Federico Fubini, Corriere della Sera 12/04/2012, 12 aprile 2012
IL RADAR DEL TESORO PER I DERIVATI SUI BTP. E I NUOVI OBBLIGHI DELLE BANCHE AMERICANE — C’è
un canale poco visibile attraverso il quale le ricadute del crac Lehman arrivano ancora in Italia. È una spinta silenziosa. Ma si inizia ad avvertire solo in questi mesi, a oltre tre anni da quando i derivati contribuirono a travolgere Lehman Brothers e costrinsero Aig ad affidarsi a un salvataggio pubblico da 187 miliardi di dollari.
Nei primi due anni dall’uragano finanziario, gli eventi di Wall Street si sono rovesciati in Europa come un’onda recessiva. Ora invece arrivano le conseguenze delle regole create per cercare di evitare un altro crac. Fra le nuove norme incoraggiate dal Financial stability board (Fsb), un forum dei principali Paesi, una per esempio mira a contenere proprio il rischio derivati nei bilanci delle banche. Questi titoli spesso vengono negoziati «over the counter» (Otc), cioè privatamente fra due attori del mercato e al riparo dalla trasparenza imposta da una Borsa. Ora per la prima volta la nuova regolazione finanziaria internazionale, con il Fsb e le norme di Basilea 3, prevede che le banche accantonino del capitale a riserva per bilanciare il rischio dei derivati «opachi» che hanno in bilancio. In altre parole, lavorare con questi titoli adesso costa di più. Non stupisce dunque che molti istituti vogliano avere meno derivati, e le conseguenze si vedono già: quando le clausole dei contratti lo consentono, i grandi gruppi di Wall Street cercano sempre più spesso di disfarsi dei derivati in essere.
Che c’entra tutto questo con l’Italia e il suo debito pubblico? Forse la connessione non è diretta, ma il Tesoro il 3 gennaio ha pagato a Morgan Stanley 3,4 miliardi di dollari per uscire da un derivato di tipo interest rate swap (è un titolo che garantisce al Tesoro, a un costo, di pagare un interesse fisso su un debito anche qualora i tassi salgano). Non è chiaro se il Tesoro oppure Morgan Stanley abbia chiesto la rottura del contratto, ma fra le due parti non ci sarebbero state solo conversazioni amichevoli.
Con questa pressione sulle banche ad alleggerirsi dei derivati, si tratta dunque di capire se l’Italia può dover pagare di nuovo per altri divorzi. In Parlamento, il sottosegretario di Stato Marco Rossi Doria ha detto che il valore «nozionale» complessivo dei derivati emessi sul debito dell’Italia è di 160 miliardi: il 10% del debito emesso dal Tesoro. Di per sé ciò non significa molto. Ma per capire se nei contratti incombano nuove «finestre d’opportunità» per far scattare clausole di rottura dei derivati con le banche, di recente il Tesoro ha fatto una ricognizione interna e stilato un rapporto. Sul 2012 non dovrebbero poterci essere nuovi esborsi, a quanto sembra emergere. Di certo i numeri forniti da Rossi Doria indicano che l’attività in derivati a partire dagli anni 90 è stata intensa: fra gli effetti a metà del decennio scorso, c’è stato un allungamento della vita media del debito da 4 a 8 anni per effetto degli interest rate swap (uno «scambio» di condizioni nella durata e negli interessi sul debito).
Ma nessuno davvero ha il quadro completo. Poiché questi derivati su un «nozionale» di 160 miliardi sono «over the counter», non c’è alcuna trasparenza. O quasi, perché da quest’anno le banche americane devono rendere note al regolatore di Washington, la Sec, le loro esposizioni in derivati verso questo o quel Paese. Goldman Sachs per esempio comunica che a fine 2011 aveva derivati «Otc» sull’Italia per 2,12 miliardi di dollari. Jp Morgan invece aveva sull’Italia «garanzie da derivati» per 2,6 miliardi e «coperture di portafoglio» per 3,3 miliardi.
Vista l’opacità, appunto, non è chiaro cosa ciò significhi. Almeno fino a quando il Tesoro, proprio perché la situazione appare sotto controllo, deciderà di dare trasparenza totale su questo dossier che tocca da vicino i contribuenti.
Federico Fubini