Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 08 Domenica calendario

LE 5 PAGINE MEMORABILI DELLA STORIA DELLA LETTERATURA: PERLE - B

rillano, non troppo, in qualche angolo strategico della storia. Le perle non sono mai il vero centro delle vicende. Accompagnano destini, completano ritratti, chiariscono personalità: non vogliono la ribalta. Eppure, qualche volta, esercitano l’enorme potere che l’impossibilità di capire tutto consegna ai dettagli della vita. «Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di pietre preziose; trovata una perla di grande valore va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Matteo 13,45-46).
Forse proprio perché sono le uniche gioie fabbricate da un essere vivente, grazie al lungo lavoro dell’ostrica per avvolgere nella madreperla il corpo estraneo entrato nella conchiglia, alla bellezza delle perle si perdona tutto. Anche la falsità. Ben prima che Coco Chanel sdoganasse l’eleganza del sautoir smaccatamente finto, la rivista «Teatri, arti e letteratura» nel 1838 assolveva per non aver commesso il fatto le signore con perle non vere, mentre «uno smeraldo falso è una bugia». Legate nelle collane, le perle narrano il tempo. Perché, come diceva il filosofo francese Henri Bergson, sono uguali, rassicuranti e distinte come i momenti che ne scandiscono la misura scientifica. Se però il filo si spezza e il fluire della vita cambia direzione, rincorrerle è difficile. Ecco allora cinque partiture d’autore per perle fondamentali con discrezione.
Marcel Proust,
Alla ricerca del tempo perduto
«Lo zio indossava la giacca da camera di tutti i giorni, ma davanti a lui con un abito di seta rosa e una lunga collana di perle al collo, era seduta una giovane donna che stava finendo di mangiare un mandarino». Così Marcel Proust presenta Odette, la personificazione della bellezza nel suo capolavoro, pubblicato in sette volumi tra il 1913 e il 1927. La passione tormentata di Charles Swann è ritratta in modo impressionista: un colore e una collana. «Una grande cocotte, come era stata lei, vive molto per i suoi amanti, vale a dire in casa (...). In vestaglia, in camicia da notte, deve essere altrettanto elegante che in abito da passeggio. Altre donne mettono in mostra i loro gioielli, lei vive nell’intimità delle sue perle». La collana definisce anche una delle mille Albertine. La regina del Tempo, il personaggio più complesso della Recherche, dorme. Vestita di perle: «Ogni volta che spostava la testa, creava una donna nuova, spesso insospettata (...). Il suo respiro, a poco a poco più profondo, le sollevava ora regolarmente il petto e, sopra questo (...), le perle, spostate in modo diverso dallo stesso movimento (...), la mano rimastami libera (...) era sollevata, anch’essa, come le perle (...). Mi ero imbarcato sul sonno di Albertine».
Truman Capote,
Colazione da Tiffany
«Non voglio possedere niente finché avrò trovato un posto dove io e le cose faremo un tutto unico». Non la ricerca del tempo, ma quella di un luogo «dove nulla di veramente brutto può capitarti», è l’anelito di Holly Golightly, la protagonista di Colazione da Tiffany (1958, Garzanti 2011). Holly nella memoria visiva di tutti è Audrey Hepburn (il film uscì nel 1961) che trasformò in icona di eterno buon gusto il tubino e le perle della vicina di casa descritta dallo scrittore narrante, alter ego di Capote. Ed ecco Holly-Audrey, anima senza schemi, padrona di un gatto senza nome, consolatrice di miliardari egoisti e di gangster carcerati con la mania delle previsioni del tempo, che sale le scale del palazzo: «i colori chiassosi dei suoi capelli da ragazzino, a ciocche fulve, venate di biondo albino e di giallo, riflettevano la luce della lampada. Era una sera calda, quasi estiva, lei indossava un abito nero, aderente e fresco, portava sandali neri e una collana di perle. Nonostante la sua elegante snellezza, aveva l’aria sana di chi vive di latte e burro e si lava con l’acqua e il sapone. Aveva le guance d’un rosa acceso, la bocca grande, il naso all’insù. Un paio di occhiali neri le cancellava gli occhi».
