Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 7/4/2012, 7 aprile 2012
ROMANZI IN VIVA VOCE
ROMANZI IN VIVA VOCE –
Il meccanismo è preciso, e potrebbe anche apparire stucchevole nella sua inesorabilità: non appena si capisce che il mondo sta andando in una certa direzione, subito si avverte una controspinta in direzione opposta. Il global ha pressoché prodotto il local; industria e mercificazione causano pulsioni all’ecologia e al bio; la moltiplicazione dell’offerta mediale è stata concomitante all’esplosione dei festival e a una certa nuova centralità del teatro "live"; la prodigiosa fioritura di tecnologia musicale ha anche implicato la nascita dell’"unplugged" e un revival di strumenti che parevano consegnati alla tradizione o alle nicchie del folk, come il banjo o il fagotto. Il paradosso è solo apparente. È evidente che i nostri bisnonni, privi di auto e moto, non avevano bisogno di fare corsette mattutinee dare anche un nome esotico e prestigioso come «jogging» a tale attività: solo andando in auto si avverte cosa si perde a non camminare.
I giornali titolano allora al «ritorno» e ogni giorno «ritorna» qualcosa che generalmente non se n’era andato davvero mai, il pane nero, il cinema muto, l’ukulele o le bretelle. Il sentimento della nostalgia è superficiale anche quando è sintomatico. Ma dietro quel tipo di ritorno ce n’è sempre uno molto più imponente: il ritorno del rimosso. Qualcosa del genere pare sia accaduto anche a un elemento che è (se è possibile) ancora più «naturale» dell’andare a piedi: la voce. Nell’oscillazione oramai continua fra oralità e scrittura, la Rete, gli sms, i tweet, i post sembravano avere spostato il baricentro verso la scrittura. Invece ci ritroviamo tutti come nel quadro fine ’800 di Louis Katzenstein I fratelli Grimm dalla narratrice di fiabe. Ne parla Sabria David in un intervento sulla fiaba (ospitato dal sito del Goethe Institut): il quadro ritrae i due fratelli che trascrivono il racconto di una filatrice e il passaggio dalla narrazione orale a quella scritta è rappresentato anche da elementi simbolici (un orologio sta per lo scorrere del tempo e quindi il passaggio delle generazioni; un corvo sta per l’elemento magico nella fiaba).
Mettiamoci in ascolto. In Gran Bretagna stanno avendo grande successo le letture pubbliche ad alta voce (per esempio di libri di Dickens) promosse dall’associazione the Reader Organization. Anche l’e.learning sembra avvantaggiarsi della trasmissione non di testi scritti ma di lezioni riprese, come nelle videoconferenze di TED o nelle lezioni italiane di Oilproject. Intanto, si è già notato come l’avvio del business dell’e-book si sia accompagnato a un improvviso incremento e sviluppo del mercato degli audiolibri. In Italia, a differenza che altrove, questi ultimi sono sempre andati maluccio; il settore oggi arriva a incuriosire anche un personaggio dello spettacolo come Nanni Moretti, che ha appena pubblicato la sua lettura dei Sillabari di Goffredo Parise (per Emons Audiolibri).
Si moltiplicano inoltre le occasioni radiofoniche (RadioTre), teatrali (Benni, Baricco) e televisive. Fabio Fazio, da quando ha scoperto in Roberto Saviano un monologhista, insiste meritoriamente, per esempio con Erri De Luca e, in ultimo, con Favino, Gifuni e Mastandrea.
In gioco ci sono due elementi, che non sempre è facile tenere distinti. La condivisione della lettura è il primo, e ha un chiaro impatto non solo affettivo ma anche (si può dire) politico. Stare assieme per sentire, capire, assumere parole; dare alla cultura e alla conoscenza la possibilità di essere condivise magari anche senza mediazioni, convivialmente e in praesentia, come il cibo, o l’amore, o il lutto. Il secondo elemento è proprio la voce. Alta, aspra, bassa, bianca, calda, chiara, cupa, delicata, distesa, dura, ferma, forte, limpida, liquida, metallica, mielosa, pastosa, piena, profonda, rotta, scura, secca, velata: descriverla non ci è facile, ci richiede il più delle volte di rivolgerci ad altre sensazioni. È vero quello che dice Walter J.
