì».
Nel merito sono però entrati i giudici di Bari. Cosa pensa?
«Guardi, ricordo che il presidente diceva "mi scusi, dottor Freda" e interloquiva con molto riguardo...».
Cosa pensa degli altri ordinovisti veneti: Maggi, Zorzi eccetera, oggi assolti per Brescia?
«Non facevano parte della mia indagine. Sono entrati successivamente con il giudice Salvini, che ha ancorato la nuova inchiesta soprattutto alle rivelazioni del pentito Carlo Digilio, poi giudicato inattendibile. Ma io penso che Salvini abbia trovato un muro rispetto al coinvolgimento della politica, della Cia e dei servizi segreti. Uno spazio molto delicato e molto pericoloso... non si può andare contro quel famoso segreto di Stato».
Se avesse avuto a disposizione le testimonianze dei pentiti Digilio e Martino Siciliano, cosa sarebbe stato della sua indagine?
«Forse sarebbe cambiato tutto. Ma non posso dirlo non avendo cognizione diretta delle indagini di Milano. In ogni caso, penso che quando le inchieste e i processi si dilatano e amplificano troppo, difficilmente si riesce a concretizzare».
Cosa le rimane, dunque, dopo quarant’anni?
«L’orgoglio di aver scoperto la verità».
Andrea Pasqualetto
LA REPUBBLICA
CINZIA SASSO
DAL NOSTRO INVIATO
MILANO - Un´altra strage senza colpevoli. Dopo piazza Fontana, a Milano, 12 dicembre 1969, anche piazza della Loggia, a Brescia, 8 maggio 1974, otto morti e 102 feriti, resta un massacro impunito. Il sipario scende su un pezzo della nostra storia recente e sulla scena resta solo il buio. Alle undici e dieci del mattino, trentotto anni dopo quel giorno di sangue e terrore, è di nuovo nel nome del popolo italiano che la giustizia si arrende. Ed è con un silenzio sbigottito che un´aula strapiena accoglie l´ultimo schiaffo. Anche se loro, i parenti delle vittime, dovranno pagare le spese processuali. Dopo quattro giorni di camera di consiglio, Enzo Platè, il presidente della Corte d´Assise d´appello, legge la sentenza di assoluzione. È un pronunciamento che ricalca quello di primo grado: tutti puliti, seppure con l´ombra del dubbio. Assolto il medico veneziano Carlo Maria Maggi; l´imprenditore diventato giapponese Delfo Zorzi; l´informatore del Sid Maurizio Tramonte; il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Assolto - anche se lui non rischiava l´ergastolo ma solo di essere chiamato a risarcire le parti civili - Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo e già segretario del Msi.
L´accusa aveva chiesto quattro ergastoli, il processo si chiude con quattro assoluzioni, ma il silenzio dell´aula e i commenti a caldo sono una lezione di civiltà. Roberto Di Martino, il procuratore di Cremona distaccato a Brescia per seguire questo processo insieme al pm Francesco Piantoni, hanno fatto di tutto per portare alla luce la verità. Nonostante il tempo passato, le prove distrutte, le indagini deviate, le testimonianze false, i pentimenti tardivi e le ritrattazioni. Dicono: «Siamo sereni perché è stato fatto tutto il possibile. Ormai, questa, è una vicenda che va affidata alla storia, ancor più che alla giustizia». E Manlio Milani, il presidente dell´associazione caduti di piazza della Loggia: «Le sentenze si possono non condividere, ma si accettano». Adriano Paroli, sindaco di Brescia: «Quello che rimane è l´attesa con cui la città e l´intero Paese stanno aspettando da tanti anni una risposta. Una risposta che deve essere fatta di verità e giustizia. E oggi mancano entrambe all´appello». Perfino Alfredo Bazoli, figlio di una delle vittime - sua madre si chiamava Giulietta, era un´insegnante, aveva 34 anni - oggi consigliere comunale del Pd, esprime solo una grande tristezza: «La politica deve chiedersi perché non siamo riusciti a raggiungere una verità processuale, indiscutibile, che ci metta al riparo dalle mistificazioni. Questo resta un buco nero nella democrazia italiana».
Resta solo la verità storica. E Guido Salvini, il magistrato che a Milano si occupò delle inchieste sulle trame nere, la riassume così: «Le enormi fonti di conoscenza portate dalle indagini di Milano e Brescia testimoniano comunque che le stragi di quegli anni furono opera della strategia di Ordine Nuovo». Maurizio Tramonte, fonte del Sid con il nome Tritone, aveva confessato il suo ruolo e aveva raccontato di aver partecipato con i capi ordinovisti veneti alla preparazione dell´attentato. In aula, però, ha ritrattato. Sono stati quattro i processi celebrati finora: il primo, nel 1981, si chiuse con la condanna di alcuni esponenti della destra bresciana e poi uno di loro, Ermanno Buzzi, venne strangolato in carcere dai neri Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Quelle condanne divennero assoluzioni in appello. Nell´84 sono i pentiti a far aprire un nuovo filone di indagine e sotto accusa sono ancora uomini della destra eversiva che però saranno assolti per insufficienza di prove. Nell´intreccio delle indagini si fa strada l´ipotesi del coinvolgimento di apparati dello Stato e dei servizi segreti. A guidare le prime indagini, in modo che sarà impossibile ricostruire la verità, era Francesco Delfino.
