Stefano Landi, Corriere della Sera 13/04/2012; Emilio Isgrò, ib., 13 aprile 2012
2 articoli – DESIGN, UNA QUESTIONE DI GRAFICA - L’ abbraccio di un libro aperto è speciale, ci sta dentro tutto
2 articoli – DESIGN, UNA QUESTIONE DI GRAFICA - L’ abbraccio di un libro aperto è speciale, ci sta dentro tutto. Pagine bianche, perché ci sarà sempre qualcosa da scrivere. Incastonate ci sono opere storiche, pietre miliari, citazioni delle radici culturali più forti: dal razionalismo grafico anni Trenta al futurismo. Comincia così il viaggio dedicato alla cultura visiva del nostro Paese di «TDM5: Grafica italiana», quinta edizione del museo della Triennale che inaugura oggi. Non oggetti puri, ma altre facce della stessa natura: caratteri tipografici, segnali stradali, manifesti, affissioni. Un museo per una storia in attesa di essere scritta. Perché come spiega Fabio Novembre che ha messo in scena la collezione navigando in un mare di segni, «ogni segno può essere immaginato sulla superficie delle sue pagine, non trovarne, lascia spazio a qualsiasi interpretazione: basta perdersi tra le pagine». Si entra camminando in un arcobaleno e si prosegue lungo una strada che corre attraverso nove stanze in un continuo gioco cromatico. Una trasparenza filtrata dalla luce delle finestre: si decolla col rosso, si atterra nell’ultravioletto. «Il colore è la prima categoria grafica con cui ci confrontiamo da bambini e, attraversando lo spettro cromatico, in ogni tonalità si rintracceranno tutte le altre forme che accorpano i 1.300 lavori in mostra», aggiunge Novembre, felice di essere stato coinvolto nell’edizione più dissacrante del Design Museum. Un racconto in nove artefatti, nessuna cronologia. Si parte dalla scrittura, quella dei libri, fino a quella più evoluta dei periodici. Ci sono gli house organ aziendali che una volta calamitavano penne rotonde di poeti e filosofi. Poi i video, frammenti di sigle, manifesti politici, imballaggi alimentari, le pubblicità. Un viaggio più che mai trasversale in cui anche quello che si pensava di conoscere, anche solo per sentito dire, visto in un museo fa un effetto diverso. Le «prime» del Manifesto, le copertine di Linus, ma anche gli ultimi libri ISBN. Le confezione di farfalle Barilla del ’56, le bottiglie Frisia del ’69, il logo Olivetti come quello del Digestivo Antonetto. I materiali sono sotto teca o appesi, alcuni proiettati dai monitor. Parentesi in esterna, il tempo di una sigaretta intorno alla «voliera dei loghi», con 21 marchi storici italiani che «cinguettano» a cielo aperto. I maestri stampatori, i tipografi, i grandi cartellonisti. Rivincita dei progettisti grafici che hanno dato forma al Novecento. Non più solo come sfondo di stagioni politiche, tendenze di gusto o campagne pubblicitarie, ma per una volta in primo piano, sotto la luce di tutti i riflettori. «Da decenni mancava una mostra interamente dedicata alla grafica, abbiamo voluto mettere le cose a posto», racconta Silvana Annicchiarico, direttrice del Triennale Design Museum. «Una scelta per nulla scontata, abbandonando la strada sicura e collaudata legata agli oggetti: una scelta rischiosa ma necessaria dato che la grafica era considerata da troppi come categoria di serie B, sempre serva di design e architettura». Operazione riuscita? «Mi piace l’equilibrio che si è creato in ogni stanza, tra icone del passato e pezzi meno noti», racconta la direttrice. A più di 60 anni di distanza, la missione di Guido Modiano è stata raccolta: disinteressarsi dei nomi dando valore al lavoro prodotto dalle persone. Per i tre curatori, uno sforzo ciclopico tra marchi, caratteri tipografici, opuscoli o volumi delle maggiori case editrici. «Qualcuno potrà dire che mancano pezzi importanti, ma dietro a questa mostra c’è un inevitabile lavoro di selezione: quello che un designer o un artista fanno in un anno, un grafico lo fa in un giorno», spiega Mario Piazza che insieme a Giorgio Camuffo e Carlo Vinti ha selezionato i materiali. Una mostra che spiega quanto c’è di grafica nel quotidiano di ognuno di noi, quanto di pensato e spesso geniale si sovrappone alla dimensione del vivere. Capire che dietro a gesti apparentemente normali come comprare un giornale in edicola o una confezione di pasta al supermercato c’è sempre un progetto di forme. Fino a ieri molto era dato per scontato. Sotto questa luce però tutto sembrerà diverso: ci sarà qualcosa da scoprire, in tanto altro ci si