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 2012  aprile 07 Sabato calendario

I ragazzi che cercarono il professor Caffè – Un mercoledì mattina Federico Caffè scomparve di casa con la discrezione che lo aveva accompagnato per tutta la vita

I ragazzi che cercarono il professor Caffè – Un mercoledì mattina Federico Caffè scomparve di casa con la discrezione che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Saranno state le sette quando mi arrivò la telefonata di suo fratello minore Alfonso, anche lui celibe e professore, con cui conviveva. Mi disse «Vinicio (così lo chiamavano in famiglia) è scappato di casa». Ci misi pochi minuti a raggiungere la loro casa di via Cadlolo, dove trovai i suoi nipoti e Nicola Acocella, uno dei suoi allievi che più si era preso cura di lui nelle ultime settimane. Non sapevamo che cosa attenderci: la sua fuga sarebbe stata di breve durata come quella di un adolescente o avrebbe preso una piega ben più tragica? La domenica prima ero andato a trovarlo a casa. Da tre mesi, Caffè era stato preso da una profonda crisi depressiva e non andava più, come aveva sempre fatto, tutti i giorni in facoltà. Negli anni in cui frequentai l’Università, dal 1976 al 1982, è stato l’amico più vicino, nonostante fossi quasi mezzo secolo più giovane. Come altri affezionati allievi che avevano saputo della sua depressione, cercavo di aiutarlo passando qualche ora nel suo studiolo. La mia amicizia con Caffè è iniziata ben prima che nascessi: mio padre era il suo migliore e forse unico amico, e lui fu il testimone di nozze dei miei genitori. Era un uomo assai riservato e sin da bambino ho pensato che fosse la sua statura - era alto un metro e mezzo - a renderlo così schivo. Celibe, era generosissimo coni figli dei suoi amici: solo pochi mesi fa sono venuto a sapere che gli stessi giocattoli che ci faceva pervenire negli anni Sessanta giungevano anche ai figlioli del suo amico Paolo Sylos Labini e chissà a quanti altri. Unico tra i miei fratelli, mi iscrissi a economia e commercio, la facoltà nella quale lui passava dodici ore al giorno. Scoprii in quel frangente che l’uomo riservatissimo che avevo conosciuto si trasformava dietro la cattedra e tramite l’eloquio, sempre sostenuto da un sano pragmatismo di mai ripudiata marca abbruzzese, riuscivaa persuadere e, soprattutto, ad accendere la curiosità. Mi accorsi presto che ero stato arruolato nella confraternita dei suoi allievi che, senza bisogno di riti iniziatici, si ispirava ai valori coltivati dal Maestro: rigore e sobrietà. Per sopraggiunti limiti di età, Caffè aveva da pochi mesi smesso di insegnare, riportandone un tracollo emotivo. Il circolo di persone che gli era più vicino ne era rimasto sorpreso: come era possibile che lui, l’uomo che aveva sempre sostenuto tuttoe tutti, avesse ora bisogno di sostegno? Aveva retto in piedi un’intera facoltà, reclutato i più promettenti insegnanti e contribuito al dibattito politico. Con discrezione, ma anche con passione civica, aveva sempre usato gli strumenti dell’economia per difendere i più deboli. Aveva tempo per tutti e per tutto, e a nessuno aveva negato il suo sostegno e conforto. Eppure, ora, si dimostrava incapace di abbandonarsi alle persone che gli volevano bene. Da quel mercoledì iniziarono giorni terribili: non volevamo dare la notizia in pasto alla stampa nel timore che, se fosse stato travolto dal clamore dei media, avrebbe potuto compiere atti inconsulti che speravamo fosse ancora possibile scongiurare. Telefonammo ai molti suoi amici sparsi per Roma e per il mondo, nella speranza che si fosse rifugiato a casa di uno loro. Cercammo di immaginare quali potevano essere state le sue mosse e trovammo un interlocutore di rara sensibilità umana nel capo della squadra mobile di Roma, Nicola Cavaliere. Se stava vagando per la città in stato confusionale, aveva bisogno di essere aiutato. Iniziammo a cercarlo sulle pendici della collina di Monte Mario, dove abitava, e nelle zone limitrofe. Ci fu chi perlustrò gli argini del Tevere, chi cercò nei dintorni della nuova facoltà di via Castro Laurenziano e della vecchia sede di Piazza Fontanella Borghese. Inseguimmo falsi indizi, come quello di un gioielliere che riteneva di averlo visto seduto sui gradini di una stazione della metropolitana. Negli stessi giorni, un altro anziano si buttò nel Tevere da Ponte Marconi ma ben presto, visti gli ingrandimenti delle foto scattate da un passante, escludemmo che si potesse trattare di lui. Bussammo alle porte dei conventi e chiedemmo aiuto al Vaticano. Armati di penna e taccuino, parlavamo con le persone che conosceva ricercando qualche indizio e raccomandando mille volte di mantenere la riservatezza. Per cinque lunghissimi giorni non abbiamo dato la notizia all’opinione pubblica, per paura che la vita di un uomo sensibile e straordinario come Caffè potesse essere insudiciata. Tramite Marco Ruffolo, uno dei suoi amati allievi, chiedemmo a Eugenio Scalfari di pubblicare su Repubblica un annuncio criptico dettato dal fratello: «Vinicio, torna a casa, sto male. A. «. In queste poche parole c’è forse il dramma estremo con cui Federico aveva costruito la sua esistenza: anche nel momento tragico in cui stava probabilmente pensando di porre fine alla propria vita, chi gli era più vicino sperava di convincerlo a cambiare idea richiamandolo ai suoi doveri verso gli altri piuttosto che a quelli verso se stesso. Del resto, era lui che da sempre aveva avuto tanta facilità a dare quanto difficoltà a ricevere. Portai la notizia all’Ansa una domenica pomeriggio. Fui bombardato di domande e ognuna di esse mi parve una violenza esercitata nei confronti del mio professore. Ci trovavamo in una situazione contraddittoria: da una parte, il clamore suscitato dalla sua scomparsa aumentava la possibilità che fosse rintracciato, dall’altra temevamo la passione per il giallo scandalistico dei mass media. Così nessuno di noi parlò della sua crisi depressiva e per anni e anni siamo stati reticenti nel descrivere lo stato in cui si trovava negli ultimi mesi. La scomparsa del piccolo grande economista non doveva inficiare l’aura che si era meritato con un’esistenza esemplare. Dopo un quarto di secolo, possiamo solo constatare che, qualsiasi sia stato il destino del nostro maestro, è stato quello che lui si è scelto. La sua vicenda non sarebbe ancora un mistero se nelle ore successive alla sua scomparsa non avesse dimostrato di avere le doti professionali di un agente segreto assai più che quelle di un austero docente. Anche la sua ultima pagina l’ha scritta senza farsi aiutare da nessuno. Quando la notizia divenne di pubblico dominio, giunsero numerosissimi allievi per aiutarci nelle ricerche. Spesso non ci conoscevamo, ma bastava uno sguardo per capire che appartenevamo alla medesima confraternita. Agli studenti degli ultimi anni si accompagnavano quelli dei decenni anteriori, e ognuno di loro chiedeva che cosa potesse fare di utile. Non era facile trovare una risposta perché neppure la polizia aveva fornito una casistica. Nell’organizzare le squadre che battevano la città palmo a palmo, chiedevo spesso qualche informazione sugli anni in cui lo avevano frequentato all’università. Mi sentivo ripetere sempre la stessa frase: «È stato il periodo più bello della mia vita». Ma lui, Federico Caffè, lo avrà mai saputo?