Roberto Bolaño, la Repubblica 7/4/2012, 7 aprile 2012
In termini per così dire genealogici, la mia famiglia paterna si trascinava dietro almeno cinquecento anni di analfabetismo costante e rigoroso, mentre quella materna se ne trascinava dietro trecento d’indolenza, altrettanto costante e rigorosa
In termini per così dire genealogici, la mia famiglia paterna si trascinava dietro almeno cinquecento anni di analfabetismo costante e rigoroso, mentre quella materna se ne trascinava dietro trecento d’indolenza, altrettanto costante e rigorosa. In questo senso, sono la pecora nera della famiglia. Avrebbero preferito che facessi qualsiasi altra cosa, suppongo. E in effetti, con l’esperienza che ho adesso, a cinquant’anni, nemmeno a me piacerebbe che mio figlio facesse lo scrittore. Non dico che debba portare avanti i cinquecento anni di analfabetismo, ma almeno i trecento d’indolenza... È abbastanza dura fare lo scrittore, anche se, be’, non bisogna nemmeno esagerare. Mia madre leggeva qualche libro, mio padre di tanto in tanto leggeva dei romanzetti di cowboy. Li leggeva perché non c’era la televisione, erano quei western di formato molto ridotto che entravano nella tasca di dietro dei pantaloni. Mia madre leggeva di più, ma se mi fossi formato sui gusti di mia madre adesso sarei una specie di Marcelo Serrano o d’Isabelo Allende, e forse sarebbe meglio, perché invece di conoscere i tormenti dello scrittore avrei conosciuto i piaceri della pecunia e come prospettiva non è niente male. Ero un bambino, un adolescente molto sensibile. Mio padre non ha fatto solo il camionista: è stato anche campione dei pesi massimi del Cile meridionale come pugile professionista. Davanti a quell’uomo non avevi scelta: o eri più forte di lui o passavi direttamente all’omosessualità. Se fosse dipeso da me, sarei passato direttamente all’omosessualità, che mi sembra un magnifico sbocco estetico, ma non era nella mia natura, sono eterosessuale. A quel punto mi restavano solo il cinema e i libri, e in sostanza da bambino mi sono dedicato a guardare un sacco di film e a leggere un sacco di libri, e a cercare di uccidere mio padre, è chiaro. Mio padre, naturalmente, mi ha sempre voluto un gran bene, come ogni padre. Ora mio figlio cerca di ammazzare me. E io sono il primo a dirgli: ammazzami, figliolo, ecco qua il collo. È come la storiella della madre ebrea: il figlio, in una notte di follia, le taglia la testa, poi fugge e inciampa, e appena inciampa, la testa della madre che lui stringe ancora in mano gli dice: figliolo, ti sei fatto male? L’amore di un padre per il figlio è uguale, e io suppongo che mio padre, nella sua brutalità e nel suo coraggio, perché è un uomo molto coraggioso, mi volesse bene come io voglio bene a mio figlio. In realtà, uno potrebbe parlare per ore dei rapporti fra padre e figlio. L’unica cosa certa è che un padre deve essere disposto a farsi sputare in faccia ogni volta che vuole il figlio. E anche così non pagherà nemmeno la decima parte di quello che dovrebbe pagare, perché il figlio non gli ha chiesto di nascere. Se hai messo al mondo un ragazzino, il minimo che puoi fare è sopportare qualsiasi suo insulto. Il Messico Mia madre è sempre stata molto irrequieta. E convinse mio padre che era meglio lasciare il Cile e trasferirsi in Messico. I miei genitori fino ad allora non avevano fatto altro che separarsi e rimettersi insieme. Avevano avuto un rapporto molto tormentato per tutta la mia infanzia, e il Messico in un certo senso rappresentava un piccolo paradiso, un posto dove ricominciare da capo. All’inizio per loro fu molto divertente, ma per me non lo fu affatto. La prima cosa che mi successe, il primo giorno di scuola in Messico, fu che un compagno decise di picchiarmi, senza che avessimo scambiato mezza parola, solo perché ero cileno. Era un ragazzo messicano, per di più piccoletto e nemmeno tanto bravo a fare a botte. Ero sicuro che con due cazzotti lo avrei steso, ma mi resi conto che se lo stendevo dopo di lui sarebbero arrivati tutti gli altri, e allora fui molto intelligente: afferrai immediatamente la situazione e puntai al pareggio. Così feci bella figura, il ragazzo divenne mio grande amico e nessuno volle più picchiarmi, fu una specie di battesimo in stile azteco, abbastanza sgradevole, ma per