Adesso si aspettano le motivazioni. Mentre resta aperto un altro procedimento, a carico di un uomo che allora era minorenne. Nell´amarezza generale, risalta la «gioia immensa» degli imputati assolti. Da Delfino a Maggi («Sono innocente, me l´aspettavo») a Zorzi, che dal lontano Giappone manda a dire: «Ha prevalso il garantismo. Spero solo che il pg non voglia impugnare in Cassazione. Sarebbe procrastinare l´attesa dei familiari delle vittime ai quali ci sentiamo vicini».
BENEDETTA TOBAGI
La strage di Brescia gode di un triste primato: nessun condannato. «Me l´aspettavo» è il commento più frequente al dispositivo della sentenza d´appello. Realismo comprensibile, ma non per questo meno tremendo. Quanto è terribile essere preparati a qualcosa di inaccettabile sotto il profilo etico, civile e semplicemente umano? Non aspettarsi più condanne per una strage di matrice politica che ha ucciso 8 persone: 5 insegnanti attivi nel sindacato, 2 operai, un ex partigiano. Un microcosmo specchio dell´Italia che pacificamente lottava, lavorava e sperava, in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista e in piazza ucciso dall´ennesima bomba neofascista (con buona pace dei "negazionisti" di casa nostra, questo è accertato). Mentre l´Italia inorridiva davanti alla carneficina, il luogotenente per il triveneto dell´organizzazione terroristica Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, arringava i suoi "soldati": «Brescia non deve rimanere un fatto isolato». Assolto: ma siano noti a tutti i suoi reiterati proclami stragisti, nell´Italia dove le stragi sono accadute per mano di individui che l´hanno fatta franca.
Terribile perché – e lo vedi negli occhi rossi, nelle facce tirate – dopo una lunghissima inchiesta (per consentire lo svolgimento di un´indagine complessa grazie all´impegno civile dei famigliari delle vittime ci sono stati interventi legislativi ad stragem per prorogare i tempi oltre il limite dei 2 anni) e un lungo processo, la possibilità di condannare esisteva. Parafrasando Pasolini: oggi non solo sappiamo, ma abbiamo faticosamente accumulato prove e indizi, «che in tanti processi comuni bastano e avanzano a condannare» – commenta a caldo un legale di parte civile. Insufficienti a provare il concorso in strage al di là di ogni ragionevole dubbio nel rito lento e cauto del processo accusatorio, in uno stato di diritto. Sia chiaro a quanti storcono il naso pensando che qualcuno andasse a caccia di un colpevole a tutti i costi. Non è un caso che le prove, nei processi per strage, non bastino mai.
Quest´assoluzione è solo l´ultima, umiliante vittoria di un´attività sistematica volta a distruggerle e depistare le indagini. Cominciata la mattina della strage, col frettoloso lavaggio della piazza, con sacchi di materiale raccolto dopo l´esplosione finiti nella spazzatura, anziché repertati: forse anche frammenti del timer della "bomba fantasma" su cui in aula si è guerreggiato. Le testimonianze dei primi periti, concordanti con la descrizione del defunto collaboratore Carlo Digilio (l´armiere di Ordine Nuovo, che preparò l´ordigno di piazza Fontana) non sono bastate a far ritenere credibile la sua testimonianza. Brescia fu il prototipo di una strategia di depistaggio sofisticata (poi smascherata dagli stessi tribunali). Una tecnica più subdola delle "piste rosse" costruite intorno a piazza Fontana: la "falsa pista nera". I responsabili? Si additò un manipolo di fascistelli sbandati, piccoli criminali capeggiati dall´istrionico manipolatore Ermanno Buzzi. Una pista circoscritta, lontana dalle "trame nere" milanesi (oggetto del secondo ciclo di processi, che mandò assolti gli imputati per strage, ma tracciò il quadro della rete terroristica cui doveva appartenere la manovalanza) e da quelle venete, a cui appartenevano gli imputati dell´ultimo processo. Processo istruito anche sulla base di note informative del Sid coeve ai fatti (la fonte era l´imputato Maurizio Tramonte): queste portano dritto alla galassia terroristica di Ordine Nero, che aveva esplosivi, uomini, intenti eversivi, responsabile di uno stillicidio di attentati nell´anno precedente, filiazione del blocco eversivo di Ordine Nuovo, disciolto