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 2012  aprile 18 Mercoledì calendario

Maroni, lei aveva sentore del fulmine in arrivo? «No, nessun preavviso. Il fulmine ci ha fatto male, ci sta facendo ancora male»

Maroni, lei aveva sentore del fulmine in arrivo? «No, nessun preavviso. Il fulmine ci ha fatto male, ci sta facendo ancora male». Con Bossi siete amici da una vita. «Dal 1979. L’ho conosciuto anche prima della seconda moglie (Manuela Marrone, ndr). Più che amico, un fratello maggiore». Negli ultimi mesi non andavate più molto d’accordo. «Ci sono momenti nella vita in cui anche con l’amico più caro si litiga. Abbiamo attraversato fasi burrascose, l’ultima è una di queste, ma alla fine il nostro rapporto ha sempre resistito, e sono l’unico: tanti della Lega, che sono stati al vertice per qualche tempo – penso alla Pivetti o a Comino – prima o dopo sono entrati in rotta di collisione con Bossi e il partito e sono stati cacciati. La mia è tutta un’altra storia. Lui sa che sono un vero amico e gli sono sempre stato fedele, a differenza di altri che oggi sono al centro dell’inchiesta». Roberto Maroni, ministro dell’Interno in quota Lega fino a pochi mesi fa, è stato prima con Umberto Bossi il fondatore del movimento, suo delfino annunciato, poi allontanato dai nuovi fedelissimi, ora papabile nuovo leader. Queste brutte giornate risvegliano ricordi e pensieri. Davvero crede che Bossi fosse all’oscuro dell’uso dei soldi del partito? «Assolutamente. Mi ha addolorato, in questi giorni, avere la prova che gli dicevano cose non vere su di me, sulla Lega, sui soldi, e lui ci ha creduto in buona fede perché, se ti fidi di qualcuno, gli credi. Negli ultimi mesi il nostro rapporto era teso anche perché cercavo di metterlo in guardia, gli dicevo che non era come gliela raccontavano. Ma lui non mi ha dato ascolto, pensava ce l’avessi con loro». Quando parla di «loro» immagino si riferisca al «cerchio magico», con Rosy Mauro eminenza grigia, e un ruolo importante anche per la moglie di Bossi. «Nomi non ne faccio, sarà la magistratura ad accertarli. Noi stessi faremo pulizia aprendo i cassetti, accendendo le luci, sgombrando ogni ombra. Posso dire che era un gruppo di persone che Umberto aveva intorno, molto vicine, e che a gennaio hanno cercato di farmi fuori. Non ci sono riuscite». È iniziato tutto con la malattia di Bossi? «Sì, molte cose sono cambiate lì, perché lui per un lungo periodo si è allontanato. In questo non condanno la famiglia, era giusto che gli si stringesse intorno, l’hanno aiutato a riprendersi. La malattia però l’ha lasciato più debole, e purtroppo qualcuno si è infiltrato in quel giro e ne ha approfittato. Il giorno delle sue dimissioni Bossi ha detto una cosa, che sono certo gli sarà costata moltissimo: di essere stato preso per i fondelli dal suo giro più stretto. Io sono sicuro che lui non ne sapeva nulla, però chi ne ha approfittato spendeva il suo nome». Diceva che hanno cercato di farla fuori: si riferiva al divieto, poi rientrato, di fare comizi, dopo che aveva criticato la decisione del partito di negare l’autorizzazione a procedere per Cosentino? «Esatto. C’era un condizionamento, da parte di queste persone». All’epoca disse che le veniva da vomitare. Oggi si sente meglio di tre mesi fa? «Mi sento meglio di tre giorni fa. La decisione di Bossi di fare un passo indietro, presa per alleggerire la pressione su di lui e proteggere la famiglia – e unica nella storia dei partiti, mi permetto di far notare –, significa che la Lega ha la forza, dentro, per fare pulizia senza guardare in faccia nessuno. Anzi, come ha detto Umberto, senza guardare il nome di chi ha sbagliato». Infatti nell’inchiesta sono coinvolti la moglie e i figli. Renzo, «il Trota», è entrato in politica dopo che Bossi in passato aveva detto che non avrebbe mai candidato i figli. Anche questo cambiamento è conseguenza della malattia? «Posso solo dirle che lui aveva sempre tenuto separato il partito da parenti e amici. E se ora dice: “Ai ragazzi dovevo preferire la Lega”, vuol dire che si è reso conto dell’errore». Lei è d’accordo? «Assolutamente. Io ho tre figli che non fanno e non faranno mai politica. Mia figlia è un’insegnante elementare precaria, è una sua scelta. Gli altri due studiano ancora. E tenerli lontano dai riflettori, per me, è una priorità». Lei su Renzo aveva mai detto qualcosa a Bossi? «Sì. C’erano già stati episodi che dovevano metterlo in allarme. Non gravi come quello che sta venendo fuori, ma i segnali c’erano». Quando fondaste il movimento, eravate squattrinati. Quanto vi hanno cambiato, in vent’anni di ascesa