FRANCESCO BONAMI, La Stampa 13/4/2012, 13 aprile 2012
“Curo l’imperfezione delle mie opere nei minimi dettagli” - I suoi genitori, entrambi medici, temevano di aver messo al mondo uno sfaticato
“Curo l’imperfezione delle mie opere nei minimi dettagli” - I suoi genitori, entrambi medici, temevano di aver messo al mondo uno sfaticato. Mai avrebbero immaginato che il loro bambino sarebbe invece diventato uno stakanovista dell’arte contemporanea, un vulcanico enfant prodige e oggi una delle stelle più gettonate del mondo dell’arte. Stiamo parlando di Urs Fischer, nato a Zurigo nel 1973 di cui si apre oggi a Palazzo Grassi Madame Fisscher una mostra che, nonostante la tenera età, si può definire una mini retrospettiva. Con questa ultima fatica Fischer chiude un tour de force iniziato sette mesi fa con una mostra di 300 tavoli tutti disegnati da lui nella Galleria di Gavin Brown a New York. Poi c’è stata un’altra retrospettiva alla Kunsthalle di Vienna seguita a ruota da una spettacolare personale, aperta la settimana degli Oscar, alla Gagosian Gallery di Los Angeles dove Fischer ha presentato i lavori più recenti, una serie di serigrafie giganti di ritratti di vecchie glorie di Hollywood che però avevano stampate in mezzo alla faccia oggetti e verdure di vario tipo, da un cetriolo ad un bullone. Problems Paintings, pitture con dei problemi, cosi li chiama l’artista che a vederlo sembra lo scudiero di Ivanhoe. Finito con la West Coast il nostro svizzero volante ha presentato cinque lavori magici nella dependance parigina sempre di Gagosian. Poi finalmente il gran finale a Venezia. Perché la mostra è intitolata “Madame Fisscher” ? «Mi piace dare nomi di signore alle mie opere. Questo è il titolo della ricostruzione di uno dei miei primi atelier nell’atrio di Palazzo Grassi. Il punto di vista migliore sarà però dall’alto. Mi piace la tensione fra l’architettura sontuosa del palazzo e il caos dello studio». Hai cambiato la fisionomia dello spazio espositivo. «Si ho chiuso alcune stanze e creato un percorso non lineare. Il pubblico può andare dove vuole, non c’è una sequenza o una gerarchia dei lavori». Non hai voluto mostrare i muscoli in questa occasione «Esatto, ho voluto fare una mostra quasi domestica. Non c’è bisogno sempre di dover dimostrare quanto uno è cool». Il tuo stile si potrebbe definire artigianato barocco o barocco casalingo? «Se ti fa piacere sì» A volte sei monumentale o meglio gigantesco ma questa volta presenti la dimensione umana della tua scultura, come la mano che penzola davanti al bassorilievo in cima alle scale. «Sì voglio che lo spettatore si senta a suo agio, si diverta, abbia un rapporto con l’arte meno sacro, più vicino alla propria vita». Cosa vuoi che la gente si ricordi della mostra? «L’atmosfera. Perché tanto chi viene a Venezia quando parte non si ricorda mai quello che ha visto o fatto ma si ricorda solo e semplicemente Venezia. La mia mostra è una delle tante altre cose che si vedono quando si viene in questa città». Sapevi di essere un artista fin da piccino ? «No. Ho studiato fotografia, l’idea di fare l’artista non mi è mai passata per la testa. Ancora oggi mi piace fare arte ma non essere un artista». In un profilo su di te sulla rivista «The New York» Calvin Tomkins ti definisce “L’imperfezionista”. «Sì perché curo l’imperfezione delle mie opere nei minimi dettagli. Tutto deve essere perfettamente imperfetto». Precisione svizzera. Ma a vederti non sembri molto svizzero. «Invece lo sono sicuramente molto anche se non saprei spiegare in cosa consista la mia “svizzeritudine”» Hai guardato molto alla Pop Art quando hai iniziato la tua carriera di artista? «La Pop Art non è mai stata un mio punto di riferimento. Anzi oggi la trovo quasi sentimentale. Ha perso quella freschezza e durezza che aveva quando venne fuori». Ma il tuo studio è un po’ una factory alla Warhol, un’officina? «Non veramente. Ci lavorano al massimo 12 persone che mi sembra il numero giusto. Troppa gente crea troppa tensione e dramma. A volte però invidio i pittori ai quali basta solo qualcuno che tiri le tele e poi fanno tutto da soli. Poche spese, più guadagno». I soldi t’interessano ? «Certo che sì. I soldi mi consentono di continuare a fare altri lavori e a vivere bene. Sicuramente di questi tempi a volte il mercato dell’arte impazzisce, ma non è un mio problema». Quando un lavoro è venduto come ti senti? «Molto bene perché insieme al lavoro vendo anche la responsabilità dell’opera. C’è qualcun’altro che deve prendersene cura e sono contento che abbia trovato una casa dove stare tranquilla. Poi il lavoro acquista valore, non economico, ma simbolico quando esce dallo studio ed entra nel mondo. Per me questa è una grande soddisfazione». All’ultima Biennale hai presentato la grande candela del «Ratto delle Sabine del Giambologna» insieme alla candela ritratto del tuo amico Stingel ed una sedia candela. A Palazzo Grassi in una stanza troviamo di nuovo Stingel, questa volta seduto ma ci sei anche tu seduto a un tavolo con una bottiglia candela davanti. Come mai hai fatto l’autoritratto? «Me la meritavo anch’io una candela». Perché le candele? «Le ho usate spesso anche in lavori precedenti. Mi danno l’idea di qualcosa che progredisce, che si trasforma, che si consuma senza scomparire. L’opera non c’è più ma al tempo stesso non è andata da nessuna parte». Come mai hai usato quella scultura di Giambologna? «Avrò guardato almeno 1000 sculture diverse prima di decidere quale utilizzare.Questa di Giambologna mi sembrava perfetta. Non ha emotività, non è ne troppo famosa ne troppo sconosciuta. Non è nemmeno troppo grande e le figure hanno un tasso di passione e desiderio molto basso». Nel tuo lavoro il tasso di passione e desiderio a che livello è? «Non saprei. Quello di semplicità però molto alto». C’è magia e mistero nelle tue opere? «Ne più ne meno come in tutta l’arte. Che esiste ma non si sa bene perché, eppure esiste da sempre. L’istinto al gesto artistico lo abbiamo prima ancora di iniziare a parlare. A qualcosa, l’arte, dovrà pure servire, ma non si capisce mai veramente a cosa».