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 2012  aprile 12 Giovedì calendario

LA QUESTIONE DEI MARÒ QUALCHE ARGOMENTO IN PIÙ

Sulla questione dei fucilieri detenuti in India, farò alcune considerazioni essenziali:
1) L’istituzione di una commissione bilaterale d’inchiesta — procedura ovvia e consolidata — non avrebbe leso l’indipendenza della magistratura indiana. 2) L’analisi comune dei tracciati radar della Capitaneria di porto di Kochi, incrociati con quelli dei natanti in zona e con le immagini satellitari, avrebbe permesso di acclarare i fatti con assoluta certezza. Si veda l’analisi di Luigi Di Stefano (http://www.
seeninsde.net/piracy/). 3) Dai dati satellitari risulta che il St. Anthony era a 27 miglia dalla Lezie, l’unica che abbia risposto — segno di buona fede — all’appello delle autorità indiane. 4) La perizia balistica dovrebbe essere compiuta alla presenza «attiva» di esperti della controparte: troppo facile procurarsi le prove da soli. Il calibro 5,56 Nato, usato dai nostri militari, è spesso usato anche in India e Sri Lanka. 5) Anche a prescindere dall’applicabilità della giurisdizione italiana per fatti avvenuti in acque internazionali, il principio della immunità funzionale di militari in servizio è sancito da tutte le convenzioni internazionali.
Umberto Gori, Firenze


La Lexie si trovava a circa 22 miglia dalla costa. La Convenzione di Montego Bay del 1982 autorizza gli Stati a istituire una zona contigua sino a 24 miglia dalla costa. Lo Stato costiero, nella zona contigua, può esercitare diritti di controllo necessari a pervenire o reprimere infrazioni alle proprie leggi. Nella relazione governativa italiana al disegno di legge di autorizzazione alla ratifica della convenzione di Montego Bay l’Italia fa riferimento alla possibilità di istituire una zona contigua di 24 miglia. Vari Paesi come Malta (1978), Marocco (1980), Egitto (1983), Francia (1987) hanno assunto simili iniziative. Inoltre l’India fa appello alla convenzione di Roma del 1998. Un’importante disquisizione in materia è apparsa recentemente su European Journal of International Law.
Falco Accame
segreteria@anavafaf.com


Non sono in molti a sapere che nel novembre 2008 la fregata indiana Tabar affondò un peschereccio thailandese scambiato per una nave pirata con la perdita di membri dell’equipaggio.
Emilio Bonaiti
e.bonaiti@libero.it

Cari lettori, le vostre lettere sono, per ragioni diverse, molto interessanti e offrono nuovi elementi di discussione. Quella di Umberto Gori, professore emerito dell’università di Firenze, delinea un percorso che sarebbe stato logico adottare e cita un rapporto sui tracciati radar che potrà essere utile all’indagine. Quella di Falco Accame, ammiraglio e deputato socialista nella seconda metà degli anni Settanta, richiama una convenzione marittima di cui occorrerà probabilmente tener conto. E quella di Emilio Bonaiti, attento lettore di notizie internazionali, sostiene che anche una fregata indiana fu coinvolta in un caso analogo. È vero. Il fatto accadde nel novembre 2008, 525 km a sud ovest di Salalah, un porto dell’emirato dell’Oman. Secondo le autorità indiane quello affondato era un vascello d’appoggio per le piccole imbarcazioni con cui i pirati vanno all’arrembaggio delle navi che attraversano il Mare arabo e l’Oceano indiano.
Lascio spazio ai lettori e mi limito a due osservazioni. In primo luogo i marò erano impegnati in una missione internazionale alla quale l’India è interessata non meno dell’Italia. Una commissione bicamerale d’inchiesta sarebbe stata in questa vicenda la più equa delle soluzioni possibili e l’indagine sui proiettili, ora eseguita da un laboratorio della polizia indiana, avrebbe avuto una maggiore rilevanza. In secondo luogo mi sembra che l’intero caso sia stato trattato da ambedue le parti in modo alquanto opaco. L’India si è trincerata, almeno pubblicamente, dietro la competenza della magistratura, l’Italia ha puntato sulla soluzione diplomatica della crisi e ha parlato ad alta voce il meno possibile. Bene, se vi sarà una soluzione in tempi ragionevoli. Altrimenti occorrerà alzare la voce.
Sergio Romano