Mariarosa Mancuso, la Lettura (Corriere della Sera) 08/04/2012, 8 aprile 2012
LEGGENDA E VERITA’ DI UN GENIO INCOMPRESO
Un romanzo respinto dagli editori, uno scrittore suicida a 31 anni per la delusione, una mamma cocciuta che ricupera il manoscritto unto e quasi illeggibile, riuscendo a farlo pubblicare in 2.500 copie. Un premio Pulitzer postumo, i critici che trovano somiglianze con Rabelais e Cervantes, diritti venduti in mezzo mondo, il passaparola dei lettori — tra i fan anche Leonardo DiCaprio — che ne fa un bestseller e un libro di culto da citare a memoria. Questa la leggenda che da trent’anni accompagna Una banda di idioti di John Kennedy Toole, picaresca commedia ambientata nella New Orleans degli anni ’60 (in Italia, dopo l’edizione Rizzoli del 1982, lo ha rilanciato nel 1998 Marcos y Marcos, e ancora lo ristampa nella traduzione di Luciana Bianciardi).
Il titolo viene da un’osservazione di Jonathan Swift: «Quando nel mondo appare un vero genio, tutti gli idioti fanno banda contro di lui». Vale per il protagonista del romanzo, il pingue Ignatius J. Reilly che a trent’anni non lavora, abita con sua madre, è ghiotto di bomboloni ripieni di marmellata, veste comodo e fuori moda, non si separa mai dal cappello con paraorecchie. Appassionato di filosofia medievale, trova che il mondo a lui contemporaneo manchi «di teologia e geometria» (la dimostrazione è affidata a un fascio di appunti corredati da scarabocchi). E vale per lo scrittore, eletto a testimone dell’incapacità editoriale di riconoscere un capolavoro arrivato per posta.
Una biografia appena uscita negli Stati Uniti — Butterfly in the Typewriter di Cory MacLaughlin (Da Capo Press) — racconta John Kennedy Toole e la tormentata pubblicazione di Una banda di idioti con abbastanza revisionismo da irritare i fan affezionati alla leggenda. Tra questi, c’era Anthony Burgess: in una recensione pubblicata nel 1980, a romanzo appena uscito, certificò che «l’autore lo aveva mandato a tutti gli editori d’America, e tutti lo respinsero». In realtà, il manoscritto fu spedito soltanto a Simon & Schuster. Ne seguì uno scambio di lettere con Robert Gottlieb, l’editor che aveva scoperto Comma 22 di Joseph Heller (poi lavorerà sui testi di John Cheever, Salman Rushdie, Mordecai Richler).
Gottlieb riconobbe che il romanzo era ricco di adorabili personaggi e dialoghi smaglianti. La struttura però mancava. Era convinto che lo spazio occupato da Ignatius con le sue invettive contro la tv, l’esercito, le femministe, i neri, i poliziotti, i gay, i comunisti e i sostenitori dei diritti civili fosse eccessivo. Chiese modifiche, ne ottenne qualcuna, cercò di evitare il braccio di ferro suggerendo allo scrittore di immaginare un’altra storia. Troppo, per una mente che già vacillava (c’erano precedenti in famiglia, il padre fu ricoverato in clinica). E che ancora rimuginava su un libro scritto a sedici anni — La Bibbia al neon — bocciato a un concorso letterario. John Kennedy Toole partì per New York, in uno stato di agitazione tale che svenne nell’ufficio di Gottlieb. In preda a manie di persecuzione, si convinse che gli avevano sottratto il manoscritto per pubblicarlo con il nome di George Deaux e il titolo Superworm.
La leggenda incastra Robert Gottlieb nella parte del cattivo e fa risplendere l’amorosa mamma Thelma, dedita alla memoria del figlio suicida (a Biloxi, Mississippi, asfissiato dal gas di scarico dell’auto: era il 1969). La biografia di Cory McLaughlin rimette a posto le cose. Certifica, con interviste ad amici e colleghi, che John Kennedy Toole non sopportava più di vivere con i genitori, e sperava nel successo letterario per tranciare il cordone ombelicale. Per chi ha letto Una banda di idioti e conosce Irene Reilly, oppressiva e alcolizzata mamma del protagonista, non è una sorpresa (sia pure con le cautele che invitano a tener separate vita e letteratura).