dopo la condanna del 1973 per ricostituzione del partito fascista. Un manipolo di sbandati prudentemente lontano dalle trame di golpe "bianco" autoritario o presidenzialista - anch´esse più sofisticate del progetto di golpe militare modello greco di Borghese - emerse proprio nel 1974 con le inchieste Mar e "Rosa dei venti". Una pista nera "sbiadita" e innocua, portata avanti con ogni mezzo dal generale Francesco Delfino, passato sul banco degli imputati. Assolto dal concorso in strage, forse leggeremo nelle motivazioni che è stato responsabile di favoreggiamento, ormai prescritto: le arringhe di parte civile l´hanno argomentato in modo stringente. Sarebbero andate diversamente le cose se i centri di controspionaggio del Sid, anziché occultarle fino agli anni Novanta, avessero fornito nel ‘74 quelle note informative (confermate anche dal generale del Sid Maletti, un "depistatore" di piazza Fontana, dal suo buen retiro sudafricano)? Se i carabinieri di Padova, comandati dal piduista Del Gaudio, avessero fornito le copie che avevano? Se il centro di controspionaggio di Padova non avesse distrutto non solo i documenti, ma - contro regolamenti - anche i registri che dovrebbero lasciarne traccia? Una parte di Stato ha lavorato con costanza e sistematicità per coprire i bombaroli che alimentavano la tensione, e poi per proteggere se stessa. Le condanne mancate parlano dell´inquietante sopravvivenza di reti di solidarietà occulte, suggeriscono una continuità di pratiche illegali annidate in seno alle forze di sicurezza, che ci balenano davanti agli occhi nei "depistaggi sofisticati", a base di piste false ma verosimili, messi in atto quando s´indaga sulle stragi mafiose, sulle trattative Stato-mafia.
La zizzania e il grano continuano a crescere insieme. Siamo figli di quei peccati e di quelle omissioni, ne portiamo il peso, ne paghiamo il prezzo. Oggi, nell´Italia impoverita, pessimista, delusa dalla politica, stritolata dalle organizzazioni mafiose, la tenacia e la battaglia democratica degli inquirenti, delle parti civili, di tanta società civile forniscono l´insegnamento più prezioso: vale comunque la pena lavorare, si riesce a consolidare un corpo vivente di carte, prove, voci, immagini che ci raccontano cosa è accaduto attorno a noi. Le assoluzioni non bastano a cancellarlo. Cantava De Andrè: "Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti".
C.S.
DAL NOSTRO INVIATO
BRESCIA - Sua moglie aveva 32 anni, si chiamava Livia Bottardi, era una professoressa di italiano, non avevano figli; erano insieme in piazza della Loggia, alla manifestazione dei sindacati, quando esplose la bomba nascosta dentro un cestino. Da allora Manlio Milani lotta per la verità.
Cosa ha provato alla lettura della sentenza?
«Confesso che un po´ me l´aspettavo, anche se sono convinto che con un po´ più di coraggio si sarebbe potuti arrivare a delle condanne. Adesso spero almeno nelle motivazioni. E poi nella Cassazione. La corte del primo grado è stata sciatta, questa mi è sembrata seria e impegnata. Ha voluto riaprire il dibattimento per capire la natura dell´esplosivo e del detonatore. Però quello che pesa è il lavaggio della piazza, fatto un´ora dopo la strage e i reperti buttati in una discarica. Il peccato originale è stato là, ma non è stato il solo. Allora Delfino aveva fatto le indagini e trent´anni dopo lo troviamo imputato e assolto con il dubbio. Direi che le ombre rimangono».
Lei non si è scagliato contro la magistratura che non ha fatto giustizia.
«Io credo che i magistrati abbiano fatto tutto quello che potevano. Questi fatti sono rimasti impuniti perché un pezzo dello Stato non ha collaborato. Ad esempio il generale Maletti: nel 2010 ha ammesso che nel ´74 non aveva detto la verità sulla fonte Tritone per non scoprirla. Oggi trovo solo ridicolo, una beffa, che i giudici abbiano deciso di far pagare le spese processuali alle parti civili».
La verità processuale non c´è. E la verità storica?
«C´è, anche se non è stato possibile condannare i singoli responsabili. E tutti dovrebbero riconoscerla: le stragi sono della destra eversiva collusa con apparati dello Stato, alleati per combattere il pericolo comunista».
(c.s.)