fortuna mi resi conto di come funzionavano le cose, di qual era il messaggio nascosto in quell’aggressione. La politica Sono sempre stato di sinistra e non sarei certo passato alla destra solo perché non mi piacevano i chierici comunisti, così diventai trotzkista. Il problema è che anche dopo, quando mi ritrovai fra i trotzkisti, non mi piaceva l’unanimità clericale dei trotzkisti e finii per diventare anarchico. Ero l’unico anarchico che conoscevo, grazie a Dio, perché in caso contrario avrei smesso di essere anarchico. L’unanimità mi fa incazzare. Quando vedo che tutti sono d’accordo su qualcosa, quando vedo che tutti lanciano in coro un anatema contro qualcosa, sento un non so che a fior di pelle che mi dà il rigetto. Probabilmente sono traumi infantili, non è una cosa di cui vado orgoglioso. Allende in quegli anni ci appariva abbastanza conservatore. È che per me la sua figura è cambiata moltissimo nel tempo. Ricordo l’11 settembre: stavo aspettando che mi dessero un’arma per andare a combattere quando sento che Allende nel suo discorso dice o quasi, fra le righe: tornatea casa, passerà il tempoe un giorno si apriranno di nuovo i grandi viali su cui camminerà l’uomo libero. In quel momento mi sembrò terribile, quasi un tradimento nei confronti di noi giovani che eravamo prontia lottare per lui. Negli anni, invece, questa è una delle cose che hanno nobilitato la sua figura: Allende voleva evitare la nostra morte, accettava la morte per sé ma voleva evitarla a noi. Credo che questo l’abbia reso immensamente grande. La scrittura A me, a vent’anni, più che scrivere poesia, perDISEGNO DI TULLIO PERICOLI ché scrivevo anche poesia ( i n r e a l t à scrivevo solo poesia), quello che mi interessava, quello che davvero volevo, era vivere da poeta, anche se adesso non saprei dirti cosa significasse, per me, vivere da poeta. Per me, essere un poeta voleva dire, allo stesso tempo, essere rivoluzionario e restare completamente aperto a qualsiasi manifestazione culturale, a qualsiasi espressione sessuale, insomma aperto a tutto, a qualsiasi esperienza con le droghe. Era una tolleranza... Più che tolleranza, parola che non ci piaceva molto, era una fratellanza universale, una cosa totalmente utopica. La prosa ha sempre richiesto più lavoro. Noi eravamo contro il lavoro. Eravamo instancabilmente pigri. Nessuno riusciva a farci lavorare, io lavoravo solo quando non mi restava altra scelta. Accettavamo di vivere con pochissimo. Non avendo mezzi, eravamo molto spartani, ma al tempo stesso eravamo ateniesie sodomiti perché ci godevamo i piaceri della vita, eravamo poveri ma lussuriosi. Era tutto legato al modello statunitense degli hippy, al maggio del ’68 in Europa, insomma a tante cose. Gli autori di riferimento Credo che ogni autore che scrive in spagnolo sentao dovrebbe sentire l’influenza di Cervantes. In misura maggiore o minore siamo tutti debitori di Cervantes, gli dobbiamo tutti qualcosa. Stavolta, però, la genealogia è diversa. La letteratura nazista in America è un libro che deve moltissimo alla Sinagoga degli iconoclasti, di Rodolfo Wilcock, che pur essendo uno scrittore argentino quel libro lo scrisse in italiano. Wilcock è uno scrittore eccezionale, grandissimo. Uno scrittore che da quando è morto ha conosciuto una continua crescita. La sinagoga degli iconoclasti deve a sua volta moltissimo alla Storia universale dell’infamia di Borges, cosa per niente strana perché Wilcock fu amico e ammiratore di Borges. A sua volta, la Storia universale dell’infamia di Borges deve molto a uno dei maestri di Borges, cioè Alfonso Reyes, lo scrittore messicano che ha un libro intitolato Retratos reales e imaginarios - almeno credo, ormai ho una memoria pessima- un vero gioiello. Il libro di Alfonso Reyes devea sua volta moltoa Vite immaginarie, di Marcel Schwob, che è l’inizio di tutto. Ma, a sua volta, Vite immaginarie deve molto alla metodologia degli enciclopedisti e al loro modo di servire certe biografie su un piatto d’argento. Credo che siano questi gli zii, i genitori e i padrini del mio libro, che è senza dubbio il peggiore di tutti, ma ormai è lì. La critica Per me, la critica letteraria è un settore della letteratura. La letteratura è prosa, romanzo e racconto, drammaturgia, poesiae anche saggioe critica letteraria. E