Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore 11/4/2012, 11 aprile 2012
SORPRESA: NOI I MENO INDEBITATI D’EUROPA
Sarebbe bello... Se l’Italia fosse un paese poco indebitato, quanti problemi potremmo evitare! Sarebbe comunque necessario fare molte riforme, ma senza il peso di quell’enorme esposizione finanziaria, che ci rende poco credibili sui mercati.
L’ironia della sorte è che l’Italia, pur non essendo certo virtuosa, è davvero il paese meno indebitato d’Europa. Meno della Germania, meno della Finlandia, sempre pronte a darci lezioni. Molto meno della Francia, per non parlare degli altri paesi mediterranei in difficoltà; e anche della Gran Bretagna o, allargando gli orizzonti, gli Stati Uniti.
Non è uno scherzo, né un gioco. È proprio così. Non perché come si dice spesso, le famiglie italiane riequilibrano la situazione con la loro ricchezza (un’idea che inevitabilmente evoca lo scenario di nuove imposte patrimoniali). Si può dimostrare il primato italiano tenendo conto delle sole passività. Di tutte, però: di tutti gli impegni che lo stato ha preso con i cittadini.
Il debito trattato sui mercati, quello che ci dà mille grattacapi con lo spread dei suoi rendimenti, non è tutto, infatti. Ogni diritto riconosciuto dallo Stato, per esempio con le pensioni o la sanità, o l’assistenza agli anziani crea un "debito" verso i cittadini, sia pure implicito, entro certi limiti calcolabile. L’unica differenza con l’altro debito, quello esplicito, finanziario, è che il peso di questi impegni nascosti graverà tutto sulle prossime generazioni: un regalo - non molto gradito, c’è da scommetterci - dei padri ai figli, dei nonni ai nipoti.
La cosa in comune tra le due categorie di debito, invece, è che per rimborsare o pagare queste somme bisognerà in ultima istanza fare ricorso alle imposte. L’imperativo della crescita del Pil nominale - e quindi di un incremento bilanciato e stabile di Pil reale e inflazione – diventa quindi ancora più forte. Al punto che, nell’incertezza delle stime, il debito complessivo così calcolato è – oltre che una misura della sostenibilità fiscale del lungo termine dell’attuale legislazione - anche un termometro della necessità di riforme strutturali.
Tutte le analisi finora compiute sugli impegni impliciti - la cosiddetta contabilità generazionale, legata al nome di Laurence Kotlikoff dell’Università di Boston - dicono la stessa cosa: l’Italia, dal punto di vista del debito complessivo, è la migliore in assoluto tra i paesi ricchi. L’ultimo studio, realizzato (in tedesco) da Stefan Moog e Bernd Raffelhüschen e rilanciato e ampliato da un report di Andreas Rees di Unicredit Bank di Monaco di Baviera, mostra che il nostro paese ha impegni impliciti pari al 28% del Pil e complessivi (tenuto conto di quelli ufficiali, finanziari) del 146% del Pil, contro il 193% della Germania, il 338% della Francia e il 549% della Spagna. Grecia e Irlanda superano il 1000% (rispettivamente 1017% e 1497%) mentre il piccolo Lussemburgo, con il suo minidebito finanziario pari al 19% del Pil, a causa anche delle sue dimensioni, è gravato da un peso complessivo che arriva al 1.115% del Pil.
Analisi precedenti, realizzate da Fondo monetario internazionale e dalla Commissione Ue, confermano la posizione privilegiata italiana, anche se il livello del debito implicito così calcolato è molto più alto: è pari al 169% del Pil (che va aggiunto al 118% esplicito)nello studio più completo dell’Fmi, cifra che resta comunque inferiore al 335% della Gran Bretagna e del 495% degli Stati Uniti. Se alle cifre calcolate da Moog e Raffelhüschen si aggiungono poi – attingendo a un’altra fonte, una ricerca di Stephen Cecchetti della Banca dei regolamenti internazionali – anche i debiti privati (relativi allo stesso anno, il 2010), la situazione del nostro paese non cambia: malgrado il forte peso dell’esposizione delle aziende – il 128% del Pil, contro il 100% della Germania – l’Italia conserva il suo primato.
Primato triste, perché scarsamente utile nel breve termine, quando la pressione delle aste di rinnovo di BoT e BTp è fortissima; e non certo univoco nella sua interpretazione. Potrebbe essere, in un contesto più ampio e articolato, un argomento per discutere della qualità della spesa pubblica da una parte, e del nostro welfare state dall’altro. Se l’81% del nostro indebitamento è in gran parte "contingente" e non strutturale, e il restante 19% (il 28% del Pil) è legato a diritti riconosciuti ai cittadini nel lungo periodo, si può tirare un respiro di sollievo sulla sostenibilità fiscale, ma anche porci qualche interrogativo sul ruolo dello stato nell’economia. È anche vero però, come sottolinea Rees, che ha contribuito al buon risultato italiano anche la lunga stagione delle riforme pensionistiche, iniziata nel 1990. Così come è importante aver raggiunto un surplus primario: proiettando nel futuro la spesa collegata all’invecchiamento della popolazione (pensioni, sanità e assistenza), la Francia ha per esempio meno impegni dell’Italia, ma anche un disavanzo primario piuttosto forte. Le stime di Moog e Raffelhüschen sono fatte "a politiche fiscali invariate": presuppongono che le virtù italiane e la prodigalità francese continuino nel tempo. In nulla, quindi, la loro analisi sul nostro paese può suonare come un’"autorizzazione" ad adottare politiche di bilancio meno rigorose.
Implicazioni per la politica economica però ce ne sono, e come. Rees sottolinea così che le nuove regole del fiscal compact hanno messo un po’ sullo sfondo il tema, delicatissimo anche sul piano sociale, dei debiti impliciti, per i quali è difficile ridurre gli obiettivi in un algoritmo. Al di là del richiamo alle riforme strutturali per aumentare la partecipazione al lavoro ed elevare l’età della pensione - ma, c’è da aggiungere, per stimolare la crescita in un sistema, quello europeo, dove sussistono ancora molte sacche di "sclerosi" - Rees ricorda la proposta giunta proprio dal gruppo di economisti che, con Kotlikoff, hanno sviluppato il tema della contabilità generazionale. Come in Svezia, come in Gran Bretagna – è l’idea di Alan J. Auerbach dell’Università di Berkeley, fatta propria anche dall’Ocse – tutti i paesi dovrebbero istituire un organismo indipendente quanto le banche centrali per valutare – e non per decidere, cosa incompatibile con le democrazie rappresentative e non solo – la politica fiscale in tutte le sue implicazioni. È un tema di cui si tornerà a discutere.