Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 10 Martedì calendario

LA MINACCIA CHE NON VEDIAMO

Distratti da altre priorità, rischiamo di non cogliere appieno il significato della visita che Mario Monti compie da ieri al Cairo. Di non vedere, oltre la sua mano tesa, i pericoli che incombono sull’Italia ora che nelle «primavere arabe» si è scatenata una lotta inter-islamica per il potere.
Perché mentre l’Oriente Medio minaccia di infiammarsi attorno alle mattanze siriane (mille morti nell’ultima settimana e tregua in alto mare), sulla nostra porta di casa il Mediterraneo che si voleva promesso alla democrazia scivola verso uno «scontro di civiltà» tra Nord e Sud come quello profetizzato da Samuel Huntington. E l’Italia, in tale sciagurata ipotesi, verrebbe a trovarsi in primissima fila, esposta a nuove ondate migratorie ma anche alla vicinanza di islamismi radicali non privi di venature jihadiste.
Soltanto la disattenzione o un certo diffuso buonismo diplomatico possono far considerare eccessiva una simile premessa.
La Libia uscita dalla guerra Nato contro Gheddafi, più che verso la democrazia, sembra marciare spedita verso una turbolenta frammentazione. A controllare il territorio sono le milizie armate rimaste padrone del campo, il tempo delle vendette ha meritato l’aspra denuncia di Amnesty International e il Consiglio transitorio di Tripoli fatica a contenere le spinte autonomiste della Cirenaica (con il suo petrolio) e del Fezzan (con il suo uranio). Si discute di elezioni e di nuova Costituzione, ma arrivare a una struttura federale sarebbe già un ottimo risultato. E nelle pieghe di una evoluzione tanto contraria ai nostri interessi (anche se quello energetico è stato messo al riparo) sono all’ordine del giorno le infiltrazioni dell’islamismo radicale, lo stesso che nel vicino Mali si è associato ai Tuareg e ha creato l’ennesima roccaforte dei jihadisti nel Sahel.
In Tunisia sono gli islamici moderati di Ennahda ad avere per ora le mani sul timone, e lo si è visto con il rifiuto di adottare la sharia come fonte di diritto nella nuova Costituzione. Ma quel che spaventa è la crescita prepotente dei salafiti, il loro reclutamento sistematico nelle università, il continuo arrivo di predicatori estremisti provenienti dall’Arabia Saudita. Le paure espresse dalla comunità cristiana di Tunisi appaiono fondate e vengono condivise da molti islamici fedeli alla tradizionale laicità tunisina.
E soprattutto, ad orientare questo barometro «primaverile» che annuncia tempesta, c’è la sfida egiziana che ha nei Fratelli Musulmani i suoi indiscussi protagonisti. Inizialmente estranei alle pulsioni libertarie di piazza Tahrir e propensi a trovare accordi tattici con gli odiati militari del dopo-Mubarak, i Fratelli hanno «dovuto» (così assicurano) cambiare strategia dopo il responso delle elezioni parlamentari: oltre il sessanta per cento dei suffragi sono andati ai due partiti islamici, con la vera sorpresa rappresentata dal successo della formazione salafita al-Nur. Da quel momento, incalzati dalla rivalità degli islamici estremisti, i Fratelli Musulmani si sono mossi per occupare tutte le cariche a disposizione. Dal Parlamento alla Commissione Costituente (dalla quale si sono dimessi per protesta persino i sunniti di al-Azhar) e ora, sperano, alla presidenza che fu di Mubarak.
Il primo turno delle elezioni si terrà il 23-24 maggio, e la competizione è durissima. I fratelli giocano la carta del miliardario Khairat al-Shater, i salafiti rispondono (se non sarà escluso per una presunta madre americana) con l’ultra-radicale Hazem Abu Ismail, i militari hanno gettato nella mischia l’ex capo dei servizi Omar Suleiman, i moderati sperano ancora in Amr Moussa o in mancanza di meglio nell’ex Fratello (espulso per eccessivo riformismo) Abul Fotouh.
Cosa si nasconde, dietro questa corsa alle urne in sé positiva? Si nasconde, ma è già visibile, un Egitto in bilico tra i Fratelli Musulmani (ieri temutissimi, oggi considerati il male minore) e i loro avversari ultra-radicali del partito salafita, anti-occidentale e deciso a stracciare il trattato di pace con Israele. E’ ancora possibile che dopo le elezioni i Fratelli concludano un «compromesso storico» con i militari, ma la tendenza a occupare tutti i centri di potere e a concentrarsi sulla concorrenza dei salafiti rende progressivamente più probabile uno scontro frontale dalle incalcolabili conseguenze. E contemporaneamente, assumendosi responsabilità di guida politica, la Fratellanza Musulmana si espone alla facile critica dei più estremi tra gli islamisti. Da destra o da sinistra, insomma, rischiano di crearsi le condizioni per una nuova rivolta che i salafiti hanno buone possibilità di fomentare e di cavalcare.
Tanto più concreto appare questo pericolo se si pensa allo stato dell’economia egiziana: la richiesta di lavoro che saliva da piazza Tahrir è rimasta inascoltata, il turismo è crollato, le finanze pubbliche sono allo stremo. E il dissesto (altro bonus per gli estremisti) coincide con la crisi economico-finanziaria dell’Occidente, che non può promettere né grandi aiuti né grandi investimenti.
Che fare, allora, se non vogliamo rischiare di trovarci immersi in un Mediterraneo islamista? Inserire la sorte delle «primavere» tra le nostre priorità strategiche e mantenere ogni possibile dialogo con le parti (bene ha fatto Monti a compiere in Egitto un ampio giro d’orizzonte), intensificare il coordinamento con l’America anche al di là della terribile urgenza siriana, ma anche coinvolgere in un piano di aiuti le residue risorse di Bruxelles spiegando all’Europa che l’Egitto e i Paesi vicini non sono «un problema del Sud».
Franco Venturini