Paolo Griseri, la Repubblica 12/4/2012, 12 aprile 2012
La nuova sfida dell’auto – TORINO Lo ammettono anche gli addetti ai lavori: non è più quella di una volta
La nuova sfida dell’auto – TORINO Lo ammettono anche gli addetti ai lavori: non è più quella di una volta. Ha perso un po’ di fascino, ha smesso di essere desiderabile come un tempo, l’oggetto dei sogni, uno dei simboli della libertà dell’Occidente. Con il tempo un po’ di charme se ne è andato. E i numeri sono lì impietosia dirlo: dal 2007 a oggi il suo mercato in Italia ha perso il 40 per cento. Certo, il contesto economico non aiuta: per molti è diventata un lusso, mantenerla è anche abbastanza costoso. Ma quel che colpisce è il fatto che abbia perso appeal nei confronti dei più giovani. Ragazzi con pochi soldi. Ma anche ragazzi meno desiderosi di utilizzarla per conquistare la libertà. In fondo, in un mondo più virtuale non sarà così necessaria per incontrare persone nuove. E in un mondo più attento all’ecologia, potrebbe rischiare di trovarsi fuori posto. Così, negli ultimi mesi c’è già chi ha già intonato per lei il de profundis. L’auto è davvero sul viale del tramonto? I dati dicono che nel 2007 in Italia si sono vendute 2,4 milioni di automobili. Una marea. Le previsioni aggiungono che quest’anno il mercato chiuderà a 1,5 milioni. Un crollo. 900 mila auto in meno in cinque anni, il 37,5 per cento. Certo è un periodo particolarmente difficile, quello dell’auto è un mercato ciclico e probabilmente si riprenderà. Ma le analisi dell’Unrae, l’associazione che riunisce i costruttori stranieri che operano in Italia (e che rappresentano oltre il 70 per cento del mercato), traducono in numeri la perdita di charme dell’automobile presso le nuove generazioni, i consumatori del futuro. TORINO Tra il 2005e il 2010 il numero di ragazzi che acquistano una vettura è sceso quasi del 30 per cento, il doppio del mercato. Nello stesso periodo il numero di anziani che compera un’auto è aumentato del 14 per cento. L’auto la comperano i nonni e la disdegnano i nipoti. Non è solo una questione di numeri, di strategie industriali. È questione di abitudine, di stili di vita. E di possibilità. Sirio Tardella è il direttore del Centro studi Unrae, uno dei due centri, insieme al Promotor di Bologna, che scrutano l’andamento del mercato dell’auto italiano: «È sicuro che per i giovani l’auto è diventata un lusso, ma forse non è più un miraggio», sintetizza Tardella. Incide il costo dell’assicurazione, che per i giovani è mediamente superiore del 15 per cento rispetto a quella di un conducente maturo. Incide il costo della vita: «Un’auto ferma costa 300 euro al mese. Se la si vuole utilizzare bisogna naturalmente aggiungere il carburante», spiega Tardella. E osserva: «L’Italia ha una disoccupazione giovanile superiore al 30 per cento. I giovani sono senza lavoroo sono precarie guadagnano molto poco. Lei si immagina quanti di loro sono disposti a spendere quasi 500 euro al mese per un’auto?». La crisie la precarietà picchiano duro. E paradossalmente sono la causa indiretta dell’aumento del numero di nonni che acquistano l’automobile. «Un tempo - osserva il direttore del centro studi Unrae - la liquidazione era l’occasione per comperare la casa. Con il tfr di oggi è già un successo se si riesce ad acquistare un’auto di media cilindrata». Per i nonni l’auto sostituisce l’alloggio, per i ragazzi il computer sostituisce l’auto. E non è solo un problema di soldi. Per le generazioni del dopoguerra italiano, tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta, l’auto era la libertà di movimento, un mezzo per andare dove si voleva e con chi si voleva. L’etimologia del verbo rimorchiare è lì a dimostrarlo: si conoscevano le ragazze anche invitandole a fare un giro in auto. Non era necessario essere Jeames Dean o John Travolta per riuscirci. «Per i ragazzi di oggi - dice Tardella - il fascino dell’automobile è scemato. Nonostante gli sforzi dei costruttori. È chiaro che, anche senza crisi economica, per un ventenne del Duemila le quattro ruote non hanno più il richiamo di una volta». Oggi si rimorchia su Internet e tra qualche tempo i ventenni non sapranno nemmeno perché i più anziani continuano ad usare quel verbo desueto.