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 2012  aprile 18 Mercoledì calendario

«Prego, il segretario la aspetta». Largo Nazareno, Roma, sede del Pd. Per essere l’ufficio del capo, è sobrio: pochi arredi, pareti spoglie

«Prego, il segretario la aspetta». Largo Nazareno, Roma, sede del Pd. Per essere l’ufficio del capo, è sobrio: pochi arredi, pareti spoglie. Pierluigi Bersani ha l’aria stanca. Alto più di come lo facevo, mi stringe la mano e si lascia andare sulla poltrona. Quando ha accettato di incontrarci, il governo Monti sembrava deciso a non ascoltare le sue obiezioni alla parte di riforma del lavoro che disciplina il licenziamento per motivi economici. Questa, dunque, rischiava di essere un’intervista con un uomo all’angolo: il segretario del Pd che ha rinunciato alle elezioni (probabilmente vittoriose) dopo la fine del governo Berlusconi, aprendo le porte ai tecnici e allo smantellamento dell’articolo 18. Ma poche ore prima di vederci, Bersani ha incassato un successo. Monti e il ministro Fornero gli hanno dato ascolto, introducendo nel testo del decreto, ora all’esame del Parlamento, la possibilità di reintegro nel posto di lavoro quando il licenziamento si basa su motivi economici «manifestamente insussistenti». Bersani, come sta? C’è chi non vorrebbe essere al suo posto, di questi tempi. «Sono difficoltà previste. Lo dissi quando ci fu l’addio di Berlusconi: non saranno rose e fiori, è il battesimo del Pd. Sapevo che ci sarebbe toccata la parte di chi cerca di riparare l’emergenza del Paese, oltretutto in una situazione in cui non si può parlare con il manovratore – non va disturbato, ha troppe curve davanti – e lo si fa con il bigliettaio. Sapevo che poi, in strada, avrebbero fermato me. Appena posso vado a fare la spesa al super, la pesantezza di questo momento la sento». La gente le chiederà conto dell’operato del governo. «Eccome. La settimana scorsa a un comizio mi si avvicinano tre con aria decisa: “Ma noi che lavoriamo nell’edilizia, a 67 anni andiamo su un ponteggio?”. Ho risposto: “Certo che no, ci sono i lavori usuranti, si risolverà». E loro: “E se non si risolve?”. È una cosa che, quando vai a casa, non ti senti molto bene». Sulla riforma del lavoro Monti e Fornero sembravano decisi ad andare per la loro strada, senza compromessi. Ha mai pensato: e ora che cosa faccio? «No, seguo la lezione di Berlinguer: quando non sai che fare, resta fedele ai valori della tua gioventù. Per me un posto di lavoro non si può ridurre a qualcosa da monetizzare e basta, e quindi ritengo importante che in caso di licenziamento per motivi economici ci sia un giudice che decida per l’indennizzo o per il reintegro. E poi non sento tutto sulle mie spalle, ho un partito intorno, e sul simbolo non vorrò mai il mio nome, perché non credo alla personalizzazione della politica. Preferisco gli sport di squadra». Quali praticava, da ragazzo? «Ho tentato, con scarsissimo successo, il pallone. Poi, il mio sport è diventata la politica, un campo dove, invece della palla, ci si scambiano le idee». L’idea di sostenere un governo tecnico, quando molti di voi pensavano che fosse arrivato il turno di governare, quanto è stata combattuta all’interno del Pd? «Abbastanza. Ma se avessimo detto no al governo Monti, non per questo saremmo andati alle elezioni il giorno dopo, Berlusconi non avrebbe accettato. Quindi avrebbe voluto dire fare la fine della Grecia e poi votare. E io non potevo vincere sulle macerie del Paese». Per come si stanno mettendo le cose, potreste non vincere più. «Qualche rischio può esserci: con questo governo il centrodestra si sta mettendo un po’ al riparo dai disastri che ha combinato. Ma non credo che la gente possa dimenticare chi ci ha portato fin qui. E se vogliamo diventare il partito riformista del nuovo secolo, dobbiamo rischiare: un partito che pensa solo ai propri interessi non va lontano». Avesse saputo in anticipo le intenzioni di questo governo, lo avrebbe sostenuto? «Sì. E la nostra base ha compreso. Questa idea di tenere un orecchio a terra sui problemi sociali, ma prendersi anche delle responsabilità, è stata capita». Eppure i sondaggi vi danno in calo. «Non ci risulta. Comunque, ho fatto l’amministratore per anni, ascolto la gente che incontro per strada, o nelle assemblee, quelle