Concita De Gregorio, Vanity Fair 18/4/2012, 18 aprile 2012
Luciano Ligabue ha 52 anni, una maglietta, un paio di jeans e gli stivali, quella faccia da indio che conosce le erbe medicamentose e se gli dici dove ti fa male ti dà in silenzio la ricetta: un verso di una canzone, un bicchiere di vino, un punto da cui guardare il cielo di notte, un sorriso breve
Luciano Ligabue ha 52 anni, una maglietta, un paio di jeans e gli stivali, quella faccia da indio che conosce le erbe medicamentose e se gli dici dove ti fa male ti dà in silenzio la ricetta: un verso di una canzone, un bicchiere di vino, un punto da cui guardare il cielo di notte, un sorriso breve. Cammina per Correggio e saluta i vecchi fermandosi a parlare con loro in dialetto, si vede – si sente – che questo posto è il suo posto, sono tutti qui: le sue famiglie, i suoi figli, il suo lavoro, i suoi morti. «Da qui non mi muovo: ho imparato tanti anni fa la lezione di Tondelli. Stai nel tuo, racconta di quello che hai visto e vissuto, parla di quello che conosci. Ecco, quello che conosco è tutto qui». In questa intervista, cominciata in una soffitta mentre faceva buio e finita a tavola con i ragazzi della band a parlare del prossimo concerto alla Royal Albert Hall di Londra, a maggio, del prossimo disco, in autunno o «quando verrà», si è parlato di musica e di libri, di politica e di calcio, di cinema, di donne e di droghe, di successo e di solitudine, di vita e di morte. Molto, di morte. Di quella del padre, di cui parla in prima persona in Lo vuole vedere?, il più amato dei capitoli del nuovo libro di racconti Il rumore dei baci a vuoto. Di quella dei suoi figli non nati, «un lutto che non trova posto». Di quella, per Aids, dello scrittore Pier Vittorio Tondelli, una notte d’inverno, nella stessa casa dove Ligabue non riusciva a dormire, due piani più sotto. Dell’amore, che è l’unico modo per fregare la morte. Della timidezza, «che io sono proprio timidissimo, sa?». Della lentezza, che serve. Perché «quando Paolo Casarini, che era il mio prof di Lettere a Ragioneria, ci disse: “Ragazzi se qualcuno di voi ha un’ambizione da coltivare questo è il momento”, io sentii che stava proprio parlando con me. Ma poi per trovare la voce della mia voce ci ho messo dieci anni. Se legge i miei libri? Non lo so, devo chiederglielo. Di sicuro ascolta le mie canzoni». Perché scrive libri uno che già fa canzoni? «Per prendere un po’ di vacanza dalla struttura delle parole pensate sulla musica. Le rime, le strofe, la griglia. Adoro le canzoni, sono la riduzione del melodramma, sono scritte per la gente e vanno dove gli pare. Da lì parto e lì torno. Però la scrittura è terapia, consolazione. Persino a me che sono cresciuto nell’epoca del jukebox non mi basta una canzone, qualche volta, per assecondare il piacere di scrivere, per dire quello che c’è». Che cosa metteva nei jukebox da bambino, con la moneta? «Mina, i Beatles e i Rolling Stones, soprattutto Battisti. Tantissimo Battisti. No, non l’ho mai conosciuto. Poi, verso i 13 anni, ho scoperto il rock progressivo. Genesis, Led Zeppelin. Non pensavo che avrei mai cantato, no. Volevo diventare Giuliano Gemma». Voleva fare l’attore? «Andavo al cinema con mio padre due o tre volte a settimana. Cambiava film ogni sera, all’epoca. Erano soprattutto spaghetti western. Mio padre, all’uscita, diceva sempre: “Baggianate”. Clint Eastwood era ambiguo, non lo capivo. Giuliano Gemma era il buono, invece. Volevo diventare così. Ma sono incapace di recitare, ora lo so». Quando ha cominciato a suonare? «A 15 anni, nel ’75. Mio padre gestiva una balera a Rovereto sulla Secchia. La domenica, a pranzo, diceva a me e a mio fratello Marco: “I musicisti sono tutti dei morti di