Carlo De Benedetti, Corriere della Sera 12/04/2012, 12 aprile 2012
«IO ALLA FIAT CON GIANNI E CESARE. COSI’ NEL 1976 LASCIAI L’AZIENDA»
Il brano che qui presentiamo è un estratto di un testo (mai pubblicato) che Carlo De Benedetti, come spiega, aveva preparato per il libro autobiografico di Cesare Romiti (scritto con Paolo Madron). I dubbi espressi dall’Ingegnere all’inizio del testo erano premonitori. Romiti e De Benedetti non hanno trovato un accordo sull’impostazione U n giorno di gennaio di quest’anno mi dicono che c’è Romiti al telefono che ha urgenza di parlarmi. Prendo la chiamata e, con molta cordialità, Cesare mi dice che sta completando una sua autobiografia e che desidererebbe che io facessi una prefazione.
Confesso che rimango sorpreso, ma piacevolmente, e gli rispondo di getto: «volentieri, se mi mandi il libro, lo leggo e poi ti richiamo». Lo leggo. Richiamo Romiti e gli dico: «Ma come faccio a farti la prefazione del libro quando su molte, troppe cose non sono d’accordo con te e in particolare non sono e non sono mai stato d’accordo con te su molti passaggi del capitolo "Io e Carlo De Benedetti: due nemici necessari?". A cominciare proprio dal titolo di quel capitolo. Che cosa significa "due nemici necessari?"». Risposta pronta di Romiti: «Tu sai che noi ci siamo sempre, pur nelle differenze delle nostre opinioni, reciprocamente stimati. Scrivi quello che vuoi, compreso che non sei d’accordo».
Ebbene, la mia reazione è: a un gesto di eleganza che francamente mi sorprende, non posso che accettare.
Ricordo l’arrivo di Romiti in Fiat, come direttore amministrativo e finanziario. Io in quel momento ero presidente dell’Unione Industriale di Torino. Era il 1974.
Di lui ho in mente quanto mi disse Cuccia: «I conti della Fiat non ci convincono e abbiamo deciso di mandare una persona di cui ci fidiamo per cercare di capire la vera situazione economica e finanziaria». Quella di Cuccia fu certamente una decisione giusta, perché nella mia ormai lunga esperienza di aziende non ho mai incontrato una persona che in questo specifico settore avesse la competenza, l’autorevolezza e la determinazione che aveva Cesare Romiti. Attraverso gli anni gli ho sempre riconosciuto queste caratteristiche e anche la rapidità e la professionalità con cui in pochi minuti era capace di analizzare bilanci e di memorizzarne i dati essenziali.
Lo dimostrò anche alla Fiat, pur in un ambiente che era estremamente ostile alle immissioni dall’esterno di persone con alte responsabilità e deleghe.
Aggiungo un’altra caratteristica peculiare di Romiti: la straordinaria capacità di gestire il potere che dimostrò in tutta la sua carriera in Fiat, tenuto anche conto che allora la Fiat era l’incontrastata e dominante potenza industriale del Paese.
Ma su Romiti capo-azienda il mio è un giudizio critico. In mancanza di conoscenza del prodotto e di visione sul futuro di quella industria, Romiti si è concentrato sulle diversificazioni finanziarie della Fiat, trascurando Fiat Auto e facendo l’errore di privarsi di Ghidella, l’unica persona che conosceva bene il prodotto auto.
Anche sul piano internazionale, prima dell’arrivo di Marchionne, le uniche alleanze della Fiat furono intuizione e realizzazione di Umberto Agnelli: sia quella che si concretizzò insieme alla Peugeot nella creazione di Sevel, sia nella non riuscita iniziativa con Hitachi nelle macchine movimento terra.
A Romiti certo bisogna riconoscere un ruolo importante nel capitalismo italiano degli anni 80 e 90, gli anni che portarono peraltro al disastro del debito pubblico e ai colossali benefici che la Fiat ottenne dallo Stato e cioè dal contribuente italiano.
Il caso Alfa Romeo-Ford che Romiti ricorda è solo un episodio, peraltro certamente non trascurabile, delle contropartite che la Fiat ottenne in quegli anni e molto per merito di Romiti che interpretò nei rapporti con la politica in modo mirabile l’insegnamento che l’Avvocato Agnelli mi diceva avere ricevuto dal nonno e cioè che la Fiat deve essere governativa. E sempre lo fu, col fascismo, con la Democrazia cristiana, con Craxi. Ma questa è storia.