dove vado sapendo che mi posso prendere dei fischi». Qual è, finora, la cosa che ha fatto più arrabbiare la base? «Le pensioni. Noi avevamo proposto – ma non siamo stati ascoltati – di lasciare una flessibilità nella fascia dai 62 ai 70 anni, e di parametrare il livello della pensione a seconda di quando uno smetteva di lavorare. Chi andava prima, e perdeva un po’ di pensione, avrebbe potuto compensare con un accordo aziendale. Le pensioni di anzianità rispondevano sia pure malamente anche alla funzione di ammortizzatori sociali, ora si è creato un buco di alcuni anni dove la gente, senza pensione né salario né amortizzatori, come campa? Chiediamo al governo di metterci una pezza, e su questo non scherziamo». Ma i licenziamenti, l’articolo 18, non riguardano ancora più persone? «Sì, infatti vi è stato un consenso largo nel trovare una soluzione. L’idea del licenziamento provoca ansia sociale ma con gli esodati si rischia addirittura l’emergenza sociale». Tornato dalla Cina, Monti ha voluto vedere lei da solo per parlare dell’art. 18. E lei l’ha convinto a far reinserire la clausola del reintegro. Con che stato d’animo si va a un incontro dove ci si gioca tutto? «Con la grinta con cui affrontavo gli esami all’università: “Vediamo se riesci a darmi meno di trenta”». Se Monti non avesse modificato il testo? «Impossibile: era troppo ragionevole quello che io – e non solo io – chiedevo». Perché non l’hanno accontentata prima? «Magari non c’era stato tempo di riflettere bene. Ma io sapevo di avere ragione». Come si trova, a livello personale, con Mario Monti? «Molto bene. È una persona di serie A: con quelli come lui ci si intende». Lei si intende anche con alcuni del centrodestra. «Credo mi percepiscano come autentico: quello che penso dico. E poi mi considero un liberale: la destra italiana non è mai riuscita a esserlo, e ha lasciato spazio a una sinistra più moderna. A parte settori come salute, sicurezza, istruzione, dove lo Stato deve garantire l’uguaglianza del trattamento, il resto è mercato da regolare bene». Come giudicherebbe le sue liberalizzazioni da ministro dell’Industria, rispetto a quelle di Monti? «Nel commercio si possono liberalizzare gli orari, ma togliere le licenze è stata un’altra cosa. Per Monti su alcuni punti il terreno era pronto. Su telecomunicazioni, energia elettrica, commercio, ferrovie si era già intervenuti. Io sarei andato avanti ancora più duro se il governo non si fosse interrotto. Poi è arrivato Berlusconi, il liberale, e si è fermato tutto». Se qualcuno dei membri dell’attuale governo alla fine pensasse di candidarsi, chi vorrebbe nelle vostre fila? «Arrivati a un certo punto, potrebbero fare coming out sulla loro fede politica: da quel giorno lì ne discuto. Ma, se il governo dovessi farlo io, sceglierei oltre ai tecnici anche persone che hanno esperienza sul terreno». Una frecciata contro il ministro Fornero? «No. Essere tecnici puri ha una validità. Ma c’è bisogno di un mix: amministrare, come ho imparato da amministratore e da ministro, è un’esperienza preziosa». C’è chi l’ha fatta: l’anno scorso, il ministro Profumo sembrava dovesse essere il vostro candidato come sindaco a Torino. «Quale dei due Profumi? Sa che quando Monti voleva chiamarlo il centralino di Palazzo Chigi gli passò il banchiere? Chiesero a me che Profumo fosse, risposi con una battuta: “Chanel”». Lei fa battute, ma tira aria di antipolitica. «Già la caduta del Muro di Berlino, nell’89, aveva delegittimato i due partiti – Dc e Pci – che fino a quel momento erano stati il riferimento. Poi è arrivata Tangentopoli e ha precipitato la politica nel discredito. Si è pensato di correre ai ripari con incursioni populiste, dimenticando l’importanza dei partiti, e la scimmiottatura del personalismo si è diffusa persino in casa nostra». Si riferisce a Matteo Renzi? «Non è il solo». Difende i partiti, guardi però lo scandalo della Lega, e prima della Margherita, sulla gestione dei contributi pubblici. «Non ci sto a essere messo nel mucchio: da quando il Pd è nato, si fa certificare i bilanci da una società di revisione, la stessa che certifica la Banca d’Italia. Certo la politica ha fatto anche errori». Avere i bilanci certificati non esclude le ruberie. «Almeno impedisci che qualcuno scriva ciò che vuole e si compri case