Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 10 Martedì calendario

I SOLDATI BAMBINI ANTI BIRMANIA


Dopo la pioggia ne escono a migliaia, mi diceva Ba Wa, tutto contento. Mi chiedevo cosa fossero, e mi chiedevo cosa contenesse quel sacco che Ba Wa portava orgogliosamente con sé. L’ho capito poco dopo, verso le 5 del pomeriggio, quando i soldati dell’esercito di liberazione Karen si siedono accovacciati intorno a un tavolino rotondo alto una ventina di centimetri e, dopo una preghiera, cominciano a mangiare. In una specie di grande scodella c’erano loro, le cavallette di Ba Wa, fritte, come antipasto, prima del solito riso con le sardine, la cena tipica dell’esercito Karen. Ba Wa fa l’infermiere, è molto bravo nelle amputazioni, specializzazione indispensabile in zona di guerra, infestata dalle mine antiuomo, ma è anche un soldato, e racconta orgoglioso le sue gesta di battaglia. Era la mia prima cena nel territorio rivendicato dai Karen, in lotta armata da 63 anni con il governo centrale birmano, in uno dei tanti sanguinosi conflitti dimenticati che smascherano l’ipocrisia del mondo cosiddetto sviluppato e civile, che associa la Birmania solo ad Aung San Suu Kyi, senza mai approfondire la reale situazione del Paese. Ero a Kaw –Hser, villaggio Karen, che si raggiunge dopo 4 ore di macchina da Mae Sot, nord est della Thailandia e dopo aver cercato un punto idoneo per entrare in Birmania, senza incappare nella polizia di frontiera thailandese o nelle truppe dell’esercito di Napidaw, la nuova capitale birmana. Cosa ci vai a fare a Mae Sot, mi chiedeva il canadese grasso che avevo a fianco nel volo da Muscat a Bangkok; traffichi in armi? In droga? TRAFFICI ILLECITI A Mae Sot non c’è altro da fare, mi diceva, e da buon wasp ignorante che aspirava alla sua birra da gustare a Pattaya, dove era sposato con una donna thai, non concepiva interessi non legati a unritorno economico. Lavorava in una multinazionale del petrolio e faceva la spola tra l’Oman e la Thailandia, risolvendo in questo modo il problema del visto, praticamente impossibile da ottenere in modo permanente in questo Paese, anche se sposati con una donna locale. Ancheil tassista chemiportava all’aeroporto di Don Muang, secondo aeroporto di Bangkok, pensava andassi a lavorare a Mae Sot, nessuno ci va per turismo in quel posto di frontiera, visto in Thailandia come un covo di trafficanti e malavitosi. L’arrivo a Mae Sot, con un piccolo aereo a elica conferma la sua fama; una pista deserta e un elicottero militare mi accolgono, ma la città non è per nulla minacciosa, anzi, ci fa respirare un pizzico d’Asia scomparsa nelle metropoli. Il primo incontro aMaeSot èdi quelli importanti; in unamodesta abitazione fuori dal centro incontro David Tharckabaw, vice presidente dei Karen, di fatto l’uomo che ha oggi in mano il reale potere, visto che il presidente è una figura simbolica ormai ben oltre gli ottanta. L’incontro è cordiale, davanti a una tazza di tè al latte con dei biscotti, con quest’uomo che è uno dei bersagli più ricercati dai birmani; si muove con un giubbetto antiproiettile e i luoghi di incontro sono sempre diversi, proprio per non consentire facili individuazioni da parte degli occupanti, che potrebbero colpire anche qui, in Thailandia. Mi racconta che il nome dello stato Karen in lingua tradizionale, Kaw Thoo Lei, significa terra senza il male, (viene anche chiamata terra dei fiori) e proprio per questo non vuole che venga devastata dal solito sviluppo, con le solite infrastrutture, con le solite miniere, con i soliti gasdotti, con le solite trivellazioni e con le solite deforestazioni; è il destino che ha accompagnato la cosiddetta crescita di alcune tigri del sud est