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 2012  aprile 12 Giovedì calendario

Bobo, missione impossibile – «TU HAI un partito organizzato, ma io ho delle tribù». Era il Bossi del ’94, quello del "patto delle sardine" con D’Alema e Buttiglione per far cadere il primo governo Berlusconi

Bobo, missione impossibile – «TU HAI un partito organizzato, ma io ho delle tribù». Era il Bossi del ’94, quello del "patto delle sardine" con D’Alema e Buttiglione per far cadere il primo governo Berlusconi. In diciotto anni molte cose sono cambiate nella Lega, diventata un partito sempre più simile agli altri. Tranne per la struttura tribale, che Bossi fingeva di lamentare. Perché se c’è stato uno che ha sempre lavorato per non far crescere gruppi dirigenti nella Lega, per mantenere le tribù divise e litigiose, capaci di unirsi soltanto all’arrivo del profeta guerriero, quello è proprio il Senatur. EIL gioco è riuscito talmente bene che anche ora che Bossi è morto per la seconda volta, travolto dagli scandali di famiglia, ai successori non rimane altro da fare se non resuscitarlo. Questo ha fatto Roberto Maroni nella notte delle scope di Bergamo, con un espediente avvocatesco mica da ridere, una specie di capriola cinese di quelle dove non si tocca mai terra, cercando di far passare il capo per un ingenuo truffato dal cerchio magico e dai figli. Bossi turlupinato dal Trota? Ridicolo, ma non si poteva fare altro. «Bossi rimarrà comunque una figura centrale» prevede Lydia Dematteo, antropologa francese, autrice de "L’idiota in politica", la migliore inchiesta mai fatta sulla Lega. «La Lega non può farea meno del capo, almeno come maschera, unica vera fonte identitaria, perché altrimenti imploderebbe». In termini più spicci e sotto la promessa di anonimato, un dirigente leghista di Varese la vede così: «L’Umberto l’è ormai come il Tito degli ultimi anni. Lo tengono in vita artificialmente perché tutti sanno che un minuto dopo la sua morte, nella Lega parte la guerra civile. Il cerchio magico ora lo criticano tutti, ma faceva comodo. E poi Maroni che farà? La stessa cosa di Rosy Mauro, la badante». Bossi come Tito non è un’idea tanto sballata. La Padania non esiste, non è mai esistita. Non è una nazione né un popolo né una lingua e nemmeno un’espressione geografica. Al massimo una comunità d’interessi, peraltro in concorrenza, calata nella realtà di un crogiuolo di storie diverse e di tribù litigiose. La Padania è l’invenzione politica e mitologica di un uomo, Umberto Bossi, che l’ha disegnata a propria immagine e somiglianza. E’ la sua lingua, il suo corpo, la sua biografia, come certe città utopiche che riproducono nella mappa di strade e piazze il volto sacro del sovrano. O la maschera, come dice Lydia Dematteo. Perfino ora che il volto e la maschera sono stati sfregiati due volte, prima dalla malattia e poi dagli scandali. Bossi ha inventato le camicie verdi, il dio Po, le ronde, i trecentomila fucili lumbard che riecheggiano gli otto milioni di baionette, soprattutto ha fabbricato i nemici esterni, Roma ladrona, i burocrati di Bruxelles, la stampa di regime, per tenere insieme le tribù e cucire con filo del rancore un’improvvisata appartenenza. Non esiste un successore in grado di compiere un’impresa altrettanto titanica. Per la verità, non esiste quasi nessun capo leghista in grado anche soltanto di evocare con un minimo di credibilità la mitica Padania. «Bobo, ma tu perché non ci parli della Padania?», ha chiesto l’altra sera a Maroni una delle adoranti fan. In tutto il discorso d’investitura, perché di questo si è trattato, Maroni ha pronunciato "Padania" una sola volta, quasi per fare un omaggio a Bossi, e lo si è notato perché in genere la cita pochissimo. Maroni è un pragmatico, consapevole dei propri limiti e della difficoltà della missione, tenere unite le tribù. Una missione impossibile da solo, ma non con l’icona di Bossi dietro le spalle. E tuttavia le tribù sono già sul piede di guerra, divise da