di nascosto. Per primi abbiamo proposto una legge che impone ai partiti una certa trasparenza interna, il rispetto dei codici etici, pena la non candidabilità, o la mancata riscossione dei finanziamenti pubblici». Parla di codici etici, ma Veltroni ha portato a Montecitorio uno come Massimo Calearo che ha fatto infuriare il Paese col suo assenteismo e il suo mutuo da 12 mila euro al mese pagato con lo stipendio da parlamentare. Non pensa che il Pd dovrebbe chiedere scusa ai suoi elettori? «Abbiamo già risposto: o si fa una riforma elettorale che consenta ai cittadini di scegliere i parlamentari o noi attiviamo procedure di consultazione tra i nostri elettori per le candidature». Che effetto le ha fatto il terremoto che ha travolto Umberto Bossi? Se lo aspettava? «Ho denunciato sempre con forza, e davanti agli elettori leghisti, il drammatico allontanamento della Lega dalle sue motivazioni originarie. Se ricominceranno da lì, potranno esistere ancora». Le sue famose metafore imitate da Crozza – «Non stiamo mica qui a pettinar le bambole» – sanno di marketing. «È un linguaggio che ho studiato. Mica parlavo così, quando avevo 25 anni». Come parlava? «Filosofese. Ma a forza di scarpinare tra i paesi di montagna – vengo da Bettola – ho capito che uno deve stare al di sotto delle sue solennità. Le metafore sono un modo democratico per tradurre in modo accessibile un concetto complesso». È vero che molte se le inventa? «Sì, ma ormai mi confondo. Poi ce ne sono tante che in Tv non posso dire. Quelle in dialetto di mia nonna, bracciante e sarta: per spiegare che di una cosa ce n’è tanta, diceva: “Ce n’è abbastanza da fare l’orlo al Po”. E quelle un po’ hard». Metafore hard? Me ne dica una. «Non posso. Ne avrei una per descrivere le sette ore e mezzo di incontro con Monti sull’articolo 18, ma non si può». Era spiritoso anche da giovane? «Più di quanto sembrassi: appena mi parlavi veniva fuori la mia natura da paese». Piaceva alle ragazze? «Grossi problemi non ne ricordo. Piacevo, ma senza esagerare». Ancora oggi piace. «Mi fa molto molto piacere. Una volta Sgarbi ha detto: “Bersani secondo me non si ricorda neanche di essere pelato”. Aveva proprio ragione». Quando torna a Bettola, com’è accolto? «Sono ancora il figlio di Bersani, il meccanico, un’autorità, altro che ministro». Suo padre l’ha vista al governo? «Sì, è morto dieci anni fa. Ma non si dava certo delle arie. Siamo gente sobria noi». Da figlio di meccanico a ministro e segretario di partito: lei è anche ambizioso. «No, è la politica che è sempre stata una passionaccia. Ho fatto tutta la gavetta. Ma non avrei mai pensato di arrivare dove sono arrivato». E dove pensava di arrivare? «Non ci pensavo. A 19 anni, quando mi sono iscritto a Filosofia, non avevo in testa niente. Ho scelto liberamente perché ero il secondogenito, tutte le aspettative erano sul primo, che ha fatto il medico». Invece ricco e famoso è diventato lei. «Ricco non direi: con le regole che avevamo nel Pci, il mio stipendio era equiparato a quello dei metalmeccanici. Poi le cose sono cambiate, ho avuto stipendi più che buoni, ma tra mantenimento a Roma e contributi al partito ce n’era giusto per fare le figlie e mantenerle più che bene». Non si è comprato neanche una casa? «No, la casa di famiglia è di mio suocero. Di mio ho solo l’appartamentino a Bettola dove vivevano i miei». E sua moglie fa la farmacista. «Dipendente, ancora oggi». Quando vi siete conosciuti? «Avevo 17 anni, è del mio paese». State insieme da più di quaranta. «Ha avuto tanta pazienza. Ci vediamo una volta la settimana». Le pesa questo nomadismo? «Ci sono abituato, ma è la cosa più pesante. Quando vedo i colleghi che all’una vanno a casa a mangiare in famiglia, mi girano un attimo». La sua famiglia non l’ha mai seguita: che cosa fa la sera a Roma? «Se non lavoro, cerco di respirare tra me e me: la solitudine, facendo questo mestiere, è ciò che ti manca di più». Mangia al ristorante? «Se sono solo mi faccio da mangiare io, mi sono sempre cucinato cose. Mica elaborate eh, da soli non ne vale la pena». Quando ha preoccupazioni legate al lavoro, con chi si sfoga? «Se sono in famiglia, di queste cose non parlo proprio. E di carattere non sono ansioso. Ho sempre dormito la notte». E che sogni fa? «Se li faccio, non me li ricordo».