Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 08 Domenica calendario

Le vere parole di Levi - Sono passati 25 anni da quando Primo Levi fu trovato morto nella tromba delle scale della sua casa torinese, l’11 aprile del 1987

Le vere parole di Levi - Sono passati 25 anni da quando Primo Levi fu trovato morto nella tromba delle scale della sua casa torinese, l’11 aprile del 1987. Per i 25 anni sono molte le iniziative per ricordare la figura e l’opera dello scrittore. Dai convegni (a Parigi, l’11), agli incontri (tra cui Modena), le letture pubbliche e le riedizioni. Un programma aggiornato si può trovare sul sito del Centro internazionale di Studi Primo Levi. www.primolevi.it «Ogni straniero è nemico». Primo Levi riporta questa frase perentoria – mettendola tra virgolette – nella prefazione del suo libro più celebre, Se questo è un uomo, avvertendo il lettore che quando un tale «dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager». Uomo attento, scrittore attento alle sfumature, Levi aveva molti buoni motivi per diffidare dei sillogismi e della loro logica tranciante. Per ironia della storia, gliene è stato attribuito uno particolarmente insidioso, che si sviluppa così: «Ognuno è l’ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele». Se si cerca su Google il primo membro della frase si ottengono circa 426.000 occorrenze. Se si cerca la frase completa (il sillogismo ebrei-palestinesi-israeliani) e le si aggiunge il nome Primo Levi, i risultati sono 25.800: quanto basta per creare una tenace leggenda metropolitana, della quale Peppino Ortoleva ha descritto lo sviluppo. Nell’aprile 1982 Primo Levi pubblicava il suo primo romanzo; s’intitolava Se non ora, quando? e raccontava le avventure di una banda di partigiani ebrei russi, impegnati a combattere il nemico nazista in lungo e in largo per l’Europa. Nel testo ci s’imbatte in questa frase: «Perché? Perché ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi». A leggerla può sembrare una frase (un sillogismo) dalla struttura parlata, ma in realtà è una frase pensata: uno spezzone dei pensieri che attraversano la mente di Mendel l’orologiaio, uno dei protagonisti del romanzo e anzi la sua voce narrante. A ricopiare la frase così com’è, virgole comprese, e a cercarla a sua volta su Google, le occorrenze sono appena 84. Ricopiare è difficile, e il risultato di 84 contro 25.800 ci dice fino a che punto la moneta verbale cattiva sia capace di scacciare la buona. Però, non ci dice ancora come faccia a scacciarla, quali strade percorrano le parole inventate, falsificate, distorte. Il Centro internazionale di studi Primo Levi (www.primolevi.it) – che ha sede a Torino e al quale collaborano i due autori di questo articolo – ha ricevuto negli ultimi due anni svariate segnalazioni dello pseudosillogismo di Primo Levi. A seguirne le tracce sul web, ci s’imbatte in una data: 1969, anno in cui Levi avrebbe formulato l’equivalenza storica palestinesi-ebrei allorché firmò un manifesto intitolato Le forche di Bagdad e la questione israeliana («Resistenza», a. XXIII, n. 2, febbraio 1969; il testo non è finora censito in nessuna bibliografia). Si trattava di un appello di «ebrei torinesi, aderenti o vicini ai movimenti di sinistra», critici sia verso i regimi liberticidi del mondo arabo sia verso la politica militare del Governo di Israele: ebrei laici che chiedevano, a Israele e ai palestinesi, un «accordo concreto fondato sul riconoscimento reciproco del diritto all’esistenza nazionale e autonoma». Del resto, è proprio tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo che la società civile italiana sembra accorgersi per la prima volta della questione palestinese: il che spiega, in parte, la data più remota – 1969, appunto – cui si fa risalire la frase attribuita a Levi, frase di cui non c’è traccia nell’appello appena citato. Tantomeno la troveremo in appelli successivi dello stesso tenore, come quello di cui dà notizia «l’Unità» del 3 giugno 1976, che Levi sottoscrisse con Giorgio Bassani, Luciano Berio, Ignazio Silone e il senatore comunista Umberto Terracini. Il 1982, l’anno di Se non ora, quando?, sarebbe stato per Levi il più propizio per pronunciare una frase del genere: se l’avesse pensata, naturalmente. L’occasione avrebbe potuto essere l’invasione del Libano, decisa dal premier israeliano Begin il 6 giugno 1982. E in effetti, il 16 giugno, compariva su «la Repubblica» un ennesimo e