PIERO COLAPRICO
«Non fu», è questa l´amara cantilena delle stragi italiane. Non fu Freda e non fu Ventura, per la banca dell´agricoltura in piazza Fontana, 1969, 12 dicembre, la «madre» di tutte le violenze di Stato e Antistato. «Non fu» nemmeno il loro fedele Delfo Zorzi, camerata trapiantato in Giappone, rintracciato anni dopo. Nuovi indizi portavano a Zorzi, ma per sentenza il nazista della provincia veneta diventato Hagen Roi, «non fu». Non c´entra né con Milano, anche se erano stati i suoi camerati Freda e Ventura a ordinare, comprare, smistare i timer, a comprare proprio quel modello di valigia, ma non basta. E «non fu» Zorzi nemmeno per la strage di piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio del 1974, così ieri è stato ripetuto alla fine del processo d´appello. In queste due città, 25 morti e 192 feriti.
«Non fu» Mario Tuti, fascista e assassino di carabinieri, il mandante dell´ordigno sull´Italicus, il 4 agosto 1974, 12 morti, 48 feriti. Come «non fu» Luciano Franci a fare da palo alla stazione di Santa Maria Novella, «non fu» Piero Malentacchi a confezionare la bomba. Il perenne «non fu» spunta cupo dopo varie tonnellate di carte scritte a mano, a macchina, a macchina elettronica, infine a computer. Archeologia di verbali e chiavette usb. Con dentro migliaia di testimonianze che significano persone che parlano, ricordano, piangono, si portano dietro il male subito, o nascosto, o fatto. Il «non fu» viene stabilito dopo interrogatori di chi non ricorda, balbetta, imbroglia: e quasi rimpiangi, quando li senti, che tu sia parente, che tu sia pubblico, i cardini dello Stato democratico, quel «meglio dieci colpevoli liberi che un innocente in galera».
Eppure, stringendo i denti, è a questo che le associazioni delle vittime si aggrappano: alla possibile verità nella legalità. È nella verità e nella legalità, in fondo nella giustizia, che sperano sempre, mentre si va moltiplicando via Internet il buio delle sentenze in contraddizione, delle invettive e delle ipotesi balorde. Le stragi, più che di nebbia, sanno di labirinto: l´abbiamo esplorato tante volte, riuscendo a scorgere sempre qualche cosa, ma è solo l´ombra nera del Minotauro, e non entra nell´identikit.
C´è chi, in passato, ha gettato la croce sugli inquirenti. Negli anni ´70 e ´80, mentre per il terrorismo rosso che sparava alla classe dirigente sono stati impiegati in forze i migliori magistrati e investigatori, a cercare di raccapezzarsi nelle nefandezze di terrorismo nero e possibili golpe sono stati lasciati - si diceva - quelli che c´erano. E uno di questi solitari, che cercava i fili scoperti di Ordine Nuovo, è stato ammazzato nel 1980: il giudice Mario Amato. Vera o falsa che sia questa lettura, negli ultimi anni, con la politica spesso più assente e lontana, è stata però la magistratura a «resistere», a cercare.
Il bilancio, però, resta scarso. Anzi, se osserviamo da vicino tutte le stragi, sapendo quello che sappiamo, la piena verità c´è solo in una. È quella del 17 maggio 1973 davanti alla questura milanese. Veniva commemorato il commissario Luigi Calabresi, ucciso sotto casa un anno prima. Viene lanciata una bomba, l´obiettivo è l´allora ministro dell´Interno Mariano Rumor, invece muoiono dilaniate quattro persone, cinquantadue i feriti. L´autore resta lì: è Gianfranco Bertoli. Un anarchico, si definisce. È anche informatore dei servizi segreti Sid e Sifar, vivrà una vita da ergastolano senza aggiungere mezza parola al gesto, a come s´è procurato la bomba, ma è stato lui.
Esistono poi stragi con sentenze di colpevolezza passata in giudicato: Giusva Fioravanti e Valeria Mambro sono ritenuti i responsabili della strage più sanguinosa, quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti e 200 feriti. I parenti delle vittime sono d´accordo con i giudici, sanno però che questa decisione non soddisfa tutti gli esperti: anzi, per alcuni, la potentissima bomba messa nella sala d´aspetto è in qualche modo legata a un altro mistero italiano, alla precedente strage di Ustica. Era il 20 giugno, quando un Dc 9 Itavia scoppia e precipita. Molto probabilmente per causa di un missile francese che, su mandato americano, cercava di colpire l´aereo sul quale viaggiava il nemico di sempre, il libico Muhammar Gheddafi. Anche qui lunghe, difficilissime indagini, colpevoli zero: con non pochi dipendenti dell´Aeronautica militare, alcuni di servizio ai radar, che muoiono per suicidi dubbi e incidenti sospetti.
Anche l´ultima strage - l´ultima prima delle autobombe piazzate senza dubbio dalla mafia del ´93 - è circondata dall´ambiguità. È la strage di Natale del 1984: il 23 dicembre, il treno Napoli-Milano-Brennero scoppia in galleria a San Benedetto Val Di Sambro, 16 morti, 117 feriti. Due le condanne principali, riguardano i mafiosi Pippo Calò e Guido Cercola, ossia il cassiere dei corleonesi e un picciotto che sarà trovato in cella con i lacci delle scarpe stretti intorno al collo. Nonostante le indagini capillari, «non fu» condannato un possibile complice fascista, ritenuto l´anello di congiunzione tra criminali organizzati e altri «ambienti», altri stragisti.