politica, i soldi? «Per Umberto sono sempre stati un fastidio. Il suo slogan all’inizio era che nella Lega i cavalli dovevano essere magri, così avrebbero corso di più. La regola ancora oggi è che chiunque ricopra un ruolo istituzionale deve versare al partito una quota non irrilevante del proprio stipendio. Per noi parlamentari, si tratta di 2.500 euro al mese». In tanti anni qualche sfizio Bossi se lo sarà tolto. «Forse la casa di Gemonio. Ma fino al 1987 viveva con la Manuela in un monolocale dove per andare a dormire bisognava alzare il tavolo per tirare giù il letto. Poi, da senatore, traslocò in un appartamento dove c’erano cucina e camera, fine. Il suo rapporto con i soldi è come il mio: totale indifferenza. Non facciamo politica per diventare ricchi». I figli di Bossi però amano le auto potenti e gli alberghi di lusso. «Io posso parlare solo del padre». Ma lei comprerebbe la Porsche a suo figlio? «Se la vuole, lo fa con i suoi soldi». Come fa un partito a scegliere come tesoriere uno come Belsito, che sarebbe addirittura vicino alla ’ndrangheta? «Non l’ho certo scelto io. Ha avuto quell’incarico perché era l’assistente del precedente amministratore, Balocchi, leghista della prima ora e uomo fidatissimo di Bossi. Nessuno nel partito è entrato nel merito della cosa, sono nomine che nascono da un rapporto fiduciario con la segreteria politica, era Bossi a scegliere i collaboratori». Ha scelto male. «Scegliere i collaboratori è la cosa più complicata e importante. Se sbagli, paghi». Lei non ha nulla da rimproverarsi? Nemmeno un’omissione di controllo? «Nulla. Le poche informazioni a cui potevo accedere – perché non avevo accesso ai conti – le ho sempre date a Bossi». Come s’immagina la Lega senza di lui? «Bossi resta, farà il presidente, non ha alcuna intenzione di mollare. Certo c’è bisogno di un ricambio generazionale: per fortuna abbiamo tanti giovani in gamba, la futura classe dirigente del partito». C’è posto, tra loro, per il Trota? «Forse non ci siamo capiti. Io parlo di quarantenni con vent’anni di Lega alle spalle, esperienza di amministrazione, equilibrio, maturità: i Tosi, i Cota, gli Zaia. Io stesso sono stato buttato a 37 anni a fare il parlamentare e dopo due anni ero ministro dell’Interno: mi sarei potuto schiantare se non avessi avuto, oltre alla fortuna, la capacità. La Lega deve tornare a essere il partito dove chi ha meriti emerge. Si è aperta una nuova pagina, e i militanti sono impazienti di tornare alla vitalità di un tempo». Veramente alcuni di loro, il giorno delle dimissioni di Bossi, l’hanno contestata. Le hanno dato del Giuda: pensano sia stato lei a dare il via all’inchiesta da ministro dell’Interno. «Avevano i volantini, e questo dimostra che era una protesta preparata ad arte. Pensa che se Bossi non si fosse dimesso l’avrebbero fatta lo stesso? Erano una ventina e li conosco tutti. Non me la prendo con loro, non hanno capito». Capito che cosa? «Che il conflitto tra me e Bossi è stato inventato per consentire l’impunità ad altri, all’interno della Lega. Oggi il velo è caduto: quello è stato il loro canto del cigno». Con Bossi l’amicizia resiste? «Ha avuto alti e bassi – i bassi, di solito, quando qualcun altro si intrometteva come è successo di recente – ma non si è mai interrotta. Oggi lui ha capito che avevo ragione io e torto gli altri, e di questo sono contento. Perché, se avevo qualcosa da dirgli, gliel’ho sempre detto in faccia». Il ricordo più divertente? «Era il 1980, la notte, di nascosto, andavamo a fare le scritte sui muri. Io guidavo la 500 grigio topo di mia madre e lo scaricavo in autostrada vicino a Varese, dove c’è un muraglione lungo lungo, poi giravo da casello a casello per non rimanere lì fermo e attirare l’attenzione. Una notte, al terzo giro, non lo vedo più, mi fermo, scendo. Bossi arriva di corsa, dice: “Via, via, c’è la polizia che mi ha sparato”. Spaventatissimi – io avevo 25 anni – saliamo di corsa, lui si dimentica che nell’auto di mia madre non c’era il sedile di destra, l’aveva tolto perché aveva un negozio di alimentari e le serviva spazio per la merce. Così cade, si rovescia addosso la latta di vernice e inonda la 500. Arrivo a casa alle tre di notte e cerco di pulirla un po’, ma alle sei e mezzo sento mia madre che urla: “Sei di nuovo uscito con quel disgraziato del Bossi!”». So che suonate entrambi. «È l’unica cosa che non abbiamo mai fatto insieme. Perché io ho una band e lui suonicchia la chitarra – in gioventù strimpellava gli Inti Illimani – ma non è all’altezza per suonare con me. In questo, almeno, posso vantare una certificata superiorità nei suoi confronti».