credo che, soprattutto nei nostri paesi, ci sia un estremo bisogno di una critica non casuale, non quella da dieci righe su un autore che probabilmente il critico non leggerà mai più; in altre parole, c’è bisogno di una critica che pian piano ricomponga il paesaggio della letteratura. La critica la vedo come creazione letteraria, non solo come il ponte che unisce lo scrittore al lettore. Se il critico letterario non si considera un lettore, butta tutto alle ortiche. La cosa interessante del critico letterario, ed è lì che chiedo creatività alla critica letteraria, creatività a tutti i livelli, è che si consideri un lettore, e un lettore endemico, capace di discutere una lettura, di proporre diverse interpretazioni, insomma di produrre qualcosa di completamente diverso da quello che è di solito la critica, e cioè una specie di esegesi o diatriba. Per me un critico importante è Harold Bloom, anche se in genere non sono d’accordo con lui e mi fa arrabbiare, benché mi piaccia leggerlo. Un altro è Steiner: i francesi hanno una lunghissima tradizione di critici e saggisti molto creativi che sono davvero bravi e illuminano non solo un’opera ma tutta un’epoca letteraria, a volte commettendo errori tragici, certo, ma anche noi narratori, noi scrittori, commettiamo errori. I silenzi letterari Sì, ci sono silenzi letterari. Il silenzio di Kafka, per esempio, un silenzio che non ci fu. Quando chiede che brucino le sue carte, Kafka opta per il silenzio, opta per un silenzio letterario, tutto in lui era letterario. In altre parole, era assolutamente morale. Le opere di Kafka, oltre a essere le migliori, le più alte del ventesimo secolo, sono di una moralità e di una delicatezza estreme, due cose che di solito non viaggiano assieme. Il silenzio di Rulfo penso che obbedisca a una cosa talmente quotidiana che è inutile spiegarla. Ci sono varie versioni. Una che raccontava Monterroso è che Rulfo aveva uno zio Pinco Pallino che gli raccontava storie e quando gli domandarono perché non scriveva più, lui rispose perché è morto lo zio Pinco Pallino. E io ci credo. Un’altra spiegazione è semplicissima, ed è perché aveva chiuso con la scrittura, tutto ha una data di scadenza. Da parte mia, trovo molto più inquietante il silenzio di Rimbaud del silenzio rulfiano. Rulfo smette di scrivere perché ha già scritto tutto quello che voleva scrivere ed essendo incapace di scrivere qualcosa di meglio, smette e basta. Rimbaud probabilmente avrebbe potuto scrivere qualcosa di molto meglio, che non è poco, e quello è un silenzio che pone delle domande a noi occidentali. Il silenzio di Rulfo non pone domande, è un silenzio intimo, quotidiano. Dopo il dessert, che cazzo vuoi mangiare? C’è un terzo silenzio letterario, che è quello non cercato, quello delle ombre che stavano senza dubbio sulla soglia ma non sono mai arrivate a materializzarsi. Per esempio, c’è il silenzio di Georg Büchner. Büchner muore a venticinque anni, o forse a ventiquattro, lascia tre o quattro opere di teatro che sono tutte dei capolavori, fra cui Woyzeck, un capolavoro assoluto, un’altra sulla morte di Danton, grandissima, non un capolavoro assoluto ma notevolissima, e poi altre due, una si intitola Leonce e Lena, l’altra non ricordo, entrambe di fondamentale importanza. Tutto questo prima di compiere venticinque anni. Che cosa sarebbe successo se Büchner non fosse morto, che scrittore avremmo avuto? Questo silenzio non cercatoè il silenzio di... non mi azzardo a chiamarlo destino; è una manifestazione d’impotenza. Il silenzio della morte è il peggiore di tutti i silenzi, perché il silenzio di Rulfo è un silenzio accettato e quello di Rimbaud è un silenzio cercato, ma il silenzio della morte tronca di netto ciò che avrebbe potuto essere e non sarà mai, ciò che non sapremo mai. Non sapremo mai se Büchner sarebbe diventato più grande di Goethe oppure no; io credo di sì, ma non lo sapremo mai. Non sapremo mai che cosa avrebbe potuto scrivere Büchner a trent’anni. E questo si allarga sulla terra come una macchia, come una malattia atroce che in un modo o nell’altro mette in scacco le nostre abitudini, le nostre più radicate certezze. © Melville House Publishing - © SUR, 2012 Tutti i diritti riservati Testo tratto dall’intervista di Eliseo Álvarez (Traduzione di Ilide Carmignani)