Alberto Bisin, Alessandro De Nicola 12/4/2012, 12 aprile 2012
RIDURRE LA SPESA IL CATALOGO È QUESTO
LA SPESA pubblica in Italia è ormai dell’ordine di 800 miliardi di euro, su un prodotto interno lordo di circa 1.600 miliardi, il 50%. Siamo ben oltre la media Ocse, a fianco dei paesi del Nord Europa e parecchio distanti dai paesi anglosassoni e da quelli dell’Est europeo. Insomma, i danni del liberismo e dell’ultra-liberismo non devono aver toccato l’Italia, che rimane uno dei paesi al mondo in cui la presenza pubblica è più estesa. Per non parlare del fatto che parte rilevante del sistema economico privato, dalle banche alle grandi imprese, è legato a doppia mano al pubblico. A fronte di questa spesa, ragionando a grandi linee, gli italiani ricevono scuola, sanità, giustizia, trasporti.
Eun welfare sul mercato del lavoro, polizia e difesa, e altri servizi pubblici di minore rilevanza.
Pur con un certo timore di risultare disfattisti, non è possibile mancare di rilevare che i servizi offerti dal pubblico in Italia non sono, in media, di grande qualità. La scuola, ad esempio, risulta significativamente di qualità inferiore alla media Ocse ad una valutazione internazionale attenta ed accurata (i test Pisa; ultima rilevazione nel 2009). L’università continua a produrre con disarmante regolarità concorsi farsa e più in generale, anche se con alcuni distinguo, poca ricerca (Roberto Perotti docet). La giustizia è in una situazione catastrofica, i confronti sulla durata dei procedimenti, prodotta dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej; ultimo rapporto nel 2010) fanno rabbrividire. Per quanto riguarda i trasporti, siamo indietro vari decenni sull’alta velocità (per non parlare della qualità dei treni pendolari) e da sempre sosteniamo gli immensi costi di una ex compagnia aerea di bandiera che definire inefficiente è generoso. Un welfare moderno sul mercato del lavoro non è pervenuto: piuttosto garantiamo un sistema duale che danneggia giovani e donne e una cassa integrazione che assurdamente ed inefficientemente tiene legati i lavoratori a imprese improduttive invece di aiutarne la riallocazione. In un buon terzo del paese la legalità e i diritti di proprietà sul territorio sono sospesi,e lo sono stati essenzialmente dall’Unità ad oggi.
E non è finita. Abbiamo un sistema politico a livello statale e a livello locale che è tra i più costosi nel mondo sviluppato, ma anche tra i più corrotti. Politici e dirigenti nel pubblico e nel para-pubblico hanno salari (e soprattutto benefici) dell’ordine di due volte quelli di mercato. E soprattutto non rispondono del proprio operato se non alla politica.
Nemmeno il sistema fiscale funziona: raccoglie il 48% del Pil con sacche di evasione e di elusione mai viste, con il risultato di produrre tensioni sociali inimmaginabili in un paese civile e di portare il rapporto entrate statali/Pil emerso al 60%. Certo, la Corea del Nord fa peggio... È vero, questi sono tutti ragionamenti basati su dati e statistiche prese in media. Le medie (così come i dati e le statistiche) si sa in Italia godono di poco rispetto, danno una visione superficiale della realtà (chi non conosce la storia di Trilussa e dei polli). Ma se proviamo ad entrare un po’ più in profondità nei dati, oltre le medie, scopriamo che le cose stanno ancora peggio. Una parte del paese riceve trasferimenti fiscali di dimensioni notevolissime (costantemente almeno dal dopoguerra) a fronte dei quali produce servizi pubblici molto peggiori in quantità e qualità, su tutta la linea (scuola, sanità, giustizia, trasporti). Come dicevamo, ci rendiamo conto che tutto questo possa apparire disfattista, ma è tutto vero ed è la reazione che ci ha ispirato la lettura dell’intervista del ministro Giarda. Il ministro, che è incaricato di produrre una spending review del settore pubblico, cioè una analisi del bilancio del settore pubblico con l’obiettivo di individuare le aree in cui poter produrre tagli, ci annuncia che abbiamo tagliato tutto il possibile ormai; che tagli ulteriori sarebbero motivati puramente da una (malsana, sadica) ideologia liberista; ci porterebbero ad uno stato naturale di homo homini lupus in cui tutto è privato, scuole, carceri... Il ministro evoca addirittura i vigilantes al posto della polizia.