asiatico, la Thailandia prima, la Malesia poi, ora il Vietnam e velocemente anche la Cambogia, dove i cinesi stanno delocalizzando, perché c’è sempre qualcuno da sfruttare eda pagare meno in questomondo globalizzato. David è stato un soldato bambino, prima di andare a studiare all’estero, e oggi cerca una difficile pace; il cessate il fuoco è debole, è una tregua armata, così come nello stato Kachin, a nord del Paese, dove più di mille persone sono state uccise nelle scorse settimane. Non è contro la modernità, ci tiene a precisare, ma oggi essere moderni significa forse non ripetere gli errori del passato, non dover distruggere tutto per poi preoccuparsi dell’acqua, del suolo e dell’aria inquinata; chissà se i Karen ce la faranno, chissà se riusciranno a resistere alle vicine sirene di uno sviluppo dissennato, fatto di cemento e bordelli. Questo popolo, pur vivendo nel triangolo d’oro, ha sempre rifiutato la coltivazione dell’oppio, è contro la sua cultura, anche in questo diversa da quella birmana. SVILUPPO LOCALE Tharchabaw è molto attento quando gli racconto di esempi di sviluppo locale, di microprogetti in grado di migliorare la qualità di vita della sua gente, oggi affettada malnutrizione, malaria, e molte altre malattie endemiche in questa parte del mondo. È molto interessato, mi racconta di come mal capisca il sistema dell’economia globale; oggi vi sono migliaia di differenti modelli di automobile, mentre solo 30 anni fa, i modelli di autosi contavano sulle dita diuna mano. Parliamo del fondo monetario internazionale, della banca mondiale e di come le loro ricette continuino a dissanguare il sud del mondo. Ci spingono verso un sistema, continua, che ti obbliga a cambiare anche se non ne hai bisogno, e così facendo ha sempre più bisogno di risorse, di materie prime, spingendo la gente ad abbandonare le proprie tradizioni e il rapporto con la terra. Non vuole questo per il suo popolo, che vive ancora per la maggior parte in modo primitivo, ma dopo una lunga e piacevole chiacchierata, non posso che rimanere deluso quando chiede all’amico che mi ha portato da lui le caratteristiche tecniche della sua macchina fotografica. I mega pixel di una infernale macchinetta, che in alcune culture è vista come uno strumento che deruba l’anima del fotografato, hanno colpito anche il vecchio e saggio leader dei Karen, speriamo si tratti solo di un capitombolo di percorso, anche se purtroppo non ne sono così sicuro; siamo talmente impregnati da questo sistema che non riusciamo più a distinguere nemmeno ciò che razionalmente combattiamo. E così con un po’ di amarezza mi congedo da David Tharcabaw e torno nel mio alberghetto di Mae Sot dove la televisione è sintonizzata costantemente su CCTV, fotocopia cinese della CNN: incredibile notare come, anche in questo campo, i cinesi abbiano appreso velocemente l’arte della propaganda per ampliare il loro raggio d’azione in tutto il pianeta. L’indomani entro in territorio Karen. L’impatto è forte; una donna brucia delle sterpaglie e il fumo che ne deriva rende ancora più surreale l’incontro con il primo villaggio, poche centinaia di metri dopola bandiera Karen che sventola su una collina. Sono solo poche palafitte, abitazione indispensabile in questa regione dove le piogge possono spazzare via interi villaggi in pochi giorni, così come avvenuto negli ultimi anni quando furono migliaia le vittime delle alluvioni e quando il governo centrale non mandò nessun aiuto nelle regioni ribelli, quasi a sperare che le piogge riuscissero a sconfiggere ciò che non erano riusciti a fare militarmente in 60 anni di guerra. Non solo l’acqua, ma anche il regime nascondeva i villaggisommersi. Maquesti villaggi rinascono, con quattro tronchi