tutto, dai territori, dalla mappa dei poteri, dalla composizione sociale e culturale, dalle lauree vere e da quelle finte. «La divisione territoriale, per esempio fra lombardi e veneti, è la più evidente, ma anche la più banale» spiega Daniele Marantelli, senatore del Pd, oggi pontiere fra il dialogante Bersani e la nuova Lega. In realtà l’ex Liga Veneta è guidata da due personalità lontane anni luce, come l’ex democristiano Luca Zaia e l’ex fascista Franco Tosi, che da mesi litigano su tutto, dalla gestione della Biennale a quella dell’ultimo ospedale di provincia, e si trovano d’accordo soltanto sul non voler più fare «i maggiordomi dei lombardi». La Lombardia leghista è un altro paesaggio balcanico, con i bergamaschi contro i varesini e i varesini divisi fra seguaci di Maroni, il cerchio magico (ridotto a circo magico), col quale i maroniani dovranno comunque trattare, e l’equidistante clan bocconiano di Giancarlo Giorgetti, ormai considerato un traditore dai maroniani. Senza contare la Lega di Milano, dove tutti sono contro tutti e metà del partito vuole mollare l’alleanza con Formigoni. Perché, oltre alle divisioni territoriali, bisogna considerare le divisioni politiche, destinate a incrudelirsi da qui al congresso di giugno. Per esempio, fra i nostalgici dell’alleanza con Berlusconi, capeggiati da Marco Reguzzoni, gli indipendentisti che vorrebbero una Lega delle origini, sola contro tutti, e i dialoganti come Maroni, disposto a trattare con destra e sinistra, secondo convenienza, sul modello del partito catalano, che Bobo in privato cita assai più spesso della leggendaria Padania. Perché c’è un’altra magia che senza Bossi è impossibile da perpetuare, e Maroni lo sa meglio di chiunque altro: la Lega di lotta e di governo. Il capolavoro politico del Senatur. Riuscire a stare al potere per dieci anni di fila, con un numero spropositato di incarichi, e al tempo stesso mantenere la natura di partito della protesta anti sistema. In questo Bossi è stato un genio arcitaliano, capace di declinare in salsa lumbard il napoletanissimo "chiagni e fotti". Tutti gli altri movimenti populisti europei sono stati schiantati dall’ingresso a Palazzo, la Lega no. Quando è al governo, recita da opposizione e guadagna voti. Quando deve fare l’opposizione vera, come dopo il ribaltone e oggi, si dimostra del tutto incapace e crolla nei consensi. Il progetto del pragmatico ex ministro degli Interni è proprio questo, tornare al più presto al governo, con la destra o con la sinistra o col centro o con gli odiati tecnici, sventolando il vessillo del federalismo ancora tutto da realizzare. Non è molto originale, ma almeno è sensato. Per inventare qualcosa di nuovo, in un Nord stravolto dalla crisi e molto cambiato da quello dove nacque il sogno della Padania, ci vorrebbe un nuovo Bossi che non c’è. Magari con qualche testa fina accanto, come furono per il primo Bossi il maestro Gianfranco Miglio e il biografo Daniele Vimercati, teste d’uovo che la Lega ha presto emarginato e mai sostituito, sulla base di un odio anti intellettuale, misto a complesso d’inferiorità, il cui effetto concreto e grottesco è il gran commercio di false lauree. Bobo Maroni, con la sua laurea vera, è l’unico nel gruppo dirigente che assomigli a un intellettuale, l’ultimo ad avere un progetto. Per realizzarlo deve trattare con le tribù una per una, sostituirsi al cerchio magico nella manutenzione del capo e intanto tenere insieme l’alto e il basso, gli apparati del partito e del sottogoverno e il popolo leghista sconvolto dalle rivelazioni delle inchieste. Quelli che per intenderci l’altro giorno alla Fiera di Bergamo si riconoscevano dalla scopa. Le scope vere, prese dal ripostiglio di casa, agitate dalla base incazzata. E le scope finte, verde smeraldo, col simbolo del sole padano, esibite alle telecamere da pingui burocrati lumbard travestiti da antichi celti, con orgoglio tutto recitato e nel cuore il terrore che la questione morale diventi una faccenda seria.