Qualche giorno dopo le vetture sventrate, i bambini feriti lungo i binari, si conta un´altra vittima. Uno dei primi soccorritori, il vice-ispettore della Polfer, è sotto shock. Si punta la pistola alla tempia e si uccide. Ha lasciato un biglietto: «Questa è una società maledetta». È una frase che risuona ancora, quando si parla tra chi ha perso i suoi cari: «I nostri morti - si sente ripetere - vagano e non trovano un posto dove stare in pace con noi che li piangiamo». Una memoria annaffiata dalle lacrime, questo ci resta dopo i troppi «non fu»?
LA STAMPA
MARIO CALABRESI
La sentenza pronunciata ieri non chiude per sempre una storia di dolore cominciata il 28 maggio 1974 in una piazza del centro di Brescia. Non è l’ultima parola: non dobbiamo e non possiamo pensare di essere condannati a vivere nella nebbia e nei misteri.
Ora la verità storica dovrà colmare le lacune della giustizia mancata. Molta strada è stata fatta, tanto che sono chiare responsabilità e complicità, ma molto resta da fare, perché dagli archivi dello Stato possono ancora uscire carte importanti per dare un quadro definitivo della stagione delle stragi.
Ma prima di ogni altra cosa il governo Monti deve cancellare un insulto: deve farsi carico delle spese processuali, al cui risarcimento sono stati condannati i familiari delle vittime. E’ una cosa intollerabile, che richiede un gesto forte e chiaro.
Non è la prima volta che accade: già nel 2005, al termine dell’iter giudiziario per la strage di Piazza Fontana, alle parti civili - anche allora rimaste senza giustizia - la Cassazione chiese di pagare i costi del processo. La sentenza fece scalpore, tanto che il governo Berlusconi decise di farsi carico di tutte le spese processuali, sottolineando di «considerare tale impegno come un atto di doveroso rispetto e di solidarietà per i familiari delle vittime». Anche oggi non resta che correre ai ripari per evitare una doppia ferita a chi ieri sera è tornato a casa svuotato e pieno di amarezza dopo decenni di battaglie dentro e fuori dai tribunali.
Certo questa beffa si sarebbe potuta evitare modificando la legge in modo da non ripetere scandali come questo.
La sentenza di assoluzione però non era inattesa, come racconta - intervistato da Michele Brambilla - il fondatore della Casa della Memoria di Brescia, Manlio Milani: «Sulle responsabilità personali le prove non erano sicure e capisco che i giudici vogliano certezze». Ma restare senza giustizia è doloroso e umiliante.
Questo processo però non è stato inutile, le oltre millecinquecento testimonianze raccolte negli anni e le centinaia di migliaia di pagine di documenti ci offrono un quadro di verità che va divulgato e consolidato: la strage di Piazza della Loggia fu pianificata e realizzata da estremisti di destra che godettero prima e dopo il massacro di complicità e coperture da parte di uomini dei nostri servizi segreti.
Perché questo quadro possa entrare nei libri di storia è ora fondamentale una sentenza che, pur assolvendo, sia capace nelle sue motivazioni di indicare i punti fermi a cui si è potuti giungere nel dibattimento. Per consolidarlo però è necessario l’intervento della politica che, come sottolinea Milani, deve ancora emanare i decreti applicativi della legge del 2007 sul segreto di Stato. Si potrà così capire se esistono ancora armadi da aprire capaci di rischiarare definitivamente la stagione delle stragi.
E’ fuori dai tribunali e dal Parlamento però che dovrà continuare la battaglia più importante, quella per tenere viva la memoria, per non lasciar sprofondare il Paese nell’ignoranza e nel disinteresse.
Pochi giorni fa sono stato al liceo Majorana di Moncalieri dove i docenti di storia hanno fatto un’indagine tra gli studenti per capire che percezione avevano degli Anni di Piombo. Hanno chiesto a 278 di loro chi fossero gli autori della strage di Piazza Fontana: secondo il 45 per cento sono state le Brigate Rosse, per il 23 per cento la mafia, mentre solo il 16 per cento ha indicato correttamente gli estremisti di destra di Ordine Nuovo.
I professori però non si sono fatti prendere dallo sconforto e, come sta succedendo in molte scuole italiane, hanno organizzato un lavoro approfondito per far conoscere la verità storica. Ora i ragazzi hanno chiaro cosa è successo nel nostro Paese negli Anni Settanta e quel sondaggio può essere dimenticato.
