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 2012  aprile 14 Sabato calendario

Da tempo lo scrittore Erri De Luca va in giro a sostenere con orgoglio di aver fatto parte dell’«ultima generazione rivoluzionaria del 900»

Da tempo lo scrittore Erri De Luca va in giro a sostenere con orgoglio di aver fatto parte dell’«ultima generazione rivoluzionaria del 900». Lo ha fatto anche a Otto e mezzo, su La7, lunedì 9 aprile. Ognuno ha il diritto di raccontare la propria vita come meglio crede, ma chi viene pubblicamente riconosciuto come un intellettuale ha il dovere di fare i conti con quello che dice e magari anche con quello che ha fatto. La cosa disturbante, nel caso di De Luca, è la pervicace protervia con cui rifiuta l’uno e l’altro. RIVOLUZIONARIO DEGLI ANNI 70. Dunque, quando faceva di professione il rivoluzionario, De Luca era il responsabile del servizio d’ordine di Lotta continua. Sciolto il gruppo, nel 1976, continuò la sua militanza come operaio alla Fiat. La sconfitta sindacale nell’autunno del 1980 chiuse per lui «l’appartenenza a un movimento rivoluzionario». Sarebbe interessante sapere che cosa ci fosse esattamente di «rivoluzionario» nella situazione italiana degli Anni 70 e 80, ma questo De Luca non lo dice. ABBANDONO DELLA CAUSA. Si può immaginare che il suo abbandono della causa sia stato anche provocato da errori dei promotori del rivolgimento, ma lui non ne vuole parlare: «Preferisco raccontare sempre l’idea di aver fatto la cosa giusta». Rifiuta con peloso sarcasmo, per quel periodo, l’etichetta di «anni di piombo»: «Io non li chiamo così, saranno stati anni di piombo per gli idraulici che ancora facevano gli scarichi con quel materiale, non era ancora arrivato il pvc». VIOLENZA, STRUMENTO POLITICO. Naturalmente De Luca sostiene che l’uso della violenza non è discriminante per definire il terrorismo: «Come lo intendo io, terrorismo è quello di piazza Fontana, di piazza della Loggia a Brescia, quello che aveva collusioni con poteri dentro lo Stato e che è stato assolto». Va anche più in là: «La violenza è stata lo strumento politico di un secolo di rivoluzioni. Dal punto di visto del 900, è stata una forza promotrice del miglioramento di miriadi di masse umane». Non lo sfiora il pensiero che sia stata anche la causa della morte di almeno un centinaio di milioni di persone, un dettaglio certo trascurabile nell’inseguimento delle magnifiche sorti e progressive cui avevano il torto di opporsi o semplicemente di non condividere. LA RIVOLUZIONE CONTAGIA. Nell’apologia della «generazione rivoluzionaria», per altro «sconfitta politicamente e militarmente», De Luca inventa che è stata quella «più imprigionata nella storia d’Italia, anche più che sotto il fascismo» e gli presta virtù salvifiche: «Eravamo contagiosi. Dove arrivavamo, facevamo lega. Aumentava la temperatura politica, affettiva, sentimentale del posto». D’altra parte, come stupirsi: quello rivoluzionario era «l’ordine del giorno del mondo». E chiunque vi si richiamasse era dalla parte giusta, quello che eventualmente praticava non era terrorismo. E lì piazza l’affondo definitivo, almeno ai suoi occhi: fa l’esempio di Nelson Mandela e dell’Anc, come se il Sud Africa dell’apartheid fosse in qualche modo paragonabile all’Italia degli Anni 70. Ma, è noto, l’orizzonte rivoluzionario riduce tutto a uno, semplifica, riconosce solo un imperativo categorico, è assoluto. Solo i riformisti, poveretti loro, perdono tempo con l’analisi relativa del tempo e del luogo. L’omicidio Calabresi raccontato all’osteria Milano, 1972: i funerali del commissario Luigi Calabresi. (© ansa) Milano, 1972: i funerali del commissario Luigi Calabresi. C’è tuttavia una domanda alla quale perfino lui non può «rispondere serenamente» e infatti si guarda bene dal farlo: come spiegherebbe a un 18enne di oggi l’omicidio del commissario Luigi Calabresi? «Stando insieme a un tavolo di osteria, gli racconterei una storia di quel tempo, di quel mondo, di chi eravamo noi e di chi erano loro. Niente di piccante o di giudiziario. Qui non posso dire che storia gli racconterei, avrei bisogno di quell’intimità». SCIOCCHEZZE DA IMBARAZZO. Ascoltare questa raccolta di sciocchezze mi provoca sincero imbarazzo, profonda rabbia e anche un po’ di pena. In fondo, dal punto di vista anagrafico, appartengo alla stessa generazione. Anche se non sono mai stato rivoluzionario, non ho mai partecipato a una manifestazione, non ho mai sottoscritto un volantino. Trovo vile, da parte di coloro che si proclamano «rivoluzionari», non aver mai raccontato la verità, cosa che quelli di Lotta continua (per non andare troppo lontano) si rifiutano ancora oggi di fare e non solo a proposito dell’omicidio Calabresi. Ritengo disonesto continuare a spacciare un’allucinazione collettiva annegata nel sangue, di quella generazione e di molti innocenti, come la «cosa giusta». DELIRIO TRAVESTITO DA PROGETTO POLITICO. Considero disgustosa l’ipocrisia con cui si cerca di ammantare un progetto delirante in un involucro «politico, affettivo, sentimentale». Gli «anni di piombo» non sono stati tali per gli idraulici, ma per le centinaia di persone ammazzate, ferite, per sempre rovinate dai proiettili delle P38 (oltre che dalle collusioni dei servizi di Stato con i gruppi eversivi, naturalmente). IL VALORE DI TACERE IN TEMPO. Spacciando questa merce avariata, l’intellettuale De Luca contraddice due volte se stesso. La prima quando afferma che «è un valore tacere in tempo»: appunto, abbia la decenza di seguire i suoi buoni consigli. La seconda quando propone che «coloro che si comportano ignobilmente con la comunità dovrebbero perdere il diritto di cittadinanza, niente passaporto, niente carta d’identità, niente patente per un tempo sospeso»: appunto, si autocandidi alla pena da lui stesso inventata. Ma forse questo è troppo, per uno che usa il molto rivoluzionario principio secondo cui il proprio comportamento viene misurato con un metro diverso da quello degli altri. LA VERA RIVOLUZIONE NELL’EST. Appartenenza generazionale per appartenenza generazionale, preferisco legare la mia ad Adam Michnik, uno dei fondatori di Solidarnosc, direttore della Gazeta Wyborcza, uno dei migliori giornali europei. Una volta mi raccontò di quando, negli Anni 70, gli intellettuali dell’Est europeo cominciavano a mettere in piedi la rete di dissidenza che alla fine provocò il mirabile 1989. Si incontravano d’inverno, in capanne senza riscaldamento sui monti Tatra, al confine fra la Polonia e l’allora Cecoslovacchia. A volte aspettavano per giorni qualcuno che non sarebbe arrivato, perché arrestato dalla polizia comunista: capitò molte volte con Vaclav Havel. Fra repressione e terrore, ma senza terrorismo, fecero cadere uno dei grandi totalitarismi del 900. Gli chiesi cose ne pensasse del 68 in Europa occidentale. Mi rispose così: «Ah, sì: nel frattempo, a Parigi, gli studenti organizzarono un carnevale e lo chiamarono rivoluzione». Sabato, 14 Aprile 2012