fame”. Poi un giorno mi ha regalato una chitarra. Erano gli anni delle prime radio libere, dei cantautori che suonavano su un giro di tre accordi. Ho cominciato a imitarli, con imbarazzante presunzione. Sembrava facile, ma imitare non porta da nessuna parte se non c’è polpa né sangue, se non trovi la tua voce. La rivelazione, qui a Correggio, l’ho avuta da Tondelli». Vi conoscevate? «Certo, qui ci si conosce tutti. Però non ci frequentavamo, lui aveva cinque anni più di me ed era cresciuto all’oratorio, io in una famiglia comunista. Poi, eravamo due timidi. Avevo vent’anni quando pubblicò Altri libertini. Fu uno shock. L’avevano sequestrato, lo comprai nella cartolibreria qui di fianco e me lo misero in una busta per nasconderlo. Il primo racconto era tostissimo. Un gruppo di tossici, le bestemmie. Vedevo il posto in cui vivevamo come se fosse nuovo. Lì ho capito che il punto di vista di una persona poggiato sulla realtà la illumina, la trasfigura, la spiega, le dà vita. Cose semplici, apparentemente poco significative. Lì ho capito che per dire quello che senti non servono parole a effetto, pose inutili. La vita quotidiana, con la sua lingua, a saperla ascoltare è piena di poesia». Si ricorda di quando Tondelli è morto? «Certo, vivevo allora due piani sotto la casa dei suoi. Era dicembre del ’91, avevo un concerto a Modena quella sera ma mi venne la febbre altissima, era la prima volta che annullavo una data. Sono stato sveglio tutta la notte, in piedi, camminando con una coperta sulle spalle. Due rampe di scale più su, lui stava morendo». Nell’ultimo racconto del libro, Pioggia di stelle, lei parla di una coppia di coniugi anziani innamorati e felici, e di un figlio in qualche modo estraneo a quella felicità. È la storia dei suoi genitori? «Un po’ sì. I miei sono stati insieme tutta la vita con gioia. Persone semplici, vitali, capaci di stare con gli altri. Papà l’ho perso nel 2001. Diceva: dopo i 70 ogni anno è regalato. È morto a 71. Tumore all’intestino. Quattro mesi dalla diagnosi. Io stavo girando un film, Da zero a dieci. Ci siamo parlati più in quei mesi che in tutta la vita. Lui era un Ariete, testosterone puro, reattivo, io Pesci, faceva fatica a capire questo figlio che parlava poco, non capiva nemmeno cosa volesse dire essere timido. Ci siamo visti, in quei mesi. Mia madre, dopo, sembrava che volesse morire anche lei. Poi si è attaccata a mio figlio Lenny, e dopo è venuta Linda». Due figli. Una rockstar come padre. Due madri. Ce la fa, con loro? «Provo, davvero. Lenny non vive con me, Linda sì. È molto diverso. Lenny ora è un adolescente, ha un grandissimo talento musicale, a due anni teneva il tempo dei Nirvana con le bacchette, ha molto più orecchio di me, vuol fare da solo, naturalmente. Linda ha sette anni, è vanitosa, ingenua, molto popolare fra le amiche. Li amo. Ne avrei voluti altri, di figli. Tanti. Ne ho persi tre. Due nel passato, uno pochi anni fa da Barbara, la madre di Linda. Al sesto mese di gravidanza. Un lutto che non trova casa, nessuno lo considera un vero lutto, ti dicono: “Avete già una figlia, cosa vuoi che sia”. Invece quell’assenza è una presenza. Per la madre, credo, perpetua. Io ci ho fatto i conti come so. In Arrivederci, mostro! c’è una canzone, Quando mi vieni a prendere, in cui parla un bambino. Mi disturba ancora ascoltarla, è piena di quel sentimento lì». Che cos’è cambiato, per lei, con il successo? «Il successo ti dà e ti toglie. Quel che ti dà è ovvio: i mezzi per fare le cose, le possibilità. Però c’è una cosa che la gente non vuol sentirsi dire almeno quanto “Non giocare all’Enalotto”. È: “Il successo non è quello che vogliono farvi credere, il successo non porta la felicità”. Ti isola, per