Di questo lavoro prezioso di testimonianza Manlio Milani è uno dei più instancabili protagonisti, la sua Casa della Memoria è uno degli esempi migliori dell’Italia che non si arrende all’oblio. Nonostante la sentenza di ieri provochi sgomento, il suo impegno non è stato sprecato, anzi assume un valore ancora maggiore.
M.BRA.
Non è vero che in Italia i processi per le stragi finiscono sempre allo stesso modo, e cioè con una raffica di assoluzioni. Ieri alla sentenza d’appello per la strage di piazza della Loggia a Brescia una condanna c’è stata: quella delle parti civili, cioè delle vittime. Sono state condannate a pagare le spese processuali. Una beffa, che va ad aggiungersi al dolore per l’ennesima assoluzione degli imputati.
La Corte d’assise d’appello ha infatti confermato la sentenza con la quale, nel novembre 2010, erano stati assolti l’ex segretario del Msi Pino Rauti; gli ex ordinovisti veneti Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi; l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino; l’ex neofascista ed ex informatore dei servizi segreti Maurizio Tramonte. Tutti «ex» di qualcosa, perché le loro storie appartengono al passato , a quando il mondo era diviso in due e l’Italia era un Paese avvelenato dal terrorismo, da trame oscure e tentazioni golpiste.
Fu in questo scenario che il 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia, durante una manifestazione sindacale, una bomba messa in un cestino dei rifiuti fece otto morti e 108 feriti. Non si è mai riusciti a incastrare i colpevoli. Ci sono stati tre filoni d’inchiesta e cinque processi; quella di ieri è stata la decima sentenza: ma non se ne è mai venuti a capo.
Rauti era accusato di essere l’ispiratore della strage; Maggi e Zorzi di averla organizzata; Delfino, che comandava i carabinieri di Brescia, di non aver fatto nulla per impedirla benché ne fosse al corrente; Tramonte di aver partecipato alle riunioni preparatorie. Per tutti, ieri come in primo grado, l’assoluzione è stata per insufficienza di prove.
E in questa formula c’è l’unica parziale consolazione per i poveri morti di allora e per i loro cari rimasti a piangerne la memoria e a chiedere giustizia. Le prove sono insufficienti per il codice di procedura penale, ma sufficienti per la storia. Questo processo, più di molti altri per stragi del passato, ha permesso infatti di raggiungere alcune certezze. Ad esempio che i servizi segreti dello Stato sapevano che stava per essere messa una bomba a Brescia e non avvertirono l’autorità giudiziaria. Né prima, quando un intervento avrebbe potuto salvare tante vite. Né dopo, quando avrebbe permesso alla magistratura di identificare i responsabili.
Si tacque sia prima che dopo, e su questo adesso c’è una certezza assoluta perché non si tratta di parole o di testimonianze sulle quali si può sempre dubitare, ma di documenti. Documenti trovati nel 1992 da un giudice milanese, Guido Salvini, negli archivi del Sismi di Padova. Documenti che certificano che Maurizio Tramonte, in codice «Fonte Tritone» aveva informato i servizi segreti che il 23 e il 25 maggio 1974, in un albergo di Abano Terme, alcuni ordinovisti veneti si erano riuniti per preparare un «grosso attentato» al Nord; e Brescia, da tempo teatro di scontri, tensioni e pure di esplosioni, era un obiettivo sensibile.
Perché i servizi non trasmisero quell’informativa? Perché quel 28 maggio, un martedì, a Brescia non c’erano carabinieri, mandati tutti a Mantova a fare un corso di formazione che di solito di teneva il sabato? Perché a bomba appena scoppiata, la piazza venne subito lavata eliminando le tracce di esplosivo, e quindi un possibile, prezioso indizio? Domande simili a quelle che ricorrono negli atti processuali di tante vicende analoghe, e che portano tutte a una certezza ormai consolidata: parti dello Stato prima aiutarono gli stragisti, poi li coprirono, depistando le indagini.
È per quel peccato originale, cioè per quelle coperture e per quei depistaggi, che la magistratura non è poi mai riuscita a trovare le prove per condannare. Non c’è riuscita in innumerevoli processi su innumerevoli stragi, non c’è riuscita nemmeno in questo, che probabilmente resterà l’ultimo tentativo di assicurare alla giustizia i diabolici bombaroli di quel tempo maledetto.
Nessuno ieri si è sorpreso, quindi, per le assoluzioni. «Ma la condanna delle parti civili a pagare le spese processuali - commenta l’avvocato Michele Bontempi, i cui genitori rimasero feriti dallo scoppio della bomba- se la potevano risparmiare, anche se tecnicamente ci può stare». Era già successo all’ultimo processo per piazza Fontana, ma a Brescia mai. Insomma si è forse chiusa così, ieri, la storia giudiziaria sugli anni delle bombe: nessun colpevole, e vittime che devono mettere mano al portafogli. Tecnicamente ci può stare.
