Il Sole 24 Ore 12/4/2012, 12 aprile 2012
PER I PIRATI DEL COPYRIGHT UN BOTTINO DA 2 MILIARDI
La materia è di quelle che scaldano gli animi e anche gli animi, a volte, fanno a cazzotti. Il diritto d’autore sbaraglia qualsiasi tentativo di ecumenismo sebbene in campo ci siano princìpi d’alto lignaggio come la libertà della rete ma anche la tutela dei contenuti, che hanno costi di produzione non trascurabili. Un tema vecchio come la riproducibilità tecnica del digitale, che ha reso liquida l’industria culturale e decostruito l’intrattenimento, impacchettandolo a mo’ di messaggio in cerca di contenitore.
Fatto sta che solo in Italia, secondo un’elaborazione del Sole 24 Ore su dati di Tera Consultants, nel 2012 i mancati ricavi derivanti dall’elusione del copyright (musica, cinema, televisione e software) potrebbero ammontare a oltre 2 miliardi di euro – erano 1,4 miliardi due anni fa – con la conseguente perdita di 25mila posti di lavoro. Per Ifpi, la federazione internazionale dei discografici, a gennaio il 26% degli italiani in rete ha utilizzato almeno una volta una piattaforma illegale. Con un calo drastico del peer-to-peer (-61%), lo scambio di file con programmi con eMule e un boom (+112%) dello stream ripping, che permette di "rippare", cioè di salvare e trasformare in file soprattutto contenuti audio. L’esempio classico è quello dei video musicali di Youtube, magari postati dalle stesse case discografiche (quindi con una qualità elevata) che hanno iniziato da un paio d’anni anche in Italia, grazie all’accordo con la Siae, a monetizzare le visualizzazione attraverso l’inserimento di spot nei filmati. Youtube, inoltre, proprio in queste ore sta varando un servizio di pay per view aperto agli editori.
In Italia, però, il copyright è al centro di un dibattito che è anche normativo. L’attuale consiglio dell’Agcom presieduto da Corrado Calabrò, in scadenza il prossimo 15 maggio, sta lavorando per approvare in extremis un nuovo quadro regolamentare che ha già previsto tre audizioni parlamentari (l’ultima il 21 marzo) e due consultazioni pubbliche. Al centro del contendere ci sono, tra le altre cose, i nuovi poteri che l’Autorità per le comunicazioni potrebbe assumere in materia di diritto d’autore. Nello specifico, la possibilità di procedere per via amministrativa alla rimozione selettiva dei contenuti considerati in violazione del copyright, «un processo di adeguamento della disciplina del diritto d’autore alle nuove tecnologie (...) difficile e sfaccettato, ma necessario», come ha spiegato Calabrò.
Fino a oggi l’interdizione di un sito è stata materia della magistratura. Con il nuovo impianto l’Agcom potrebbe invece concorrere a questo genere di attività. «Ma attenzione ai travisamenti – ha sottolineato il presidente dell’Authority – perché lo schema di regolamento non richiede ai provider internet alcuna verifica preventiva, nessun filtraggio ma una volta accertata a seguito di un procedimento una violazione delle norme sul copyright a essi può essere chiesto di non trasportare più quei contenuti».
A livello internazionale un grosso colpo alla pirateria è stato dato dall’Fbi lo scorso 19 gennaio con la chiusura del sito Megaupload.com, un cyberlocker, ovvero un fornitore di spazio dati per privati. Sui circa 30 petabyte a disposizione degli utenti (un petabyte equivale a un milione di giga) potevano essere quindi caricati, conservati e scambiati file privati, in pratica tutti coperti dalla legge sulla proprietà intellettuale. Per un danno stimato, secondo il Dipartimento di giustizia americano che ha collaborato al blitz, pari a 500 milioni di dollari.
Il punto è che l’attività di Megaupload non era no-profit perché la piattaforma gestita da Kim Dotcom – alias Kim Schmitz, un cracker già condannato per insider trading – ha guadagnato grazie ai banner pubblicitari 175 milioni di dollari a fronte di 180 milioni di utenti registrati, 2mila server forniti da tre diversi Isp e 50 milioni di visite giornaliere che ne facevano il 13esimo sito più frequentato di internet a livello mondiale. D. Le. • «NOI GIGANTI DEL WEB NON SIAMO PARASSITI» - «È demagogico sostenere che, per un’azienda, l’unico modo di portare valore a un territorio sia attraverso le tasse». Carlo D’Asaro Biondo, vicepresident di Google e country manager ad interim per l’Italia, passa al contrattacco e risponde alle accuse che vengono rivolte a Mountain View dai suoi "nemici" storici, broadcaster televisivi e operatori telefonici in primis. Partendo dalla scelta di non investire direttamente nel nostro Paese e di preferire regimi fiscali meno oppressivi, come l’Irlanda. Ma uscendo anche allo scoperto con aziende come Mediaset e Sky, che sostengono di vedere i loro contenuti scippati da piattaforme come Youtube a fronte di investimenti annui in nuovi contenuti, solo in Italia, pari a oltre un miliardo di euro. Mentre si aprono fronti inediti con gli editori, con il lancio di un nuovo sfogliatore digitale che vorrebbe fare concorrenza a Flipboard e ribattezzato Google Currents.
