Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 12 Giovedì calendario

Il Politecnico cancella l’italiano A Milano l’inglese unica lingua - Il processo di anglificazione dell’università italiana ha fatto il suo salto di qualità al Politecnico di Milano

Il Politecnico cancella l’italiano A Milano l’inglese unica lingua - Il processo di anglificazione dell’università italiana ha fatto il suo salto di qualità al Politecnico di Milano. Qui, dal 2014, «l’intera offerta formativa magistrale», vale a dire biennio finale e dottorati, saranno «erogati» in lingua inglese. Detto - ancora per poco - in italiano, significa che dopo il triennio di base non ci sarà più il «doppio binario» dei corsi nelle due lingue ma solo nell’inglese. Docenti e studenti hanno due anni di tempo per prepararsi, poi chi si iscriverà all’ateneo milanese saprà a che cosa va incontro. In realtà chi studia al Politecnico sa che si tratta solo dell’accelerata finale di un processo di internazionalizzazione iniziato da qualche anno e fortemente voluto dal rettore Giovanni Azzone come «contributo alla crescita del Paese». «L’Italia può crescere solo se attrae intelligenze, visto che non può contare sulle materie prime», sostiene il rettore, che quindi si pone come obiettivo quello di «formare capitale umano di qualità in un contesto internazionale per rispondere sia alle esigenze delle imprese sia a quelle degli studenti che vogliono essere “spendibili” sul mercato del lavoro mondiale». Il motivo di questa scelta radicale, dunque, sarebbe duplice: attrarre studenti stranieri di qualità interessati al nostro Paese ma che oggi non verrebbero per via della barriera linguistica; e attrezzare gli studenti italiani - soprattutto quelli che non avrebbero la possibilità di studiare all’estero - a lavorare (magari anche per aziende italiane) nel mondo. A sentire il rettore, il riscontro da parte degli studenti, stranieri e italiani, è stato positivo. Quanto ai professori, il Senato accademico si sarebbe espresso per il sì a larghissima maggioranza. Le voci contrarie non mancano, ma questi due anni di transizione serviranno a tutti per prepararsi al transito. «Per i professori abbiamo attivato un piano formativo e chi ritiene di dover migliorare potrà farlo», spiega il rettore Azzone, «i nostri docenti sono abituati al contesto internazionale ma anche per me, come professore, so che sarà più faticoso insegnare in inglese che in italiano». Quanto agli studenti, il Politecnico studierà convenzioni vantaggiose perché i ragazzi possano approfondire la lingua durante il triennio. L’investimento sarà importante: 3,2 milioni di euro per attrarre un corpo docente internazionale (15 professori, 30-35 post-doc, 120 visiting professor). Del resto, l’internazionalizzazione già avviata ha permesso al Politecnico di attrarre più studenti stranieri: dall’1,9% del 2004 sul totale degli iscritti, al 17,8 del 2011. Questo sprint finale, però, ha spiazzato e sconcertato non poco molta parte del mondo accademico, e non solo quello dei cultori della «lingua di Dante»; anche se questi, ovviamente, sono i più preoccupati. A fine mese l’Accademia della Crusca terrà una tavola rotonda sul quesito «Quali lingue per l’insegnamento universitario?» a cui parteciperanno intellettuali di estrazione non solo umanistica ma anche scientifica e giuridica. Una delle obiezioni più forti all’idea stessa dell’operazione è infatti che il passaggio totale da una lingua all’altra in ambito universitario si trasformi in sostanza in un «trapasso» per la lingua madre (soprattutto nell’ambito del sapere tecnico-scientifico), che avrebbe conseguenze negative anche nel processo della produzione del pensiero e della ricerca. Il linguista Tullio De Mauro, invece, ha contestato l’operazione sia per il fatto che coinvolge «un’intera facoltà», sia perché tutto questo avviene non in un’università privata, ma in quella pubblica. E, in cauda venenum: «Non aiuta a migliorare la conoscenza della lingua madre; e questo ha effetti negativi sull’intelligenza». SARA RICOTTA VOZA *** UN PASSO IMPORTANTE PER IL PAESE - Gli ingegneri italiani sono sempre stati un gran vanto per il nostro Paese, una tradizione che ha trainato la rinascita industriale del dopoguerra e che ha dato una forte identità a molte nostre aziende, marchi e prodotti. Una tradizione spesso sbandierata con orgoglio per contraddire le teorie più pessimiste sul potenziale del nostro Paese. Confesso di averlo fatto anch’io quando vivevo negli Stati Uniti. Ricordo una discussione con alcuni accademici e imprenditori americani e italiani «emigranti», il tema era il declino della formazione universitaria italiana, e come controargomento portai ad esempio le nostre facoltà d’ingegneria e i Politecnici, che da sempre sfornano ingegneri di primissima qualità. Mi sentii ribattere che probabilmente erano molto bravi, ma non parlavano una parola d’inglese. Questo accadeva