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 2012  aprile 10 Martedì calendario

Miriam Mafai la verità a ogni costo - Lasciatemi innanzitutto dire che Miriam Mafai morta ieri a Roma, a 86 anni, dopo una lunga malattia - aveva una risata alla quale era impossibile sfuggire

Miriam Mafai la verità a ogni costo - Lasciatemi innanzitutto dire che Miriam Mafai morta ieri a Roma, a 86 anni, dopo una lunga malattia - aveva una risata alla quale era impossibile sfuggire. Per tono e per entusiasmo. Cominciava con un urlo e gorgogliava via, riempiendo l’intera stanza, e, se c’erano più stanze, tutto il resto della casa. Era un rito di saluto e di approvazione, e non c’era assolutamente nulla che più meritasse una di queste sue gloriose risate di un racconto, del disvelamento di un dettaglio, di un retroscena, di una notizia, insomma. Perché soprattutto e sopra ogni cosa - eccetto, naturalmente, i suoi figli, i suoi nipoti, le sue pronipoti e il suo Nullo, Giancarlo Pajetta - Miriam amava la notizia. «Eh, questa è buona», era il suo intercalare, «questa bisogna scriverla». Militante appassionata, figura centrale del mondo esclusivo ed escludente che per lungo tempo è stato il Pci, pure, davanti a una notizia, non ha mai avuto nessun dubbio: bisognava scriverla. Non importa chi riguardasse, non importa quale sancta sanctorum violasse, «bisognava scriverla». Riposava ieri, una esile sagoma, sul piccolo letto della sua stanza, una semplice rete, un materasso sottile, lenzuola bianche. Uno spazio spartano, al centro di una casa piena di libri, dominata dalla opere di suo padre e sua madre, grandi artisti della Scuola Romana. Questo mix di storia, cultura e austerità illustrava il mondo che Miriam e i comunisti della sua generazione avrebbero voluto. E che non hanno mai visto, salvo nelle loro ostinate convinzioni. Oggi vi diranno tutti che la Mafai è stata una figura femminile importantissima. Lo è stata certo. Ma lei si sarebbe fatta una delle sue risate a ritrovarsi nella parte femminile dell’elenco della storia. Quella generazione lì ha visto e segnato infatti tante più cose della differenza di «genere». Miriam nasce a Firenze, nel 1926. Figlia di una coppia di noti artisti italiani del XX secolo, Mario Mafai e Antonietta Raphael, ha una giovinezza antifascista a Roma nelle file del Pci. Separata con due figli, negli Anni Sessanta incontra il compagno della sua vita, il «ragazzo rosso» Giancarlo Pajetta con cui condividerà trent’anni. Scrive per l’ Unità , è direttore di Noi donne dal 1965 al 1970, inviato speciale di Paese Sera , e negli Anni Settanta è nel gruppo di testa di Repubblica . Dal 1983 al 1986 è presidente della Federazione nazionale della stampa. La sua vicenda dunque si intreccia di sicuro con quella delle donne italiane, alle quali ha dedicato anche tanto lavoro storico, fra cui la migliore biografia collettiva al femminile del nostro paese, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (Mondadori, 1987). Lei è parte, del resto, di un formidabile universo di donne che scrivono: colpisce oggi guardarsi indietro e ricordarsi che negli Anni Sessanta-Settanta il giornalismo italiano conta su firme come la sua, quella di Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Oriana Fallaci, Lietta Tornabuoni, tanto per citarne solo alcune. Eppure, ripeto, iI suo merito maggiore, almeno a mio parere, non è quello di aver dato voce alle donne. Miriam, con il suo tipo di giornalismo, è stata uno degli intellettuali che hanno segnato il lungo passaggio che, nel crinale decisivo degli Anni Settanta, ha portato il Partito comunista italiano da organizzazione inquadrata in una autoritaria esperienza internazionale a forza della democrazia. Per la Mafai il giornalismo era un’arte laica, che non guarda in faccia a nessuno, che ha il proprio centro nel culto della verità a ogni costo, anche quando la verità va contro le opinioni proprie, le banalità precostituite, l’interesse e il conservativismo del proprio gruppo e del proprio ambiente. Provate a chiamare questo ambiente Pci, e capirete quanto queste sue inclinazione e convinzione siano state profondamente rivoluzionarie. Consiglio di rileggere oggi due suoi libri: Dimenticare Berlinguer. La sinistra italiana e la tradizione comunista (Donzelli, 1996) e Botteghe Oscure, addio. Com’eravamo comunisti (Mondadori, 1996). Vi ritroverete la Mosca della paura, le esitazioni dei leader, i giudizi sereni ma duri su un Berliguer che cambia approccio pressato dalla comprensione che il mondo gli cambia sotto i piedi rapidamente, e vi troverete un giudizio non formale sul condizionamento che rimane sulla sinistra tutta dalla scelta del «compromesso storico». Vi troverete anche un inusuale ritratto dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e tutti gli errori e i limiti di comprensione di una classe dirigente spesso da lei giudicata non adeguata, proprio in virtù del proprio passato comunista, per entrare nel nuovo mondo. Senza di lei, i suoi articoli e i suoi libri, oggi alla sinistra e alla nostra storia mancherebbero, insomma, pagine fondamentali di «verità». Per chi è giornalista oggi, è una lezione di indipendenza in cui vale ancora la pena di credere.