esempio. Quando parlo con qualcuno è difficile che ascolti me, ascolta l’idea che si è fatto di me. E io non ho più voglia, ogni volta, di ricominciare da capo. Preferisco stare solo». Sarà stato più facile con le donne. «C’è stata una fase, certo. Poi mi sono stancato. Non ne ho più bisogno. Sto bene così. Ogni tanto sono persino felice». Artifici per procurarsi benessere? Droghe? «No, ho molto rispetto del mio corpo, che ha intelligenza e memoria. Le sensazioni più nitide arrivano da un corpo sano, lo stordimento non serve. Ho visto amici andarsene per le droghe. Stai meglio un momento, peggio tutti i momenti dopo. Ciascuno è libero di fare ciò che vuole, io tengo il corpo pulito. Quel che mi fa piacere è correre, ridere e fare l’amore. Corro un’ora tutti i giorni, e cerco di fare parecchio anche il resto». La politica? Lei è stato consigliere comunale per il Pds, a Correggio. «Indipendente. Mai iscritto. Vengo da un’idea di comunismo applicata a Reggio Emilia. Il comunismo allegro, pratico. Mi ricordo le feste dell’Unità in cui la gente prendeva le ferie per servire e friggere lo gnocco. Ridendo, fidandosi. Stando bene e sentendosi rappresentata. Nella seconda metà degli anni Settanta le feste dell’Unità portavano a Correggio Bob Dylan, Neil Young. Ancora mi domando come sia stato possibile dilapidare un patrimonio così. A Vasco Errani (presidente della Regione Emilia Romagna, ndr) una volta gliel’ho anche chiesto, non mi ricordo la risposta. In consiglio comunale ci sono andato tre volte, mi avevano promesso che avrei potuto fare qualcosa per la musica. Ho capito subito che non potevo fare niente. Mi sono dimesso. Però sono contento di aver provato». Poi ha fatto un video per Beppe Grillo. «Ho aderito a un’iniziativa di legge popolare di assoluto buon senso, quella che chiedeva che non ci fossero inquisiti in Parlamento. La gente la pensa così. Se anche i partiti si mettessero in ascolto, non ci sarebbe bisogno di appelli e raccolte di firme. Di recente ho fatto girare i principi fondamentali della Costituzione. Mi dispiace che tutto si perda. Mi dispiace assistere a questo sfacelo, vorrei per la mia parte poter fare ancora qualcosa». Un altro film? «No, la regia non è il mio mestiere. Radiofreccia raccontava la storia delle radio libere, era molto una cosa mia. Con Da zero a dieci ho capito che fare cinema significa sezionare razionalmente un’emozione per restituirla dopo una costruzione lenta, faticosa, piena di insidie e di incognite che non dipendono più da te. Riesco meglio dal palco, è lì che mi sento libero, a casa. È lì che con i ragazzi della band sento la forza delle cose che si fanno insieme, e che si trasmettono. Campovolo è stato incredibile. Essere insieme. Anche le squadre di calcio vincono davvero quando giocano così, non è questa la lezione del Barcellona?». Qual è la canzone che ama di meno e quella che non può non cantare? «Una vita da mediano è quella che è stata peggio interpretata. L’ho scritta perché mi sentivo colpevole del successo di Buon compleanno Elvis, in qualche modo volevo riportare la mia vita nei binari. Poi ha preso una sua direzione, a volte non la riconosco. Certe notti è una grande compagna, invece. La suonano in curva quando segna l’Inter, la canto a ogni concerto, sento che passano gli anni e cambia con i ragazzi che cambiano. Quella che amo di più, tuttavia, è quella che devo ancora scrivere. La sento, è in circolo, devo solo aspettare. Io sono lento, ho fatto il primo album a 30 anni, il primo figlio a 38. Arriverà. Magari quest’autunno, chi lo sa. Domani ci mettiamo con i ragazzi in sala di registrazione e cominciamo a divertirci un po’, a suonare. Lei si farà strada col tempo che le occorre, e arriverà».