più allarmato appello dal titolo «Perché Israele si ritiri», firmato da otto intellettuali «democratici ed ebrei». Figuravano fra loro tre scrittori: Edith Bruck, Natalia Ginzburg e Primo Levi: «Coloro che in altri momenti hanno tremato per la minacciata distruzione dello Stato di Israele debbono oggi trovare il coraggio e la forza di opporsi alla politica del Governo Begin e a tutto ciò che rappresenta per i destini democratici dello stato di Israele e per la prospettiva di una convivenza pacifica con il popolo palestinese». Ancora una volta, nessuna traccia della frase famosa. Primo Levi era, in quella stessa primavera 1982 dell’invasione israeliana in Libano, l’autore di un romanzo epico dove gli ebrei si mostravano armi in pugno: pistole, bombe, fucili mitragliatori oltre che violini per passare il tempo e orologi da aggiustare con mano salda e sottile. Nelle molte interviste rilasciate su Se non ora, quando? tra la primavera e l’autunno, Levi dovette rispondere a parecchie domande di attualità. A cominciare da quelle con cui Alberto Stabile («la Repubblica», 28 giugno) aprì la conversazione: «Perché alcuni ebrei italiani oggi identificano il dramma palestinese con le persecuzioni da loro subite quarant’anni fa?» Risponde Levi: «Non solo ebrei, anche molti non ebrei lo fanno. Qualche analogia c’è. Io non vorrei spingere le cose troppo oltre, ma le analogie mi sembrano essenzialmente queste. Si tratta di una "Nazione", chiamiamola così tra virgolette, perché nel mondo arabo le cose sono sempre difficilmente definibili, che si è trovata senza Paese. E questo è un punto di contatto con gli ebrei. Esiste una diaspora palestinese recente che ha qualcosa in comune con la diaspora ebraica di duemila anni fa. E l’analogia non può andare molto oltre, a mio parere». «Due popoli vittime…» rilancia Stabile. E Levi: «Vittime di vicini troppo potenti. Tuttavia rifiuto di assimilare quella che Hitler chiamava la soluzione finale con le cose pur violente e pur terribili che fanno gli israeliani oggi. Non esiste un piano di sterminio del popolo palestinese. Questo è andare troppo oltre». Il 1982, dunque, è anche l’anno in cui Levi smentisce la possibilità di formulare il sillogismo da cui siamo partiti. E risposte come questa si leggono in altre sue interviste di allora. Eppure, il 1982 è anche l’anno cui viene fatta risalire la pseudo-frase di Levi in un autorevole saggio di Joan Acocella: A hard case. The life and death of Primo Levi, nel «New Yorker» del 17-24 giugno 2002. Acocella vi cita un’intervista di Levi «to an Italian newspaper», che risalirebbe appunto al 1982. Ecco la frase così come suona nel testo inglese: «Everybody is somebody’s Jew, and today the Palestinians are the Jews of the Israelis». Di quale articolo italiano si trattasse lo ha rivelato la tesi di laurea di Marta Brachini su «Israele e l’ebraismo in due giornali della sinistra: "l’Unità" e "il manifesto" (1982-1993)». Benché Brachini dati quell’articolo al 1987, non è stato difficile rintracciarlo. Non è un’intervista bensì una recensione – molto elogiativa – di Se non ora, quando? La data è il 29 giugno 1982, la testata «il manifesto», il titolo Quando la stella di David era la bandiera dei perseguitati, l’autore Filippo Gentiloni. Il quale trascrive bensì correttamente la frase del romanzo: «Ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi». E chiude, correttamente, le virgolette, per poi aggiungere, di suo: «E oggi i palestinesi sono gli ebrei degli israeliani». Nell’articolo di Acocella, quelle virgolette che separano i fatti del romanzo dalle opinioni del recensore sono saltate: svista sufficiente per attribuire a Primo Levi un sillogismo che circola da anni – 25.800 occorrenze – sul web, e che peraltro corrisponde a una tesi politica circolante a sua volta da decenni, fra commentatori non ebrei o anche ebrei. Circolante sì, ma non certo negli scritti e nei detti di Primo Levi, che esplicitamente la rifiuta. Solo un concorso di casi fortunati ha permesso al Centro studi Primo Levi di ritrovare (cosa rarissima) l’origine probabile di questa falsificazione. Morale: a venticinque anni dalla sua scomparsa, pare si faccia ancora fatica, nel web e fuori, a leggere correttamente una delle prime frasi di Se questo è un uomo: quella, appunto, dove si rifiutano i sillogismi contundenti. Una buona occasione per rileggere, oggi, tutto il libro, e tutto il resto. Domenico Scarpa e Irene Soave