FRANCESCA PACI
Tutti assolti, d’accordo. In assenza di prove la giustizia è disarmata. Ma come racconteremo ai nostri figli la strage di Brescia, l’ennesimo elenco di vittime senza alcun colpevole? Secondo l’ex presidente della Commissione antimafia Luciano Violante nel caso di piazza della Loggia, come per altri episodi di quella stagione italiana, la parola dovrebbe passare agli storici che a differenza dei giudici non hanno la necessità di provare le responsabilità personali: «Sappiamo da tempo che sulle stragi non si è detto tutto, che esistono pagine oscure, che ci sono stati gravi inquinamenti da parte di esponenti delle istituzioni: la giustizia non può andare oltre. Ma il segreto di Stato non c’entra perché non può essere opposto per le stragi. Ormai toccherebbe agli storici ricostruire la verità sulla base delle carte processuali dove, a voler leggere bene, c’è scritto tutto».
Eppure le parti civili si sentono beffate e non solo per dover pagare le spese processuali, epilogo amaro ma previsto dalla legge. Vorrebbero sentir parlare la politica, il convitato di pietra. Perché chi sa tace ancora? La domanda non tiene conto della differenza tra la verità che porta a una condanna e il contesto a cui fa riferimento, replica l’avvocato ed ex senatore Guido Calvi. «Tutti i processi per strage vedono sul banco degli imputati elementi della destra eversiva e dei servizi segreti - spiega Calvi - Ma mentre le responsabilità penali hanno carattere individuale per quelle istituzionali servono riforme. Con grande difficoltà l’Italia ha accertato le responsabilità dei reati più gravi e anche nel caso di Brescia e dell’Italicus le ha indicate, seppur non tali da determinare condanne. La magistratura, a Brescia come altrove, ha fatto quanto doveva e poteva. La politica? Non so cos’altro avremmo dovuto fare considerando quanto avviene in altri Paesi: per esempio non sappiamo ancora chi ha ucciso Kennedy».
Bisogna accontentarsi della sentenza di Brescia, insomma? Rosario Priore, giudice istruttore per il caso Moro, si morde la lingua: «Non voglio parlare, era prevedibile, la conferma delle miei ipotesi. Tutti questi processi hanno lo stesso destino. Tranne quello di Bologna nessuno è mai andato oltre il primo grado perché le prove portate non reggono al vaglio dibattimentale e i magistrati non ritengono la documentazione valida per condannare». L’ex capo della procura milanese Gerardo D’Ambrosio è d’accordo: «Quando si fanno le indagini bisogna tener conto che subiranno il vaglio dibattimentale. Alle deposizioni devono corrispondere riscontri oggettivi che non si basino su altre dichiarazioni per non ricadere nei pentiti che si richiamano ad altri pentiti». Avendo indagato a suo tempo su piazza Fontana, D’Ambrosio è convinto che la storia dell’Italia degli anni ‘60 e ‘70 non sia più un mistero: «Ormai sappiamo che si voleva abbattere la nostra giovane democrazia. La strategia della tensione risale al 12 dicembre 1969, poi venne la strage di Brescia che con ogni probabilità fu organizzata dagli stessi ambienti estremisti di destra. In più c’erano i depistaggi istituzionali. Quando a Milano cercammo d’individuare le responsabilità dell’agente del Sid Giannettini ci tolsero il processo. Allora i colpevoli li trovammo, anche se furono assolti in appello, ma davamo valore solo a ciò di cui trovavamo riscontri oggettivi».
Verità processuale od omissione storica, la sentenza di Brescia lascia l’amaro in bocca. «Il fatto che a trentotto anni di distanza non si sia ancora riusciti a identificare e condannare i colpevoli suscita amarezza e inquietudine» nota l’ex ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Nicola Mancino. Quattro anni fa anche il presidente della Repubblica Napolitano lamentò che per molte stragi non si fosse arrivati a «un’esauriente verità giudiziaria». Ci si arriverà mai? Per il gip di Cremona Guido Salvini, che a Milano indagò sulle trame nere da cui nacquero le inchieste su piazza Fontana, e di Brescia, stavolta c’eravamo vicini: «Mi sorprende in particolare l’assoluzione di Maurizio Tramonte, hanno assolto un reo confesso».
MICHELE BRAMBILLA
Il presidente ha appena finito di leggere la sentenza e nell’aula della Corte di assise di appello Manlio Milani è fermo in piedi, in silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto, le mani giunte come fosse in preghiera. Ha 73 anni e da 38 si batte perché vengano assicurati alla giustizia i mostri che si portarono via sua moglie, Livia Bottardi, che di anni ne aveva 32. «Partecipai alla prima manifestazione un mese dopo la strage, a Carrara - racconta - Da allora non ho mai smesso di fare tutto il possibile per arrivare alla verità». Dieci anni fa ha fondato, con altri, la Casa della memoria.