Veniamo al mio impegno in Fiat, necessario per completare il quadro. Premetto che su questo punto Romiti, qualche anno fa, volle darmi atto in una conversazione a tre con un importante interlocutore che ero stato io in totale autonomia a decidere di lasciare la Fiat.
Ebbene, negli ultimi mesi del 1975 Umberto Agnelli mi invitò a una colazione (erano frequenti i nostri incontri) nella sua villa nella tenuta di La Mandria e mi chiese improvvisamente, mentre parlavamo di Fiat: «Ma tu te la sentiresti di fare l’amministratore delegato della Fiat?». Io ne rimasi sorpreso e lusingato.
Dopo molte riflessioni e incontri con Umberto e con l’Avvocato, accettai la proposta, a due condizioni:
1) di vendere alla Fiat le mie azioni della Gilardini in quanto non volevo trovarmi in conflitto di interesse come fornitore della Fiat;
2) di avere in pagamento azioni Fiat perché non ho mai lavorato da manager puro, ma sempre da «padrone».
Ci accordammo su questi due punti, dopodiché Umberto e l’Avvocato mi chiesero di gratificare il management interno con la nomina ad amministratore delegato anche di Romiti, con delega all’amministrazione e alla finanza. Accettai di buon grado perché Romiti aveva competenze superiori alle mie in quel settore.
L’assetto di comando al mio ingresso in Fiat era: Avvocato Agnelli, presidente; Umberto Agnelli, vice presidente e amministratore delegato; io e Cesare Romiti, amministratori delegati; un comitato esecutivo presieduto da Umberto Agnelli a cui partecipavano, oltre a lui, io e Romiti, Nicola Tufarelli, allora capo dell’Auto.
È assolutamente vero che dopo qualche settimana in Fiat, siccome i bilanci li sapevo leggere anch’io ma anche le comparazioni tra le produttività nostre e quelle dei nostri concorrenti, andai dall’Avvocato e gli dissi: «bisogna mandare via 20.000 persone e 500/700 dirigenti». L’Avvocato mi chiese: «ma dove sono questi operai che lei vede in eccesso? Sono nei corridoi?». La mia risposta fu: «Sono nei numeri». Si preoccupò. Mi disse che doveva parlarne a Roma. Erano gli anni delle Brigate rosse. Tornò da Roma e mi disse: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile una operazione di questo genere».
Da quel momento capii che la mia presenza in Fiat sarebbe stata del tutto frustrante, inutile all’azienda e lesiva del mio grande investimento in Fiat e decisi di andarmene. Lo dissi a Romiti, come giustamente lui ricorda; lo dissi a uno sbalordito Avvocato Agnelli che incontrai durante le vacanze di agosto a St. Moritz e lo dissi anche a Umberto anche se in quel momento lui non lavorava in Fiat e faceva il senatore. Quindi, nonostante le insistenze dell’Avvocato e di Umberto che vennero ripetutamente a casa mia a Torino per convincermi di non farlo, lasciai la Fiat e accettai, per fair play ma anche per senso di equità, di rivendere le mie azioni Fiat all’Ifi al prezzo che avevo pagato più gli interessi maturati, nonostante sapessi che nei mesi successivi le azioni si sarebbero ampiamente rivalutate per effetto del maxi prezzo pagato dai libici per entrare nel capitale della Fiat.
La Fiat, che non poteva tollerare l’idea che questa fosse, come è e come Romiti ha riconosciuto, l’unica causa della mia uscita dall’azienda, si inventò fantasiose ipotesi di una mia «scalata» alla società con l’appoggio di non so quale solidarietà della finanza internazionale. Una «palla» totale anche perché: primo, non ho mai fatto parte di alcuna «consorteria» nazionale o internazionale; secondo, perché, ancor più dopo l’ingresso dei libici di cui ero al corrente, non avevo neanche lontanamente a quell’epoca i mezzi per un’operazione che non ho mai pensato neppure per un attimo di fare.
Certo, Romiti e io abbiamo avuto idee diverse in Confindustria, in Mediobanca, in Olivetti, in infinite circostanze. Ma non credo che fosse necessario che fossimo avversari. Avremmo potuto benissimo convivere nelle nostre differenze a beneficio di un contributo incisivo che insieme avremmo potuto dare al Paese come rappresentanti di due importantissime realtà industriali. Peccato! La storia la si racconta, non la si cambia.
Carlo De Benedetti