Bisogna essere chiari e diretti. La strategia retorica di tacciare come liberista (titolo che nel nostro paese è spesso interpretato come affamatore del popolo) chiunque sappia far di conto ha già fatto molti danni e non ci aspetteremmo fosse utilizzata anche da questo governo di "tecnici". E allora siamo chiari.
Non abbiamo alcun dubbio che una riduzione del settore pubblico in Italia sarebbe cosa buonae giusta, che molti servizi oggi pubblici funzionerebbero meglio se almeno in parte privatizzati. Entreremo più in dettaglio nel prosieguo di questo articolo. Ma non è questo il punto principale. Su alcune di queste operazioni di privatizzazioni persone ragionevoli possono essere ragionevolmente in disaccordo. Il punto principale è invece che il settore pubblico oggi in Italia offre servizi di bassa qualità ad un costo elevato. Di conseguenza si possono mantenere pubblici i servizi che ora sono pubblici («mantenendo inalterato il confine attuale tra servizi pubblici e privati», nelle parole del ministro), garantendone la qualità (nonè difficile), ad un costo molto inferiore, senza nulla privatizzare e soprattutto senza affamare il popolo. Anzi, redistribuendo i risparmi sotto forma di minori tasse.
E su un altro punto è necessario essere chiari: se il ministro avesse ragione, e lo status quo, rispetto alla finanza pubblica, fosse essenzialmente intoccabile, allora il paese sarebbe inevitabilmente indirizzato ad un declino lento ma doloroso. Bisogna ammetterlo onestamente: nessun paese può crescere con una pressione fiscale al 50%, servizi pubblici inefficienti, un mercato del lavoro incrostato, e un mercato del credito reso anch’esso inefficiente dall’eccessivo potere di mercato e da una governance (le fondazioni) incestuosa e politicizzata. Lo status quo porta inevitabilmente ed inesorabilmente le più innovative iniziative imprenditoriali ed intellettuali ad allontanarsi dal paese. Tertium non datur: o si taglia la spesa pubblica e si abbassano le tasse o si accelera il declino in cui il paese si è imbarcato da una quindicina d’anni. E non si creda di poter limitare almeno l’accelerazione del declino. Non è possibile perché l’esposizione debitoria ci condanna a dipendere dai mercati internazionali, che sanno scontare la mancanza di crescita futura a cui queste politiche ci stanno condannando. Detto tutto questo, bando al pessimismo e al disfattismo e veniamo a quello che, a grandi linee, si può fare, e che una seria spending review renderebbe praticabile anche nei dettagli, se si avesse la forza e il coraggio di farla. Anzi, a ben vedere, è proprio la posizione di chi davanti agli 800 miliardi di spesa pubblica alzi le mani a sembrarci disfattista.
Le uscite statali possono ridursi in tre modi: rendendo meno inefficiente gli attuali meccanismi di spesa e di approvvigionamento di beni da parte dello Stato; riducendo il perimetro pubblico laddove la presenza statale nonè né utile né necessaria (anche senza bisogno di essere, ancora una volta absit iniuria verbis, liberisti) e cambiando le modalità di offerta del servizio pubblico; infine, ridisegnando l’approccio dell’intervento pubblico limitandolo agli ambiti ove è strettamente necessario o politicamente improponibile tentare di eliminarlo (solo in quest’ultima categoria è il regno dei sogni del liberista incallito, che se anche ritiene desiderabile la privatizzazione completa del sistema pensionistico sa che è più facile ottenere l’annessione della Lombardia alla Svizzera).
