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 2012  aprile 12 Giovedì calendario

“Un oro può durare 100 anni” - Evelyn Furtsch Oyeda è pronta per la sua diciannovesima Olimpiade

“Un oro può durare 100 anni” - Evelyn Furtsch Oyeda è pronta per la sua diciannovesima Olimpiade. La prima se la ricorda bene perché lei c’era e ha vinto un oro: 1932, Los Angeles, vittoria nella 4x100 Usa: «È passata una vita, ma quel momento è rimasto nel mio cuore, quel podio sbilenco: non potevamo neanche salirci tutte, due sono rimaste giù, tanto per dirvi quanto poco enfatico e solenne fosse il protocollo, ora è tutta un’altra storia». È la centenaria dei Giochi, il 17 aprile compie 98 anni e la megalomane edizione di Londra le sembra un circo anche solo a sentire quel che dice la tv: «Ogni tanto vedo questi reportage che raccontano: lotteria per i biglietti e rido. Nel 1932 noi atleti facevamo da buttadentro per mettere insieme il pubblico, i biglietti costavano pochissimo e si trovavano per strada, io ho potuto portare solo mia madre perché non c’erano i soldi per viaggiare ma avrei potuto avere anche tutta la classe del liceo se lo avessi voluto. Penso a questi poveretti che devono scegliere la persona da far entrare perché più di una al seguito non è concessa». Furtsch correva durante la Grande Depressione, la famiglia fece una colletta porta a porta per pagarle le spese e al ritorno nessuno sapeva dove fosse stata: «L’America ha scoperto il mio nome nel 1984 quando i Giochi sono tornati a Los Angeles ed è partito il revival, da allora ricevo gli auguri dello sport Usa a Natale prima non sapevano che esistessi». Evelyn vive in California con una nipote e 4 gatti e ora che si avvicina il suo compleanno in tanti la cercano per sentirsi raccontare come sono cambiati i Giochi: «Proprio come è cambiato il mondo ed è giusto così, non avrebbe avuto senso tenere lo sport a livello amatoriale. Io non guadagnavo nulla ma mi divertivo un sacco, a guardare le facce forse più di quelli che gareggiano oggi. E non è che potessimo fare molto, era come stare in collegio: donne e uomini separati, divise rigorose. Il bello era vedere gente di altri Paesi. Ecco, questo è rimasto identico: si incrociano altre culture, altre abitudini, nel giro di due settimane scopri un pezzo di ogni Nazione». Per la cerimonia nessun concerto, e una sfilata «quasi militare». Pochi fronzoli, giusto il discorso del vice presidente americano, «la scenografia non esisteva, alla fine hanno fatto volare delle colombe e ce ne siamo andati via, mentre per la chiusura il solo fatto di essere tutti insieme nello stadio era elettrizzante». Ha partecipato a quell’unica edizione e si è portata a casa un oro che ha dovuto spiegare: «Che ne sapevano gli amici di cosa voleva dire la medaglia? Negli anni ha acquistato valore, chiunque scopre che ho un oro olimpico in casa resta ammirato. La vittoria è durata davvero cento anni ed è un’altra cosa che non è cambiata. Oggi come ieri quel successo ti cambia la vita e ancora di più: fa parte di quello che sei». Lei si è fermata lì, nel 1936 era già moglie e mamma: «Nessuno ha provato a dirmi, continua o aspetta, stava a me. Fa ridere dirlo adesso, ma nel 1932 chiedermi di pensare a 4 anni dopo era impossibile. In più avevo faticato e risparmiato per trasferirmi da Tustin, Orange County, a Los Angeles. Berlino non sapevo neppure dove fosse. Non rimpiango nulla». Quella staffetta fece anche il record del mondo ma glielo dissero dopo, con calma. Era tutto sperimentale, al posto dei blocchi di partenza si scavava una buca in pista: «Ho rubato un attrezzo da giardino ai genitori, il fai da te era totale, oggi ogni dettaglio è calcolato ma non è successo da un anno all’altro, i Giochi si sono adeguati. Non mi stupisce vedere quanti soldi, tecnologia e persone ci sono. Mi sorprende di più vedere come sono cambiati i rapporti tra gli atleti. Io e le mie compagne di staffetta ci siamo tenute in contatto fino a che sono morte. Adesso nella stessa squadra neanche si conoscono più».