e coni tetti fatti con foglie sapientemente sovrapposte, in una manualità che il mondo sviluppato haormai completamentedimenticato. VECCHI KALASHNIKOV In mezzo al villaggio i soldati delle forze speciali Karen, nome che suona pomposo quando ci si trova davanti a giovanissimi, a qualche anziano, a uomini in ciabatte con divise provenienti da chissà quale guerra o da chissà dove. Anche le armi sono, mi dicono, vetuste; vecchi kalashnikov sovietici, fucili d’assalto vietnamiti, bombe a mano, bazooka e pistole rubate ai birmani. Si lascia subito questo villaggio; scortato dalle forze speciali raggiungo Kaw- Hser, un viaggio complicato su strade sconnesse dove a volte i veicoli a quattro ruote motrici faticano a rimanere nel sentiero e rischiano di impantanarsi. Ci aspettano trenta capanne con al centro una casa più grande dove veniamo ospitati; l’alloggio è un grande salone aperto sottotetto dove si dorme per terra e dove la notte comincia molto presto, con il calar del sole, vista l’assenza di elettricità. La notte è ovviamente lunga e difficile da passare, e il canto del gallo, verso le 3 del mattino, è quasi una liberazione, pur non avendo chiuso occhio. Nonostante il buio i soldati cominciano a muoversi, mentre le donne del villaggio tirano il collo a qualche malcapitata gallina. Verso le 5 il tè è ormai pronto per tutti, e all’alba inizia unanuova giornata. Una giornata di sopravvivenza, così me la definisce il colonnello dell’esercito di liberazione mentre saliamo la montagna verso le cascate di Maw Khee, luogo incantevole che si raggiunge dopo 4 ore di difficile camminata in una giungla minata, dove si devono guadare torrenti attraverso tronchi di fortuna e dove l’ultimo tratto si inerpica per pareti scoscese. Forse saranno stati 4 o 5 gli occidentali che si sono spinti fin quassù, probabilmente qualche reporter avventuriero scalatore o qualche medico senza frontiere. Già, i medici senza frontiere, come Sebastian, che, lasciata l’or - ganizzazione internazionale si è stabilito al confine con lo stato Karen e cura i lebbrosi. La lebbra è, infatti, anche se nessuno ne parla più, ancora lontana dall’essere sconfitta sul pianeta. Secondo il Rapporto 2011 dell’OMS ben 123 Paesi hanno denunciato casi di lebbra nel 2010, per un totale di 230 mila nuovi pazienti. Sebastian è un personaggio da film, bianco come il latte, ipocondriaco, terrorizzato dalle malattie, perché, dice, avendole studiate, conosce le conseguenze gravi della malaria e del dengue e quindi si muove con pantaloni e camicie che ricoprono tutto il corpo, si cospargedi repellentiesi lava lemani con una cura quasi maniacale. Ma è altrettanto maniacale la sua passione per i bambini del villaggio, che visita come se fossero i suoi,che nonha maiavuto. Mi dice che la situazione non è poi così grave, i bambini più che denutriti sono malnutriti, per una dieta senza proteine che ne pregiudica una sana crescita. STAGIONE DELLE PIOGGE La situazione è molto peggiore durante la stagione delle piogge, quando la malaria entra praticamente in tutte le famiglie, con conseguenze spesso nefaste. Proprio per questo Sebastian distribuisce in ogni casa una zanzariera impregnata di insetticida a lunga durata, per educare gli abitanti del villaggio alla prevenzione, unico sistema realmente efficace per abbattere il tasso di mortalità della malaria in questa zona. È sposato con Antonella, anche lei medicoappassionato in questazonadi confine. Quando si dice l’altra metàdella mela, difficileimmaginarli separati, vivono quidatredici anni, lei ha lasciato Firenze e una vita agiata per dedicarsi completamente ai rifugiati Karen, che cura, rifornisce di medicinali e, oggi, tramite Sebastian che ha attraversato il