Sebastiano Canetta e Ernesto Milanesi, il manifesto 12/04/2012, 12 aprile 2012
I LUMBARD OCCUPARONO IL NORD EST E TUTTO FINI’
Da professore in pensione, sfoglia il diario dei ricordi. Achille Tramarin, 65 anni, è uno dei veri padri fondatori della Liga veneta. Divide le giornate fra la famiglia, la Caritas diocesana e il circolo del Pd di Altichiero. Ma non si sottrae, davanti a una birretta, a un «ripasso» di politica. Anche a beneficio di chi non era ancora nato il 9 dicembre 1979, quando alle terme di Recoaro si celebrò il congresso fondativo del primo partito autonomista del Nord.
«Bossi? No, lui è tutt’altra storia. E non mi ha mai dato fiducia. L’ho conosciuto all’inizio del 1984 perché voleva mettere pace fra me e Franco Rocchetta. Si presentò come l’uomo votato a moralizzare i partiti. Però sembrava un capo improvvisato di una lista civica. La Liga veneta lavorava per riscoprire e affermare l’identità del nostro popolo, in termini etnici, linguistici, storici, culturali, perfino religiosi. Bossi mi interruppe: non gli importava nulla di questi discorsi...», racconta Tramarin con la sua proverbiale mitezza.
Nel frattempo voi venetisti doc, in un lustro, eravate già riusciti ad approdare in parlamento...
Dopo il congresso di Recoaro, il 16 gennaio 1980 fu depositato simbolo e quant’altro dal notaio padovano Giovanni Battista Todeschini. Lo statuto della Liga l’avevo scritto di mio pugno. Per poter partecipare subito alle regionali raccogliemmo, una per una, le firme dei «sostenitori». Ci si affidava ai volantini lasciati in giro, al tamtam sotterraneo, ai contatti con l’Union Valdotaine. Alle politiche 1983 ci presentammo con loro: un deputato e un senatore. Tanto per non dimenticare: all’epoca Bossi era candidato a Varese per il Melone (la lista di Trieste del sindaco Manlio Cecovini) e prese 157 preferenze.
Eletto insieme a Graziano Girardi, l’onorevole Tramarin in parlamento prende la parola in veneto. Una provocazione? Un gesto simbolico?
Il discorso è agli atti a Montecitorio. A me sembrava naturale, come rappresentante del popolo veneto. Certo che fu un bel terremoto nell’aula abituata allo stile felpato dei deputati Dc, Psi, Pci.
Ma com’era cominciata l’avventura della Liga veneta?
Nell’inverno tra il 1978 e il 1979 al circolo Bertrand Russell di Alberto e Michele Gardin. Eravamo un gruppetto di giovani, tutti senza una lira, solo con una grande passione. Rosaria Stellin, presidente della Società Filologica Veneta dove bazzicava anche Rocchetta sempre un po’ carbonaro; Maurizio Calligaro, che poi è passato ai Verdi.
Fin da subito, serenissimi e federalisti?
Sì. Il federalismo fiscale era già uno degli obiettivi politici. Insieme alla «valorizzazione della civiltà, della cultura e della storia dei Veneti». Con un esplicito riferimento alla Repubblica di Venezia, ma anche nel rispetto degli altri popoli. Tutto nello statuto originario della Liga.
Un’attività di proselitismo senza troppi complimenti...
Già allora si parlava di Veneto regione autonoma come il Friuli o il Trentino. Interpretavamo la protesta contro lo Stato centralista che spremeva come un limone la nostra civiltà produttiva. Slogan inequivocabili: «Roma ladrona» e «il lavoro ai veneti». C’era la difesa dell’identità storica e perfino linguistica, ma c’era anche chi voleva solo cacciare i teroni....
Sembrava quasi folklore: nessuno si preoccupava delle vostre idee. Giusto?
Facevamo le riunioni nelle case. Al massimo potevamo interessare al professor Manlio Cortelazzo dell’Istituto di Glottologia e Fonetica dell’Università: mandò un suo assistente alla seconda riunione pubblica, a Feltre nella primavera 1980; tuttavia non volle mai essere coinvolto nel movimento. Allora scrivevamo ancora i volantini a mano, nelle serate a pane e salame. Roba tipo «Il massone Garibaldi non amava i veneti». Poi trovammo il tipografo disposto a stampare in fretta e a pochi soldi. E cominciò un po’ di vera propaganda.
Dove si «nascondevano» i vostri elettori?
Nel 1983 dalle urne del Veneto ne uscirono 125.347 pari al 4,3%. Fondamentalmente, democristiani esasperati. De Mita catapultò nel collegio senatoriale «blindato» di Cittadella il professor Nicolò Lipari alla faccia della rappresentanza territoriale. Così la Liga veneta mise radici lungo la fascia pedemontana, la stessa che ancora oggi è lo «zoccolo duro». Comuni in cui di colpo eravamo diventati il secondo partito dopo la Dc. Ma la Liga conquistò consensi anche nei piccoli e medi centri industriali e artigianali: era percepita come l’alternativa al pentapartito, ma anche alla sinistra storica.
Quando e come finì la «vera» Liga veneta?
Con lo scontro interno che diventò guerra a colpi di carte bollate. E comunque poco dopo con i lumbard che finiscono per dettar legge in Veneto. Rocchetta, segretario del partito, mi chiese le dimissioni da deputato, perché pretendeva, da secondo dei non eletti, che insieme a Ettore Beggiato gli cedessimo il seggio in quanto leader della Liga. Invece fin dall’inizio Bossi aveva, per statuto, il totale e assoluto controllo della Lega lombarda: di fatto lo ha imposto anche qui con le espulsioni cicliche di tutti i dirigenti «fuori linea». Da Rocchetta e Marilena Marin fino a Comencini e alle ultime epurazioni congressuali dei dissidenti.
Ritorna nella Lega Nord il duello Bossi-Maroni per la leadership?
Osservo solo che, nonostante tutto, nella Liga veneta degli anni 80 nessuno si sarebbe mai sognato di fare un congresso a porte chiuse. Magari non ne abbiamo organizzati tanti, però quelli che ci sono stati in Veneto erano sempre aperti a tutti. Al congresso della Liga poteva assistere chiunque volesse.
Nel 1997 il commando con il tanketopiomba in piazza San Marco, mentre l’«ambasciatore serenissimo» Bepìn Segato diventerà una specie di Mandela del venetismo. Una scheggia impazzita? Gente tradita dal berlusconismo di Bossi & Maroni?
È impossibile negare di conoscerli. Luigi Faccia nel 1983 era uno dei dieci consiglieri federali della Liga veneta, concentratissimo sulla storia militare della Repubblica Serenissima. Flavio Contin era candidato al senato, anche se allora bastava avere più di 40 anni per esserlo. Franco Licini aveva il grande pregio di venire da Belluno dove facevamo molta fatica a organizzarci. Segato, dal carcere fino alla morte, ha continuato a coltivare tradizioni e cultura venetista. All’epoca della scalata al campanile, io ero già da tempo fuori dalla politica attiva e devo dire sinceramente che non ho mai condiviso posizioni estremiste. Sono un cattolico, votavo Dc prima di diventare lighista: ben distante anche allora da certi «giri» della destra veronese o dagli esagitati fuori controllo.