Quando il romanzo ebbe successo, mamma Thelma si guadagnò le luci della ribalta rincorse in gioventù (era pianista e attrice dilettante). Le va riconosciuto il merito di aver convinto Walker Percy, con comportamenti quasi da stalker, a pubblicare Una banda di idioti presso la Louisiana State University Press. Altri dettagli incrinano però il santino. Convinse gli eredi legittimi per parte di padre a firmare una rinuncia sui diritti, e quando venne il momento di pubblicare Una Bibbia al neon si rimangiò la promessa fatta al primo editore (il libro uscì nel 1989, cinque anni dopo la scomparsa della madre-agente).
Thelma Toole distrusse il biglietto d’addio del figliolo, e anche la versione rimaneggiata del romanzo, aggiungendo insulti contro «gli ebrei che dominano l’editoria». Teneva pubbliche letture, interpretando alla maniera di Dickens tutti i personaggi, fu ribattezzata «Queen Mother of the Literati», progettò di scrivere un prequel sugli anni giovanili della sua controfigura romanzesca, si candidò per la parte di Irene Reilly quando un produttore di Hollywood mise in cantiere un film. Al funerale del figlio c’erano lei, il padre e l’affezionata governante nera Beulah. Al suo funerale, c’erano cinquanta persone.
Il film non si girò mai, nonostante molti tentativi (poco prima che l’attore morisse di overdose, il candidato al ruolo era John Belushi). Esiste invece, diretto nel 1995 dal Terence Davies di Voci lontane, sempre presenti, un adattamento poco riuscito di Una Bibbia al neon, con l’attrice Gena Rowlands. Operazione sbagliata in partenza: un britannico cesellatore di immagini era poco in sintonia con un romanzo ambientato nel Sud degli Stati Uniti. E molto più vicino alle atmosfere cupe di William Faulkner o Flannery O’Connor di quanto non lo sarà Una banda di idioti.
A sparare contro le sviste degli editori, per di più con il senno di poi, son buoni tutti. E non sappiamo se oggi mamma Thelma, o prima ancora il figliolo, avrebbero vissuto felici e contenti autopubblicandosi su Internet (ma i romanzi non basta stamparli e farli circolare, la letteratura è anche un gioco di riconoscimenti). Va tenuto però in gran conto il fattore comico. Una banda di idioti è zeppo di situazioni grottesche e di battute, perlopiù politicamente scorrette, pronunciate da Ignatius con magnifica faccia di bronzo (come contorno, rutti e flatulenze). I riferimenti a Boezio, alla ruota della Fortuna che decide i destini degli umani, alle Consolazioni della filosofia suonavano preziosi e stravaganti (Alain de Botton, moderno seguace di Montaigne e divulgatore di antichi filosofi, nasce giusto nel 1969). La miscela — «un Oliver Hardy impazzito, un Don Chisciotte grasso e un Tommaso D’Aquino perverso» sono gli ingredienti secondo Walter Percy — non era per tutti i gusti. Il triste destino dello scrittore molto contribuì al bestseller creando il personaggio.
Cory MacLaughlin dedica parecchie pagine all’infanzia e alla giovinezza dello scrittore. Non particolarmente notevoli: era un bravo ballerino, si dilettava a disegnar fumetti, adorava New York, era incuriosito dalla Beat Generation. L’idea del romanzo gli venne nel 1963 a Puerto Rico: chiamato alle armi, insegnava inglese alle reclute. Lì aveva una stanza tutta sua, una macchina per scrivere a prestito (poi comprò una Underwood-Olivetti da 165 dollari, scontata a 69), molto tempo libero. Prese spunto dai suoi professori di università e dai colleghi insegnanti, eccentrici e carichi di manie. Ma le ruberie non bastano a spiegare il suo talento e lo splendore di un romanzo che celebra le mille voci di New Orleans: bisogna mettere in conto l’occhio e l’orecchio del grande romanziere. Bravo anche a suggerire il titolo di questa biografia. Butterfly in the Typewriter viene da una poesia inedita, intitolata The Arbiter: un critico spietato ammazza una farfalla schiacciandola con il tasto della macchina per scrivere.
Mariarosa Mancuso