riconoscerà. «Il successo del made in Italy è merito anche di chi l’ha saputo comunicare, ricamandoci intorno il vestito più adatto», spiega Piazza. Stefano Landi «L’ARTE SEDOTTA DALLA TIPOGRAFIA CERCA VERITA’ E IMPERFEZIONI» - Non occorre essere troppo sagaci per immaginare che l’arte degli ultimi cento anni sarebbe stata diversa se non fossero esistiti la stampa e le alte tirature. Il caso più conosciuto è forse quello di Picasso, che per Guernica scelse il grigio e il nero dei giornali, conferendo alla tragedia evocata quella tinta di verità che un uso del colore meno spregiudicato non avrebbe probabilmente con-sentito. E tuttavia lo stesso Picasso aveva fatto di meglio, in questa direzione, nel periodo del primo cubismo, quando decise di costruire i suoi quadri attorno a un nucleo tipografico - in genere collage o lettere dell’alfabeto stampigliate sulla tela - che trasmutavano le forme, anche quelle più propriamente pittoriche, in una scrittura capace di fondere insieme disegno e colore, trasformando l’opera in un racconto letterario (meno distante di quanto si creda dalle coeve esperienze di Joyce) piuttosto che nella solita rappresentazione visiva del mondo. Se la prospettiva rinascimentale aveva infatti permesso ai pittori un’illusione di realtà documentale - grazie all’artificio della «piramide capovolta» che apparentemente collocava gli oggetti del quadro alla giusta distanza dallo spettatore - l’irruzione della fotografia vanificò tale illusione, costringendo gli artisti a inventarsi nuove competenze e nuove funzioni. Per i pittori, in particolare, era urgente restituire alla piatta bidimensionalità della tela quello spessore e quella profondità che all’improvviso venivano a mancare, e la strada poteva essere proprio quella di una nuova prospettiva - una «prospettiva verbale» - che, liberando l’opera da ogni necessità di verosimiglianza, in quanto per questo bastavano i fotografi, aprisse la strada a quella concettualizzazione delle arti che ancora oggi perdura. Da qui tutto il proliferare di alfabeti tipografici che da Mallarmé in poi hanno marcato il mondo della ricerca artistica, passando dai futuristi al lettrismo, dalla poesia visiva all’arte concettuale. Credo non sia possibile dare in breve un’idea della vivacità di una sperimentazione che ha coinvolto quasi coralmente i poeti e i pittori di tutto il mondo. E questo senza citare i soliti nomi canonici di Marinetti o Apollinaire, anche se qualche esempio successivo ai padri fondatori va fatto, a cominciare dal Libro imbullonato di Fortunato Depero, dove la tipografia futurista celebra i suoi ultimi fasti come meglio non si potrebbe, fondendo caratteri e segni in un catalogo di proposte che ancora stupisce per la sua generosità e la sua ricchezza. Meno note al grosso pubblico, invece, sono le invenzioni di artisti-poeti come l’italiano Carlo Belloli (che iterando la lettera i della parola «treni» crea un’icona memorabile dell’Italia in guerra) o il cecoslovacco Jiri Kolar, che ricopre di scritture gotiche tratte da libri e giornali gli oggetti più disparati, fino a rendere inscindibile il rapporto tra il segno astrato del carattere a stampa e la forma concreta dell’oggetto. È chiaro che molte di queste sperimentazioni estetiche hanno dato spesso l’input a tante soluzioni della migliore grafica pubblicitaria (si pensi al rapporto dello stesso Depero con la Campari); mentre sarebbe ingiusto sottovalutare l’influsso che la pubblicità ha avuto a sua volta su artisti come Rauschenberg o Rotella. Certo è che in tutto questo ci sono almeno due paradossi. Primo. Adottata dalle avanguardie per raccontare un mondo non più rappresentabile con la prospettiva di Pier della Francesca, la parola tipografica è diventata essa stessa il mondo in certe propaggini dell’arte concettuale angloamericana, quelle più datate, ancora legate all’idea di un’arte che nasce dall’arte stessa, incurante del vuoto che la circonda. Secondo. I primi artisti attratti dal segno tipografico volevano forse descrivere una realtà serializzata sottoposta ai ritmi della produzione e del consumo. Ora, con l’abbondanza dei caratteri offerti dalle tipografie digitali, così puliti e perfetti, quei caratteri gli artisti sono costretti a storpiarli, graffiarli o cancellarli manualmente, per proporre un linguaggio dove l’errore umano si oppone all’orrore di un mondo troppo uguale e conforme per essere ancora abitabile. Emilio Isgrò