L’Agcom dovrebbe varare entro la fine del suo mandato una norma sul copyright che, almeno nella sua formulazione iniziale, potrebbe attribuirle il potere "amministrativo" di oscurare i siti pirata. Una facoltà che, fino a oggi, è stata esclusiva della magistratura. Cosa ne pensa?
Quando parliamo di lotta alla pirateria prima di decidere chi oscura dovremmo fare chiarezza su cosa è lecito oscurare. Cioè su cosa vìola effettivamente il diritto d’autore. Su questo punto vedo che ci sono opinioni diverse. È chiaro che se parliamo di pedopornografia o di qualsiasi altra forma di violenza è tutto semplice, ma quando c’è di mezzo il diritto d’autore la materia si complica. Qualsiasi norma che verrà approvata in relazione a internet dovrà tener conto degli interessi della società e non dell’industria.
Ci sono norme che un’azienda come Google teme?
Non credo facciamo bene al mercato regolamentazioni favorevoli al mantenimento dello status quo dei grandi gruppi. Nessuno di noi ha la certezza assoluta che il suo modello di business funzionerà a vita. Google è costretta ogni giorno a innovare, il 50% dei nostri addetti sono ingegneri che pensano al futuro, investiamo ogni anno un terzo del fatturato in ricerca e sviluppo. Molto di più degli operatori di telecomunicazioni o di aziende di altri settori. Il domani dobbiamo meritarcelo.
Ce l’ha con le telco? Anche loro vi vedono più come "nemici" che come alleati, perché sostengono gli intasiate i network senza investirci.
Non ce l’ho con nessuno e del resto molta gente si dichiara nostra nemica ma poi lavoriamo bene insieme. Google fornisce diverse cose alle telco a partire dalla motivazione che spinge gli utenti ad acquistare i loro servizi. Perché senza Youtube, Google o altri i servizi di banda larga si venderebbero molto più difficilmente. Poi forniamo ai gestori telefonici Android, la piattaforma per la telefonia mobile aperta e gratuita più diffusa. E ancora, lo ripeto, noi investiamo più di loro in infrastrutture. Non esistono solo i "tubi", ma anche i computer, i server, lo storage... e non dimentichiamoci che i network rendono e non è vero il contrario. Aziende come Telecom Italia si trovano con un grosso debito per colpa di operazioni sul capitale fatte anni fa. Non confondiamo quindi problemi economici con quelli finanziari.
Google è uno dei motori dell’innovazione nel settore tecnologico, ma in molti vi accusano di violare i contenuti altrui, di essere dei "parassiti". Cosa risponde?
Nessun parassitismo. Google ha un atteggiamento molto responsabile nei confronti del diritto d’autore, siamo coscienti che la nostra dimensione aziendale ci obbliga a un comportamento fortemente protettivo nei confronti del copyright e siamo convinti che senza protezione dei contenuti si danneggi la creazione. Però è necessario tutelare la libertà di espressione dei soggetti più piccoli.
Mi permetta: è curioso che la tutela dei piccoli sia delegata a un’azienda che capitalizza oltre 200 miliardi di dollari in Borsa e che, in alcuni settori strategici, ha una posizione di monopolio non trascurabile.
Internet è un grande strumento di democratizzazione e piattaforme come la nostra consentono ai piccoli di gareggiare con i grandi. Youtube, per esempio, permette a molti artisti sconosciuti di emergere e di farsi conoscere a una platea incredibilmente vasta.
Aziende come Mediaset e Sky sono molto dure con voi. Dicono che vi appropriate dei loro contenuti e che generate ricavi attraverso le inserzioni pubblicitarie.
Google negli ultimi anni ha fatto un gran lavoro in merito. Abbiamo investito oltre 30 milioni di dollari per creare Content Id, uno strumento che consente a chi lo desidera di eliminare dalle nostre piattaforme i contenuti che si vogliano proteggere. Vorrei inoltre ricordare che ridistribuiamo il 70% dei ricavi pubblicitari ai produttori di contenuti.
Eppure vi viene contestato che Content Id funzioni solo su segnalazione, infatti sono i produttori che vi devono dire cosa togliere. Loro ritengono che quest’onere spetti a voi.
È una questione di buon senso. Come potremmo agire se non dietro segnalazione, con tutti i video che vengono caricati ogni secondo su Youtube?
Con il porno ci riuscite.
Anche qui, agiamo dietro segnalazione e comunque in questo caso è più semplice perché c’è un software che riconosce l’incarnato umano, il colore della pelle, e quindi fa scattare tutta una serie di alert. Se Mediaset compra un film da Time Warner come facciamo a saperlo? Che il proprietario dei contenuti si rifiuti di dire che il contenuto è suo mi sembra strano.
In molti rimarcano il fatto che Google non investa in Italia e in più che non paghi le tasse nel nostro Paese.
È demagogico sostenere che l’unico valore che un’impresa porta sia attravero le tasse. Pagare le tasse non basta.
Però sarebbe già un discreto punto di partenza.
Ovvio, ma quello che voglio dire è che una multinazionale come Google può portare tanto valore anche indirettamente. In un mondo globalizzato una multinazionale applica le leggi che trova e se ci sono Paesi che hanno regimi fiscali pensati in un’era antecedente alla globalizzazione sarebbe meglio rivedere queste tassazioni. Pensi agli investimenti che facciamo in cultura, a un’iniziativa come Art Project che ha digitalizzato 32mila opere d’arte nel mondo. Daniele Lepido