Ong: che parlare delle culture senza scrittura o delle tradizioni popolare come di «letteratura orale» equivale a descrivere i cavalli come se fossero delle automobili senza ruote. Eppure è proprio quel che capita nell’epoca in cui la voce serve anche per dare comandi ai macchinari, ricevendone in cambio le risposte dei sintetizzatori vocali, quelle sillabe non più storte e secche, come il ramo di Eugenio Montale, ma diritte, fredde e translucide, come un tubo di alluminio. La voceè il primo oggetto della nostra conoscenza intrauterina, la prima notizia che giunge dall’esterno e che anzi fonda l’esperienza stessa di un esterno. Annuncio dell’aldiqua, ma anche di ogni possibile aldilà.
Gli spiriti vengono, si dice così, evocati. Ma c’è anche il mondo oltre la ragione, nelle voci sentite dai malati di mente o nei bisbigli che compongono il tappeto sonoro che tormenta il personaggio di Roberto Benigni nella Voce della Luna di Federico Fellini (dal Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni).
C’è il mondo letterario, in quelle voci molteplici che costituiscono un fondamentale espediente narrativo per Stephen King. C’è il mistero delle voci che raggiungono la coscienza dei comatosi: Hable con ella, invita Pedro Almodóvar. A pensarci, non è un medium. La voce ci attraversa e siamo noi a funzionare da medium per lei.
Gli italofoni hanno avuto la fortuna che si siano espressi nella loro lingua due massimi artisti della vocee del canto (per virtuosismo tecnico, ma non solo): Carmelo Bene e Demetrio Stratos. Delle due, sarebbe bastata una phoné per fare la fortuna di una koinè. Anche senza poter tornare a quelle altezze è già consigliabile, quando si è da soli o comunque non si è imbarazzati, leggere ad alta voce brani letterari, cercando di fare le giuste pause e dare le giuste intonazioni: lo stile in cui sono scritti esce in modo molto più netto. In Rete ci sono siti che raccolgono brevi video, dove lettori declamano poesie amate. Si trova anche un incantevole film di cinque minuti che associa semplicemente immagini ben scelte e meravigliosamente fotografate a parole tratte da un manuale di pronuncia i n g l e s e ( T e n u j i n D o r a n , Vowels ): un’idea da nulla, che per come è realizzata pare però l’appendice linguistica di The Tree of Life di Terrence Malick.
Detto, il testo accade: prende tempo e volume, disegnando attorno a sé lo spazio in cui lo si può udire. Vittorio Sermonti racconta che, agli albori del suo progetto radiofonico sulla Commedia di Dante Alighieri, chiese sostegno all’eminente critico Gianfranco Contini. Prima di decidere se appoggiare Sermonti e consigliarlo sul testo dantesco, Contini gli chiese: «Me lo foni». Sermonti, bravissimo, passò la prova. Il verbo fonare, solo casualmente egualea quello degli shampooisti e delle shampooiste, è del tutto sconosciuto ai vocabolari. In effetti non abbiamo modo di nominare in una sola parola l’azione di leggere a voce alta, così come si esegue uno spartito musicale. È una lacuna della lingua a cui occorrerà porre rimedio, magari accettando l’invenzione di Contini, se le letture pubbliche «live» o registrate diventeranno, come sembra, un’abitudine. Oltretutto l’equivoco lessicale del «fonare» è felice: si tratta anche in quest’altro caso di qualcosa che - benefico, impalpabile e caldo - raggiunge la nostra testa.