Alla prima categoria si iscrivono gli interventi oggetto della spending review, ad esempio la «razionalizzazione delle condizioni di offerta dei servizi pubblici sul territorio». Non è semplice accorpare scuole, ospedali e penitenziari, certamente. Ma non bisogna nemmeno arrovellarsi troppo: già ci sono leggi, interventi e studi programmati da anni. Per i tribunali, uno a provincia basta e avanza, essendo pacifico che sotto un certo numero di dipendenti la struttura giudiziaria è inefficiente. La resistenza è tutta corporativa, ammantata, come è scontato, dal sacro principio del diritto al giudice naturale. Stesso dicasi per gli approvvigionamenti. Il sostanziale svuotamento del principio dei costi standard per la sanità (originariamente prevista nel federalismo fiscale), farà si che la cura dei pazienti costerà ai contribuenti somme diverse a seconda della regione. Perché rassegnarsi? Alla seconda categoria appartengono tutti quegli interventi che non cambiano l’impianto sociale del paese. Ad esempio, ogni anno i contributi alle imprese ammontano a 43 miliardi (comprese quelle pubbliche). Il costo di intermediazione per fare arrivare questi soldi è enorme (in alcuni comparti raggiunge il 26%, vale a dire la burocrazia si mangia un quarto dei soldi destinati alle aziende). Un bel taglio di un terzo porterebbe in cassa 14 miliardi: niente più deficit e spazio per tagliare un po’ di Irap. Oppure la Rai, ci costa tra deficit e canone quasi due miliardi di euro. La si venda, si destinino 50 milioni l’anno a Rai Storia, Rai News e Rai 5 (il canale culturale)e si intaschinoi 3/4 miliardi di valore dell’azienda.
Ah, le dismissioni. Il valore dei beni pubblici vendibili secondo varie stime ammonta a 7/800 miliardi. Vendiamo 20 miliardi l’anno di asset e abbattiamo il debito pubblico e le uscite di un miliardo l’anno di interessi.
I costi della politica. L’abolizione delle province? La riduzione dei parlamentari? Il dimezzamento (come minimo) dei finanziamenti ai partiti e ai giornali di partito? L’accorpamento dei Comuni? La parametrazione degli stipendi e delle pensioni di chi lavora per il Parlamento con le altre pubbliche amministrazioni? Le consulenze? Altri miliardi risparmiati. Altre amministrazioni dello Stato sono elefantiache: possibile che siamo il paese con più uomini in divisa di tutta Europa tra carabinieri, polizia, guardia di finanza, forestali (compresi i famosi forestali calabresi), vigili urbani e guardie penitenziarie? Sfoltire, sfoltire: senza le pietose scuse dell’ordine pubblico che ne soffrirebbe. L’andamento della criminalità in Italia è anelastico rispetto al numero di uniformi.
E per i settori come la scuola, l’università e la sanità a quando l’iniezione di sostanziose dosi di concorrenza e merito? Perché pagare allo stesso modo il professore (o il medico) bravoe volenteroso e quello incapace e pigro? E cosa si aspetta a introdurre la concorrenza tra istituti? Non occorre dare i soldi alle scuole private, basta darli alle famiglie, sceglieranno loro la scuola più adatta al proprio figlio. La competizione salva denaro. Alla terza categoria, come dicevamo, appartengono le riforme liberiste, quelle che richiedono coraggio e che sono basate sul principio che un servizio per essere pubblico non deve essere per forza prestato da un operatore pubblico e che non esistono pasti gratis. La gratuità della prestazione induce al consumo eccessivo e allo spreco: meglio un reddito di cittadinanza ai bisognosi e il giusto prezzo del servizio.
Ma alla terza categoria non osiamo pensare: se il governo ponesse in opera sul serio quanto c’è da fare lo spazio per tagliare la spesa pubblicae ridurre le tasse sarebbe già enorme. Non prendiamoci in giro: questo è ciò che può dare il segnale giusto ai mercati, di nuovo dubbiosi sull’Italia, e, soprattutto, segnale e stimolo giusti al paese.