confine, di fish paste, un intruglio maleodorante che nei villaggi viene usato per condire il riso. E il riso è l’unica cosa che non manca in questi villaggi, come del resto in tutta l’Asia; i soldati lo mangiano con sardine in scatola e fa una certa impressione essere serviti da un “cameriere” con il fucile a tracolla. Non lasciano mai le armi, un attacco birmano è possibile in ogni momento, sono quasi 300 i campi base birmani nel territorio Karen, alcuni composti da pochi uomini, altri molto più minacciosi e a volte con artiglieria in grado di bombardare e radere al suolo i villaggi. I soldati si muovono in continuazione, da un villaggio all’altro, per presidiare e proteggere i civili; si muovono in fila indiana nella giungla, a volte si fermano per riposarsi dal caldo umido che toglie le forze e poi riprendono il cammino fino al villaggio successivo. A Bla Tho un gruppo di bambini ci corre incontro, e dietro di loro un contadino con il machete ci guarda intimorito e incuriosito. Avrà quarant’anni, è completamente sdentato, ma pur senza un dente il suo viso sorride in continuazione. Probabilmente lo scollamento dei suoi denti è conseguenza del continuo masticare di foglie di betel; quasi tutti i Karen, così come milioni di altri asiatici, la consumano ogni giorno, per lo più in combinazione con la noce di betel. L’uso regolare di noce di betel macchia la bocca e i denti di un rosso profondo, di cui i masticatori sono molto orgogliosi, anche se l’effet - to che provoca sui visitatori non è particolarmente gradevole, visto che si traduce in una serie di sputi di un rosso sangue. Il cammino prosegue verso un altro villaggio, dove si arriva verso le 5 del pomeriggio. Anche questa notte, come le altre, sembra non passare mai, con un pipistrello che sbatte ripetutamente contro le pareti della capanna cercando una via di uscita, un geco gigante con i suoi versi che sembrano uno scherzo di qualche burlone, con qualche colpo di fucile che si ode in lontananza. Il colonnello grassottello, con studi in America, tornato dal suo popolo per combattere per la libertà, si addormenta con una radiolina accesa, come se fosse un dolce carillon. I soldati russano e scatarrano, piove, se continua così per due giorni qualunque possibilità di muoversi viene meno; non esiste una sola strada asfaltata in tutta questa regione e anche quest’an - no la stagione delle piogge sembra arrivare con largo anticipo. Per fortuna la mattina risplende il sole e si può quindi partire per un nuovo villaggio, attraverso sentieri che attraversano torrenti e una natura rigogliosa e generosa, dove banane, ananas e noci di cocco ci accompagnano come se fossero delle aree di sosta di una maratona. È molto faticoso, con continui saliscendi, con attenzione a zone minate, che spesso causano vittime anche a coloro che le hanno posizionate, perché a volte èmolto difficile orientarsi nella giungla, ancheper chiquiènato e cresciuto. Il colonnello è il più affaticato di tutti, ed è buffo vederlo all’arri - vo farsi massaggiare i piedi dai suoi soldati. Teme il mal di piedi, ma non teme, a quanto pare, i birmani, asoli due chilometri dal villaggio. Ci dice che la cena è pronta, ma si avvia, con i soldati, verso uno spiazzo fuori dal villaggio; di fronte il bel paesaggio disegnato dalle colline. In cima a una di queste c’è un campo dell’esercito del regime. Un secchio di riso, le solite sardine e uova sode sono gli ingredienti della cena, da consumare di fronte al nemico, quasi in gesto di sfida; in ogni momento potrebbero colpire, e ciò di certo non aiuta l’appetito. Il profumo del cibopovero che stiamo consumando non si respira, si respira piuttosto un profumodi speranza, verso un futuro di pace per