Tracy Chevalier,
La ragazza con l’orecchino di perla
Se Holly armata di perle cercava un posto nel mondo, Griet, servetta olandese del XVII secolo, con quelle della sua padrona si danna e si riscatta. Lei è la ragazza con l’orecchino di perla, l’adolescente anonima, dall’aria languida e stupita, ritratta in una delle più famose tele di Jan Vermeer. Un quadro di cui non si conosce l’origine, come poco si sa del suo pittore. Oggi è conservato al museo Mauritshuis dell’Aja e ha ispirato il romanzo (Neri Pozza, 2000) e un film (2003) dove sotto il turbante giallo e azzurro di Griet c’è Scarlett Johansson.
«Lo sapevo. Non l’avevo osservato a lungo — era troppo inquietante vedere me stessa là dentro — eppure avevo capito subito che era indispensabile l’orecchino di perla. Senza di esso c’erano solo i miei occhi, la mia bocca, lo scollo della camicia, la zona buia dietro il mio orecchio, ma come pezzi separati e indipendenti. L’orecchino li avrebbe legati, avrebbe fatto sì che il quadro fosse perfetto. Ma mi avrebbe anche gettata in strada». La fosca previsione si avvera: l’artista, preso dalla luce dei gioielli e da quella della ragazza, finisce il ritratto facendole indossare gli orecchini della moglie. Lo scandalo è immenso, la serva cacciata. Ma molti anni dopo, alla morte di Vermeer, Griet riceve in eredità quelle due gocce grigie, grosse come nocciole. Un lascito che la libera da ogni servitù: vendendole, infatti, riesce a mettere via per sé, senza che nessuno lo sappia, un piccolo gruzzolo. La polizza delle perle.
James M. Cain, Mildred Pierce
A volte il filo dei sentimenti si spezza. Le perle non reggono i colpi del destino e le illusioni rotolano, senza più ordine, ai nostri piedi. Cain, autorità del noir americano (chi non ha almeno sentito nominare Il postino suona sempre due volte?), utilizza una collana per descrivere la disintegrazione del mondo di Mildred Pierce (1941, Adelphi 2010). La donna coraggiosa, l’imprenditrice di se stessa che ha dribblato con successo tutti gli assalti della vita, compresi l’abbandono del primo marito e la Grande Depressione, scopre che l’amatissima figlia Veda le ha rubato il nuovo compagno. «Fu allora che Mildred si avventò. Ma non si avventò contro Monty, suo marito, l’uomo che l’aveva tradita. Balzò su Veda, sua figlia, colei che aveva semplicemente esercitato, per dirla con le parole di Mildred, il diritto di ogni donna: una creatura implacabile, più giovane di lei di diciassette anni, con dita di acciaio per i lunghi esercizi al piano e gambe di caucciù per aver cavalcato, nuotato, praticato tutti gli sport che sua madre aveva pagato. Ma quell’atleta si accasciò come fosse di gelatina davanti a una piccola donna paffuta, affannata, in abito nero, con il cappello di traverso e una collana di perle che si spezzò mandando le piccole sfere a rimbalzare per tutta la stanza».
Grazia Deledda,
La danza della collana
Non sempre si consumano rotture e la vita rimane uguale, fedele al succedersi dei giorni, nonostante l’infelicità. Finché qualcosa cambia l’ordine dei fattori. Una collana data in pegno e mai riscattata lega tre personaggi in un lungo racconto di Grazia Deledda (1916, Avagliano 2009). L’unico premio Nobel femminile della letteratura italiana osserva le esistenze di una zia e di una nipote, che condividono lo stesso nome, Maria Baldi. Un giorno alla loro porta si presenta Giovanni Delys, conte in disgrazia in cerca del gioiello perduto di sua madre. Nessuno dei tre racconta la verità: il giovane finge di voler acquistare un terreno, la nipote si spaccia per la zia, la zia si invaghisce segretamente dell’uomo. La storia si dipana tra mille amarezze, mentre la collana appare e scompare al collo della Maria più anziana, custode delle perle, e nei sogni della Maria più giovane. «Qualche volta di notte (...), cingeva la collana per tener vive le perle. Ebbene, io spiavo dal buco della chiave, per poterla vedere: ma non ci riuscivo. La mia adolescenza è stata tutta un sogno di questa collana». Il conte e la ragazza alla fine si sposano: «Il caso mi ha condotto fino a lei, signorina, il caso che in fondo è il filo di questa collana di giorni che è la vita».
Giuditta Marvelli