poco meno di 15 fa. Molte cose sono accadute da allora. Il mondo ha attraversato trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali che all’epoca sarebbero state impensabili. Anche gli ingegneri italiani, ormai, parlano l’inglese. L’iniziativa del Politecnico di Milano sancisce il completamento di un percorso di «ammodernamento» che probabilmente sarà seguito presto da altre facoltà. Un cambiamento che non solo darà un bel contributo a tutti i nostri ingegneri che vogliano misurarsi con mercati e opportunità a livello internazionale, ma che renderà l’Italia un Paese più attraente per tutti gli studenti stranieri che vogliano approfittare della eccellente qualità della formazione ingegneristica del nostro Paese. Tutto questo agevolerà quel processo di scambio culturale e di apertura internazionale fondamentale per l’innovazione e la competitività di un paese. C’è solo un piccolo, tenue rammarico. Imparare a conversare in una nuova lingua non cancella mai la capacità di conversare nella lingua madre. Ma quando si imparano concetti tecnici, specifici, che sono totalmente nuovi, li si imparano nella lingua con cui vengono presentati per la prima volta. E non viene automatico tradurli nella lingua madre come può accadere con parole consuete come buongiorno o buonasera. Anzi. Chiunque abbia esperienze di studio e specializzazione all’estero sa quanto tempo e fatica richieda «ritradurre» in italiano termini ed espressioni apprese per la prima volta in una lingua straniera. Questo significa che la strada del cambio linguistico per le nuove generazione di ingegneri italiani potrebbe essere senza ritorno. Non sarà banale per ragazzi formatisi in lingua inglese tornare a progettare in italiano. Non è un dramma, ed è più lungimirante una scelta di questo genere di quella fatta, per esempio, da quelle università catalane che impongono esami in una lingua che non parla più nessuno. Ma è comunque un piccolo pezzo della nostra tradizione che ci lasceremo alle spalle. E ogni grande tradizione deve sapersi adattare e cambiare pelle se vuole continuare a vivere nella realtà del suo tempo e non solo nei musei e nei libri di storia. IRENE TINAGLI *** PERCHÉ SÌ “E’ un modo per unire” [S.R.V.] WRettore Azzone, la sua proposta non piace a tutti; non era meglio mantenere «il doppio binario», chi vuole in italiano e chi vuole in inglese? «No, perché penalizzerebbe sia gli stranieri sia gli italiani. Gli stranieri perché si ritroverebbero in classi di soli stranieri; gli italiani perché si verificherebbe una segmentazione tra i brillanti che vanno nelle classi internazionali e quelli meno agiati che finirebbero per formare delle classi ghetto». Altra obiezione che le fanno: non è una strada che si addice più a un’università privata che a una pubblica? «Proprio perché siamo un’università pubblica dobbiamo fornire a tutti la possibilità di accedere a professioni interessanti in un contesto internazionale; dobbiamo guardare agli studenti e formarli non per il mondo di vent’anni fa ma per quello di oggi. Anzi, per quello che sarà fra vent’anni. Non si tratta infatti di far loro imparare l’inglese ma di abituarli a lavorare con persone di culture diverse». Il rilievo più polemico è che nel lungo periodo questo avrà conseguenze sulla produzione intellettuale. Verosimile? «Il pensiero, per essere interessante, deve poter essere trasmesso. Se ciò che penso non riesce a uscire dai confini nazionali perché nessuno lo capisce qualcosa non va nello strumento di comunicazione. Però io non sono un linguista ma un semplice ingegnere». *** PERCHÉ NO “Saremo tutti più poveri” [S.R.V.] TMaria Luisa Villa è docente alla Scuola di Dottorato in Medicina Molecolare dell’Università di Milano e sarà all’Accademia della Crusca a chiedere per l’italiano una sorta di «quota rosa» almeno del 20% nei corsi «anglificati». Professoressa, che cosa la preoccupa di più? «Che l’italiano scientifico diverrà obsoleto se tutta la didattica verrà svolta in inglese. Le lingue sono strumenti vivi ed evolvono; bastano un paio di generazioni per trasformare una lingua in un arcaico dialetto». Ma anche il suo campo, la medicina, è ampiamente “anglificato”. Ha visto svantaggi? «”No problem” per l’inglese come lingua della comunicazione e della pubblicazione di risultati. Diverso è per il momento dell’apprendimento, che richiede sforzo mentale maggiore. Quando studio metto in moto meccanismi che esigono elaborazioni mentali complesse. Ci vuole immaginazione, ci vuole tutta la cultura che uno possiede. Una lingua povera è una mente povera, e una lingua seconda è sempre più povera». Lei prefigura anche ricadute “civili”, come? «C’è un’esigenza di “pubblica comprensione della scienza”che serve anche per votare su questioni di ambiente e biologia. E come sarà possibile comunicare con un italiano decurtato del suo lessico scientifico? Se c’è un problema di lingua c’è un problema di democrazia».