questo paese dei fiori, che per troppo tempo sono cresciuti insanguinati. Lascio i commensali prima della fine, le provocazioninon misono mai piaciute e non mi sono mai sembrate mosse intelligenti ma fortunatamente non succede nulla, né in quel momento né durante la notte. I risvegli sono sempre faticosi. I soldati si preparano a nuovi trasferimenti; si attraversa una zona ricca di carbone, e mi dicono anche che sono molte le vene aurifere in quest’area. Verso il confine Thai stanno nascendo piantagioni di caucciù e di caffè, alla ricerca diunanormalità che qui è straordinaria. Vicino al confine la polizia è tollerante con i Karen, anche perché, come in tutte le zone di confine, anche qui prolifera il commercio, anche se i poveri villaggi Karen non sono certo un mercato interessante secondo i criteri classici dell’econo - mia. Uscire dallo stato Karen è sempre pericoloso; la polizia thailandese potrebbe arrestarti per immigrazione clandestina, aggravata dal fatto che si proviene da una black zone, una zona di guerra. Il giorno seguente entro in Birmania ufficialmente, attraverso il ponte dell’amicizia, inaugurato nel 97, che collega la Thailandia al Myanmar. Mi sequestrano il passaporto, non è possibile pernottare a Myawady, cittadina Karen, controllata dal regime, che ti riporta indietro, nell’Asia degli anni ’50. La Birmania è uno degli ultimi luoghi dove si possono ritrovare la diversità, i costumi, l’indolenza dell’Asia degli anni Cinquanta. È un crudele privilegio che affascina lo straniero, sempre attento a cercare l’insolito e la destinazione difficilmente accessibile, ma che spesso condanna gli abitanti a vite primitive con aspettative di vita molto inferiori alle medie occidentali. Se sia giusto o meno modificare i loro stili di vita sulla falsariga dei nostri è una di quelle domande che affligge sempre il visitatore attento. Ed è la domanda che mi faccio quando sento ansimare il vecchio che mi sta portando al tempio del coccodrillo su un vecchio cyclo, il rick shaw in chiave birmana. Gli dico di fermarsi nel bel mezzo di una salita, mi sembrava crudele, con poco meno di 40 gradi, spingerlo a continuare. IL TEMPIO Iltempioè stato costruito in segno di devozione verso i coccodrilli in una zona paludosa vicino al fiume, dove una volta ne vivevano in abbondanza. Le leggende sono ancora molto diffuse tra i Birmani, ed è agghiacciantesapere che molte famiglie con bambini piccoli stanno allontanandosi dalla città perché è in progetto un nuovo ponte sul fiume Moei; scappano perchè una terribile usanza ritiene che, per garantire stabilità e lunga vita al ponte sia necessario sotterrare teste mozzate di bambini vicino alle fondamenta dello stesso. UnragazzoKaren mivendeacqua di cocco e mi racconta delle sue speranze in San Suu Kyi, rientrata nella vita politica nazionale, dopo 15 anni tra carcere e arresti domiciliari. Le sue immagini sono dietro moltissime bancarelle del mercato, insieme a quelle del padre, il mitico generale Aung San, eroe dell’indipendenza, ritratto in divisa militare in una vecchia fotografia in bianco e nero. Purtroppo Suu Kyi ha solo ottenuto un seggio in un parlamento che di seggi ne conta più di mille e dove la costituzione garantisce ai militariqualunque diritto di veto, attraverso unaquota di rappresentanti che li rende indispensabili in qualunque governo. Bisognerà attendere il 2015 per capire se il Myanmar cambierà davvero, e se questo cambiamento coinciderà con una autodeterminazione delle sue minoranze. Ba Wa ci spera, è cominciato a piovere, le cavallette escono da ogni angolo del villaggio, lui, con il suo fucile a tracolla si prepara a raccoglierle; questa sera nei villaggi Karen la cena si annuncia abbondante.