Lo chiamano al telefono Agnese Moro e Silvia Giralucci. Benedetta Tobagi è qui in aula e gli va vicino. Quante persone accomunate da un identico dolore. Ci si scambiano parole difficili, come sempre quando ci si sente impotenti di fronte alla sofferenza.
Milani, sperava che questa volta ci sarebbero state, finalmente, delle condanne?
«No, mi aspettavo queste assoluzioni. Sulle responsabilità personali le prove non erano sicure e capisco che i giudici vogliano certezze. Ma ogni volta che sento la parola “assolve”, è difficile».
Pensa che tanti anni di battaglie siano stati sprecati?
«È come se avvertissi una scissione tra il mio ruolo e quello che la realtà mi permette di fare. Ed emerge stanchezza».
Questo era il quinto processo per la strage di piazza della Loggia. La decima sentenza. Millecinquecento testimoni, novecentomila pagine di verbali. Tutto inutile?
«No, anzi. Non è stato possibile arrivare a condanne, ma la verità storica è stata ricostruita più che in passato».
E qual è questa verità?
«Le bombe furono messe da estremisti di destra con la complicità e la copertura di elementi dei servizi segreti. Sono cose risapute da anni ed emerse anche in altri processi, ma questa volta ci sono molte prove in più».
Ci faccia qualche esempio.
«Il generale Gianadelio Maletti del Sid nell’agosto del 1974 era stato interrogato e aveva detto di non aver avuto alcuna segnalazione su una possibile strage a Brescia. Adesso abbiamo il documento scritto che lo smentisce: Tramonte lo aveva avvisato di un grosso attentato in preparazione. Nel 2010, in questo processo, Maletti ha dovuto ammettere che nel ’74 mentì. “Tramonte era una fonte importante e lo dovevo coprire”, ha detto. Ma tanto ormai vive, da anni, in Sudafrica e non gli può succedere niente».
Può bastare la verità scritta sui libri di storia?
«No, senza la verità giudiziaria c’è il rischio che quella storica sia in balia degli eventi e delle opinioni personali. La verità giudiziaria è fondamentale per dare il senso delle istituzioni. Soprattutto le nuove generazioni hanno bisogno di questo, di avere fiducia nelle istituzioni».
Ormai però è quasi impossibile che la magistratura possa fare qualcosa.
«Sì, ma adesso è la politica che può aiutare a ricostruire una verità che abbia l’autorità delle istituzioni. Con queste nuove prove, mi aspetto iniziative importanti».
Ad esempio?
«È dal 2007 che c’è una “nuova” legge sul segreto di Stato, ma è ancora priva dei decreti applicativi. Credo che ci siano ancora molte cose che non sono state rivelate per la cosiddetta ragion di Stato. Comunque mi aspetto qualcosa anche da questi giudici che oggi hanno assolto per insufficienza di prove».
Che cosa possono fare ormai?
«Motivare bene la sentenza, fornire una ricostruzione logica dei fatti. Le motivazioni di primo grado sono di una sciatteria impressionante».
Sciatteria?
«Non è possibile, ad esempio, scrivere genericamente che la bomba scoppiò “verso le dieci” quando tutti sanno che scoppiò alle 10,12. Così come non è possibile scrivere che ad Abano Terme si era riunito un gruppo eversivo “in fieri” quando tutti sanno che era Ordine Nuovo, un gruppo organico costituito da tempo. E ancora: hanno scritto che negli anni Novanta tutti i documenti conservati al centro di controspionaggio di Padova, compresi i libri di protocollo che per legge dovevano essere conservati, sono stati distrutti. È un fatto gravissimo e nella sentenza è riportato così, come una semplice constatazione, senza andare più a fondo».
Non pensa che anche quei giudici, come quelli di altri processi, avevano ormai il lavoro inquinato dai vecchi depistaggi?
«Sì, e infatti rispetto la loro decisione di assolvere. Ma mi aspettavo una ricostruzione migliore».
Che cosa ha pensato poco fa, quando ha sentito che ora dovrete anche pagare le spese processuali?
«Non ci era mai successo. È ridicolo che le vittime debbano pagare le spese allo Stato quando lo Stato dovrebbe essere sul banco degli imputati».
Due rappresentanti dello Stato c’erano, fra gli imputati: Delfino, ex generale dei carabinieri, e Rauti, ex parlamentare.
«Che non si sono mai degnati di venire in aula».
Signor Milani, di notte si sogna mai quel 28 maggio 1974?
«Sogno spesso mia moglie. Cammina, con una valigia in mano, come se dovesse partire. Mi gira intorno, e non parte. Forse vuol dire che non se ne può andare in pace finché non ha avuto giustizia».